Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6765 del 01/03/2022

Cassazione civile sez. VI, 01/03/2022, (ud. 25/11/2021, dep. 01/03/2022), n.6765

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

Z.Y., nato il (OMISSIS) in Mpobi (Ghana) elettivamente

domiciliato in Roma, via Muzio Clementi n. 51, presso lo studio

dell’Avv. Santagata Valerio, rappresentato e difeso dall’Avv.

Urbinati Paola (P.E.C. (OMISSIS)) per procura speciale in calce al

ricorso per cassazione;

– ricorrente –

nei confronti di

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato ex lege presso Avvocatura dello Stato in Roma, PEC

(OMISSIS);

– intimato –

avverso il decreto n. 7815/2020 del Tribunale di Bologna, depositato

in data 25 novembre 2020, R.G. n. 13627/2018; sentita la relazione

in camera di consiglio del relatore cons. Andrea Fidanzia;

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35-bis, depositato il 14 settembre 2018, Z.Y., nato il (OMISSIS) ha adito il Tribunale di Bologna impugnando il provvedimento con cui la competente Data pubblicazione 01/03/2022 Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Nel richiedere il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, o ai sensi dell’art. 19 T.U.I. il ricorrente esponeva le seguenti ragioni: di avere una sorella e tre fratellastri; di essere rimasto orfano all’età di 8 anni di entrambi i genitori, morti in un incidente stradale; di essere stato accusato ingiustamente dai familiari di un collega di lavoro, con il quale aveva avuto in precedenza discussioni circa la divisione dei compensi del loro lavoro, di aver provocato la sua morte; di essere stato costretto da questa situazione a lasciare il Paese il 15 maggio 2015 e a fuggire prima in Niger, poi in Libia, dove aveva subito aggressioni e violenze che lo avevano traumatizzato, per approdare infine il 16 giugno 2017 via mare in Italia; di vivere a Cesena in un appartamento in locazione e di lavorare nel montaggio delle biciclette; che il datore di lavoro aveva intenzione di rinnovare il contratto e aveva rilasciato una dichiarazione perché potesse essere prodotta in questo giudizio. In sede giudiziale con memoria integrativa il ricorrente produceva una serie di documenti attestanti la sua attività lavorativa e la frequentazione di corsi di formazione professionale e di lingua italiana;

Il Tribunale ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento di alcuna forma di protezione.

In particolare, il Tribunale ha ritenuto il racconto generico e incoerente, ritenendo il ricorrente nel complesso non credibile e il timore legato al rientro in patria non fondato.

Il Tribunale ha in seguito aggiunto che “anche a voler ritenere credibili le accuse (ingiustificate) dei genitori dell’amico, il Data pubblicazione 01/03/2022 pericolo paventato non sarebbe comunque né concreto né attuale, non essendo emersa l’effettività del rischio di ingiusta carcerazione in relazione ad un delitto non certo e comunque eventualmente commesso da altri. Anche il fatto che la polizia si fosse recata presso l’abitazione della sorella a cercarlo non vale certo a comprovare il rischio paventato, ben potendosi ipotizzare che le forze di polizia fossero intenzionate ad acquisire ulteriori informazioni in ordine all’evento, anche al fine di individuare l’eventuale responsabile di un possibile avvelenamento (in ordine al quale, si ripete, non vi è neppure certezza, stando alle affermazioni dello stesso ricorrente). Il ricorrente ben avrebbe potuto ricercare, del resto, forme di tutela, proprio in ragione del sostegno del medico che aveva accertato la morte dell’amico, o ancora del comportamento da lui tenuto, essendo stato lo stesso ricorrente a portare in ospedale l’amico, con una condotta in aperto contrasto con un suo possibile coinvolgimento nell’omicidio. Mentre il ricorrente ha preferito allontanarsi dal Paese, senza ricercare alcuna forma di tutela o protezioné. Il Tribunale ha anche escluso i requisiti per la protezione ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sulla base delle COI consultate e menzionate.

Il Tribunale ha infine escluso la sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in ragione dell’inattendibilità della vicenda; della mancata allegazione di circostanze di particolare vulnerabilità soggettiva o di problemi di salute e pur ritenendo meritevole l’impegno di integrazione del ricorrente nel contesto sia lavorativo, sia formativo con profitto, sia sociale nell’ambito del volontariato – ha ritenuto detto impegno comunque non sufficiente e ha ritenuto il tempo trascorso in Italia (da giugno 2017) un arco temporale limitato ritenendo insussistenti gli elementi ostativi ai fini del rimpatrio in Ghana, ove ha ritenuto che sarebbero presenti comunque dei riferimenti familiari.

Avverso il predetto decreto il ricorrente con atto notificato il 23 dicembre 2020 ha proposto ricorso per cassazione, affidandolo a cinque motivi.

Il ministero intimato si è costituito tardivamente in giudizio ai soli fini di un’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Il ricorso è stato assegnato all’adunanza in camera di consiglio non partecipata del 25 novembre 2021 ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo è stata dedotta:

Nullità del decreto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per deviazione dall’impianto procedimentale previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, dal D.Lgs. n.. 150 del 2011, artt. 3 e 19 e dal D.Lgs. n.. 116 del 2017, art. 19-bis.

Il ricorrente rileva la compressione del proprio diritto di difesa a causa di un vizio procedimentale consistito nella subdelega dell’audizione da parte del giudice delegato dal collegio ad un giudice onorario.

2. Il motivo è manifestamente infondato.

Come statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 5425/2021, non è affetto da nullità il procedimento nel cui ambito un giudice onorario di tribunale, su delega del giudice professionale designato per la trattazione del ricorso, abbia proceduto all’audizione del richiedente la protezione ed abbia rimesso la causa per la decisione al collegio della Sezione specializzata in materia di immigrazione, atteso che, ai sensi del D.Lgs. n. 116 del 2017, art. 10, commi 10 e 11, tale attività rientra senza dubbio tra i compiti delegabili al giudice onorario in considerazione della analogia con l’assunzione dei testimoni e del carattere esemplificativo dell’elencazione ivi contenuta.

3. Con il secondo motivo è stata dedotta:

violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, e precisamente dell’art. 101 c.p.c., D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. art. 8, comma 2 violazione del principio del contraddittorio in relazione alla valutazione di credibilità.

Il ricorrente, nel contestare il giudizio di non credibilità del suo racconto formulato dalla Corte, lamenta la violazione del diritto al contraddittorio in quanto il giudice onorario subdelegato avrebbe potuto e dovuto, in sede di audizione, porre al richiedente le domande utili al Collegio per giungere alla decisione. Lamenta, inoltre, il ricorrente di aver richiesto un nuovo esame ove il Collegio avesse avuto ulteriori dubbi in merito ad alcuni aspetti della vicenda ed il Tribunale di Bologna, nel non concedere un nuovo ascolto, era venuto meno ad un suo preciso dovere istruttorio.

4. Il motivo è inammissibile.

Va osservato che questa Corte, nella sentenza n. 21584/2000 ha formulato il seguente principio di diritto (cui questo Collegio intende dare continuità): “Nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinnanzi alla Commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) quest’ultimo nel ricorso non ne faccia istanza, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire i predetti chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile.”

Nel caso di specie, la richiesta di nuova audizione formulata dal ricorrente si caratterizza per la sua estrema aspeficità, non avendo lo stesso indicato i punti su cui avrebbe voluto essere sentito, né i chiarimenti che intendeva eventualmente fornire, di talché la censura si appalesa del tutto generica e come tale inammissibile (vedi sul punto anche Cass. n. 8931/2020).

5. Con il terzo motivo è stata dedotta: violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 e precisamente del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 in relazione all’obbligo di assumere ufficiosamente le informazioni sullo stato di origine.

Il ricorrente si duole della mancata cooperazione istruttoria da parte del Giudice di merito, in quanto, una volta ritenuto credibile il racconto, sia pure in via eventuale e con il beneficio del dubbio, il Collegio avrebbe dovuto attivarsi al fine di reperire informazioni utili per verificare il pericolo di esposizione a rischio grave alla persona e alla vita. Nello specifico il ricorrente evidenzia che il rientro in patria lo porrebbe in una situazione di rischio concreto di arresto arbitrario e ingiusta detenzione in condizioni disumane.

6. Il motivo è inammissibile.

Va preliminarmente osservato che il Tribunale di Trieste ha ritenuto insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria nella fattispecie di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett a) e b), con una duplice ratio decidendi fondata sia sul giudizio di non credibilità del richiedente, sia sul rilievo che, anche a voler ritenere credibile il suo racconto, il pericolo dallo stesso paventato non sarebbe comunque né concreto né attuale, non essendo emerso il rischio di ingiusta carcerazione in relazione ad un delitto non commesso dal ricorrente. Il ricorrente, in particolare, avrebbe potuto provare al sua estraneità in relazione alla morte dell’amico, ma aveva preferito allontanarsi senza ricercare alcuna forma di tutela e protezione dalle autorità del suo paese.

Constatata la duplice ratio decidendi, deve dunque applicarsi, al caso di specie, l’orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui la ritenuta infondatezza o inammissibilità delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa (vedi Cass. n. 11493 del 11/05/2018).

Ne consegue che, avendo il ricorrente censurato la ratio decidendi che si fonda sul giudizio di non credibilità del suo racconto solo sotto il profilo, già ritenuto inammissibile al punto 4, della violazione del principio del contraddittorio, appare superfluo, per sopravvenuto difetto di interesse, soffermarsi sulle censure formulate dal ricorrente alla seconda ratio decidendi, con le quali si doleva che il giudice di merito non avesse acquisito d’ufficio le informazioni sul suo paese origine idonee a far emergere le condizioni difficili delle carceri ed il pericolo in Ghana di arresti arbitrari.

7. Con il quarto motivo è stata dedotta:

violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, cioè non è stata adeguatamente valutata la lettera del datore di lavoro e la lettera di romagna migrante, come elemento di integrazione sociale.

Il ricorrente evidenzia l’assoluta sinteticità della valutazione circa il grado di integrazione nel tessuto lavorativo e sociale italiano dopo anni di permanenza sul territorio; in particolare, il Giudice di prima istanza, dopo aver più volte definito lodevole l’impegno del ricorrente, non lo ha ritenuto sufficiente, omettendo nella decisione di valutare adeguatamente fatti rilevanti comprovanti il radicamento del richiedente, quali le lettere di stima del datore di lavoro allegate.

Infine, ad avviso del ricorrente, l’affermazione del Tribunale sulla esistenza di riferimenti familiari in Ghana si scontra con la descritta situazione familiare dopo la morte prematura dei suoi genitori.

8. Con il quinto motivo è stata dedotta:

violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3 e precisamente del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 32, comma 3 in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per non aver considerato, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, la situazione del paese di origine, in relazione al rispetto dei diritti primari anche in relazione al percorso di integrazioné.

Il ricorrente si duole dell’omissione, da parte del Giudice di prime cure, della comparazione cui era tenuto tra la complessiva condizione di inserimento sociale raggiunta dal richiedente in Italia e quella nella quale egli verrebbe a trovare in caso di rientro in Ghana anche in relazione alla carente tutela dei diritti fondamentali e alla situazione geopolitica che non offre alcuna garanzia di vita.

9. Entrambi i motivi, da esaminare unitariamente avendo ad oggetto la richiesta di protezione umanitaria, sono fondati. Va osservato preliminarmente che le Sezioni Unite di questa Corte, con la sentenza n. 24413/2021, hanno evidenziato che il focus della valutazione comparativa tra la condizione del richiedente protezione nel paese di accoglienza e in quello di origine va centrato sul rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo, quali definiti nelle Carte sovranazionali e nella Costituzione italiana, venendo, in primo luogo, in rilievo il disposto dell’art. 8 CEDU, che è centrale per valutare il profilo di vulnerabilità legato alla comparazione tra il contesto economico, lavorativo e relazionale che il richiedente troverebbe rientrando nel paese di origine e le condizioni di integrazione dal medesimo raggiunta in Italia nel tempo necessario al compimento dell’esame della sua domanda di protezione in sede amministrativa e giudiziaria.

In particolare, nell’effettuare il giudizio comparativo, il giudice di merito, deve valutare ai fini dell’individuazione della condizione di vulnerabilità “.. non solo il rischio di danni futuri legati alle condizioni oggettive e soggettive che il migrante (ri)troverà nel paese d’origine – ma anche il rischio di un danno attuale da perdita di relazioni affettive, di professionalità maturate, di osmosi culturale riuscita..”. Alla luce di tali considerazioni, è stato enunciato il principio di diritto secondo cui, quando si accerti che un apprezzabile livello di integrazione sia stato raggiunto dal richiedente protezione, se il ritorno nel paese d’origine rende probabile un significativo scadimento delle condizioni di vita privata e/o familiare sì da recare un vulnus al diritto riconosciuto dall’art. 8 Convenzione EDU, deve ritenersi sussistente un serio motivo di carattere umanitario, ai sensi dell’art. 5 T.U.Imm., per il riconoscere il permesso di soggiorno.

Non vi è dubbio che, nel caso di specie, il decreto impugnato, nel valutare la condizione di vulnerabilità del richiedente, abbia completamente omesso di esaminare il profilo della violazione dell’art. 8 CEDU, non attribuendo alcuna rilevanza al percorso di integrazione compiuto dal ricorrente, evidenziato dallo stesso giudice di merito con il riferimento alla frequentazione da parte del richiedente di corsi di lingua e di formazione professionale, oltre allo svolgimento da parte di costui di attività lavorativa oggetto di apprezzamento da parte del suo datore di lavoro.

Il decreto impugnato deve essere quindi cassato con rinvio al Tribunale di Bologna, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il quarto ed il quinto motivo, manifestamente infondato il primo ed inammissibili il secondo ed il terzo, cassa il decreto impugnato e rinvia al Tribunale di Bologna, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 25 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2022

 

 

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