Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6763 del 24/03/2011

Cassazione civile sez. lav., 24/03/2011, (ud. 15/02/2011, dep. 24/03/2011), n.6763

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FOGLIA Raffaele – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.A., C.G., domiciliati in Roma, presso la

Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, rappresentati e difesi

dall’avvocato MONTESANTO COSTANTINO ANTONIO, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIULIO ROMANO

5, presso lo studio dell’avvocato PRUNAS FRANCESCO, rappresentato e

difeso dall’avvocato MONTERA AMERICO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

C.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ATTILIO

REGOLO 19, presso lo studio dell’avvocato ANDREOTTA GIUSEPPE, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 242/2009 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 09/06/2009, R.G.N. 1653/07;

udita la relazione della, causai svolta nella pubblica udienza del

15/02/2011 dal Consigliere Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato ANDREOTTA GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello per il rigetto del ricorso principale, rigetto del

ricorso incidentale autonomo, assorbito il ricorso incidentale

condizionato.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 875/2007 il Tribunale di Salerno accoglieva per quanto di ragione il ricorso di C.A. inteso ad ottenere il riconoscimento del proprio diritto, ai sensi dell’art. 230 bis c.c., in virtù del lavoro prestato nell’azienda paterna in qualità di collaboratrice dal 1.1.1995 al 28.7.199, ad una percentuale sugli utili ed incrementi conseguiti dalla Farmacia (OMISSIS) nello stesso periodo nella misura del 40%, nonchè in ordine all’avviamento commerciale dell’azienda ed alla liquidazione del suo diritto di partecipante in ragione dell’intervenuta alienazione dell’azienda, nei confronti dei coeredi nella percentuale della loro partecipazione complessiva all’asse ereditario. Condannava pro quota i convenuti al pagamento della somma di Euro 32.071,42, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data del 24.7.1989 fino all’effettivo soddisfo; rigettava la riconvenzionale intesa ad ottenere la declaratoria di estinzione, ex art. 50 c.p.c., u.c., del giudizio relativo ad analoga domanda proposta innanzi al Tribunale di Salerno, dichiaratosi incompetente con pronunzia confermata dalla Corte di Appello n. 601/97.

Con sentenza del 9.6.2009, la Corte di Appello di Salerno, in parziale accoglimento dell’appello principale ed in parziale riforma della sentenza gravata, condannava gli appellati, pro quota, al pagamento, in favore dell’appellante, in luogo della somma liquidata dal primo giudice, di quella complessiva di Euro 76695,00, per i titoli azionati, oltre accessori di legge, dichiarando assorbiti gli appelli incidentali, confermava nel resto la decisione.

In sintesi, riteneva,, quanto alla sollevata eccezione di prescrizione dei crediti fatta oggetto di specifico appello incidentale, che la statuizione di incompetenza del giudice del lavoro di Roccadaspide a provvedere sulle istanze relative alla liquidazione dell’impresa familiare avrebbe dovuto essere impugnata con regolamento di competenza e che l’atto di appello del 15.5.1996 non era idoneo per la prosecuzione del giudizio instaurato dinanzi al Tribunale di Salerno relativamente all’autonoma domanda, dichiarata di competenza del giudice del lavoro; che la parte, in alternativa, per evitare l’estinzione, avrebbe dovuto, entro sei mesi dalla notifica della sentenza di primo grado, riassumere il giudizio dinanzi al giudice del lavoro di Roccadaspide, laddove il giudizio risultava riassunto soltanto in data 9.4,1998, all’esito della pronunzia della Corte di Appello, allorchè il termine era già scaduto; tuttavia – osservava – benchè il giudizio iniziato dinanzi al Tribunale nel 1991 si era già estinto con riguardo all’azione per la liquidazione dei diritti derivanti dall’esercizio dell’impresa familiare, non si era verificata alcuna prescrizione sostanziale dei diritti di credito esercitati entro il periodo di prescrizione quinquennale, decorrente dall’atto di appello, riguardato esclusivamente con riferimento alle richieste sostanziali ivi formulate, atteso che l’effetto interruttivo istantaneo derivante dalla messa in mora dei coeredi in ordine ai crediti non ancora concretamente liquidati non poteva non ritenersi provocato dall’atto notificato il 15.5.1996; rilevava, ancora, che, successivamente, la prescrizione quinquennale risultava nuovamente interrotta allorchè la C. aveva proposto la domanda di liquidazione delle spettanze al Pretore di Roccadaspide, immediatamente contestando l’avvenuta prescrizione.

Riteneva la Corte territoriale che non poteva ravvisarsi l’effetto interruttivo-sospensivo del procedimento sin dal 1991 e che le controparti dovevano ritenersi nuovamente messe in mora con fatto di appello del 15.5.1996. avuto riguardo al suo contenuto ed al suo tenore: avente valenza interruttiva istantanea; che successivamente si era verificato l’effetto sospensivo del termine prescrizionale a far data dal ricorso al pretore di Roccadaspide del 9.4.1998, giudizio tuttora in corso, essendo stata pronunziata la sentenza solo il 29.3.2007.

Sosteneva, in conclusione, che non si era verificato l’effetto interruttivo-sospensivo secondo l’art. 2945 c.c. ma solo quello interruttivo istantaneo, allorchè, a seguito di pronunzia di incompetenza, il giudizio non era stato riassunto e, quindi, si era estinto.

Quanto al merito, la Corte di Appello osservava che alla cessazione del rapporto, in coincidenza con il decesso del titolare della farmacia, la partecipazione agli utili per la collaborazione prestata in impresa familiare ex art. 230 bis c.p.c., vada determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione, nonchè dell’accrescimento di produttività dell’impresa in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato calcolando la percentuale di partecipazione (nello specifico 40%) sugli utili e sugli incrementi, e non sull’intero valore dell’azienda.

Rilevava che gli utili erano stati, tuttavia, reinvestiti nell’azienda e che, peraltro, la stessa C.A. non aveva mai avanzato richiesta di redistribuzione degli stessi, sicchè confermava la decisione di primo grado nella parte in cui aveva accolto la domanda relativa al riconoscimento degli utili solo dell’ultimo anno di collaborazione, laddove riformava la decisione per la mancata liquidazione dell’avviamento commerciale ed operando una media tra i due criteri presi in esame, perveniva ad un importo, proporzionato al 40% di spettanza e limitata in ragione della detrazione del suo debito ereditario, pari a Euro 76.695,00.

Propongono ricorso per cassazione C.G. e S. A., vedova C., affidando l’impugnazione a due motivi.

Resiste con controricorso C.A., che propone ricorso incidentale definito “subordinato”, fondato su cinque motivi, ricorso incidentale condizionato, nonchè ricorso incidentale autonomo, assistito da sei motivi di impugnazione.

Resiste anche C.C., con proprio controricorso. C. A. ha depositato anche memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va, preliminarmente, disposta la riunione dei ricorsi, proposti avverso la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.).

Con il primo dei motivi di ricorso. C.G. e S. A. deducono la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1219, 2943: 2945 e 2948 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n 3.

Contestano che dopo la proposizione delle domande con ricorso del 1991, in relazione alla seconda delle quali il giudice aveva dichiarato la propria incompetenza, con atto di appello del 15.5.1996, proposto in luogo del regolamento di competenza e senza che il giudizio fosse riassunto dinanzi al giudice del lavoro nel termine di sei mesi, si sia interrotto il termine di prescrizione quinquennale, posto che il giudizio, per effetto della mancata riassunzione si era estinto e che, proprio in ragione di ciò, la C. aveva proposto ex novo la relativa domanda con ricorso del 9.4.1998. Ritengono che già alla data del 23.5.1996 si era verificata l’estinzione, per prescrizione quinquennale, dei diritti azionati e che l’atto di appello notificato il 15.5.1996 era da considerarsi atto di mero impulso processuale, idoneo solo a far progredire il processo ad una fase ulteriore, come tate non inquadratale negli atti indicati nel primo e nell’art. 2943 c.c., comma 2 e non idoneo a costituire in mora il debitore.

Con il secondo motivo di impugnazione i suddetti ricorrenti lamentano l’omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia da essi prospettato, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Sostengono che il giudice del gravame non aveva chiarito perchè quello specifico atto di appello contenesse gli elementi concreti integranti i requisiti dell’atto di costituzione in mora ex art. 1219 c.c.. A conclusione della parte argomentativa, formulano quesiti sia in relazione al primo, che al secondo motivo.

Resiste con controricorso C.A., rilevando l’inammissibilità del primo motivo del ricorso principale, avendo la corte territoriale valorizzato l’appello alla stregua dell’art. 2943 c.c., comma 4 (altro atto che valga a costituire in mora il debitore) individuato come atto contenente in sè i requisiti di valida costituzione in mora, ed osservando che il motivo consiste in un inammissibile sindacato nel merito della valutazione operata dalla Corte territoriale sulla sussistenza dei requisiti predetti nell’atto indicato. Rileva che non era fatto controverso, che l’atto di gravame contenesse i suddetti requisiti e che mai ciò era stato contestato.

La C. propone, poi, ricorso incidentale subordinato sostenendo:

1) la violazione dell’art. 324 c.p.c., in relazione agli artt. 42 e 43 c.p.c., a suo dire pure violati, nonchè la falsa applicazione dell’art. 50 c.p.c., ultimo comma, vizi rilevanti ex art. 360 c.p.c., n. 3: deduce che sulla pretesa estinzione si era formato il giudicato, atteso che la Corte di Appello, con sentenza n. 601/1997, non impugnata, aveva deciso nel merito l’impugnativa sulla competenza, anzichè dichiarare inammissibile l’appello proposto sul punto, rileva che non si era verificato alcun effetto estintivo e, dunque, non si era esaurito l’effetto sospensivo della domanda svolta nel giudizio 3994/90;

2) la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2945 c.c., comma 3 e la violazione dell’art. 50 c.p.c.; in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3: chiede emendarsi la motivazione della sentenza di appello, in accoglimento di tale ricorso incidentale o, comunque, cassarsi la decisione impugnata;

3) la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 50 c.p.c., in relazione all’art. 125 disp. att. c.p.c. ex art. 360 c.p.c., n. 3:

assume che il giudizio instaurato con ricorso 9.4.1998 era da ritenersi quale giudizio in riassunzione a seguito della declaratoria di incompetenza funzionale, confermata dalla Corte di Appello con la decisione 601/97; sostiene che la sentenza impugnata sia incorsa anche in vizio di motivazione al riguardo;

4) la violazione dell’art. 2943 c.c., comma 1 e 2; ex art. 360 c.p.c., n. 3: sostiene che l’atto di appello vada equiparato all’atto introduttivo del giudizio anche quando lo stesso consista nella reiterazione delle domande già disattese in primo grado;

5) la falsa applicazione dell’art. 2948 c.c., la violazione dell’art. 2946 c.c. ex art. 360 c.p.c., n. 3: assume la natura non indennitaria della liquidazione dovuta per effetto della cessazione dei rapporto, la configurabilità di un rapporto di lavoro parasubordinato cui è applicabile l’ordinaria prescrizione decennale.

C.A. propone, infine, ricorso incidentale condizionato al mancato accoglimento della istanza di rettifica ex art. 237 c.p.c.:

deduce l’error in indicando e l’omessa o contraddittoria motivazione su di un fatto decisivo per un aspetto della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5), rilevando che il riconoscimento del diritto agli utili relativi all’anno 1989 non trova riscontro nel dispositivo, ove il corrispondente importo non risulta inserito in quello finale, nonostante si confermi la sentenza sul punto.

Con ricorso incidentale autonomo, infine, la C. deduce:

1) la nullità (parziale) della sentenza, ex art. 4, art. 360 c.p.c. e l’omessa motivazione circa fatto controverso, decisivo su uno degli aspetti della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5) sostiene che era stato denegato, essendo stato riconosciuto solo il diritto alla quota di incremento dell’avviamento commerciale, l’incremento risultante dalla denuncia di successione, ritenendolo ricompreso nel primo, e che ciò concretizzi una pronunzia ultrapetita, senza avversario appello: 1 bis) anche vizio motivazionale, dal momento che erano stati calcolati valori diversi, da aggiungere all’avviamento, quali quelli rivenienti dall’incremento dei beni strumentali e giacenze di magazzino già riconosciuti dal primo giudice;

2) la violazione dell’art. 230 bis c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), assumendo che la norma in questione prevede il diritto del partecipante ad una quota in relazione sia agli incrementi dei beni materiali verificatisi durante la collaborazione all’impresa familiare, sia all’incremento dell’avviamento commerciale;

3) la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, nonchè dell’art. 244 c.p. e in relazione all’art. 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3): contesta la decisione per quanto ritenuto in ordine al reinvestimento di utili maturati anteriormente al 1989, negati sulla base della considerazione del diritto al mantenimento del proprio nucleo familiare e della dichiarazione resa dal teste C.: 3 bis) assume che sia onere della controparte dare la dimostrazione dell’avvenuto reimpiego di utili;

4) la nullità della decisione ex art. 360 c.p.c., n. 4 e, comunque, l’omessa motivazione su fatto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5), censurando la decisione per avere condannato i resistenti pro quota, sull’assunto che il debito gravava sulla massa, e che i coeredi erano rimasti beneficiari in comune dei rimanenti beni dell’asse ereditario e che, quindi, il debito rinveniente dall’impresa familiare era continuato a gravare su tutti: che, peraltro, le parti avevano in tal senso pattuito e sulla richiesta di condanna in solido la Corte di Appello non aveva statuito; evidenziando, comunque, l’omessa motivazione sul fatto contestato della relazione giuridica esistente tra le parti, riconducibile all’accettazione dell’eredità, ovvero a specifica pattuizione contenuta nell’atto per notar Salomi del 2.8.1998 circa l’obbligo congiunto di rispondere dei debiti ereditari derivanti dall’azienda “farmacia”;

5) la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 752 – 754 c.c., in relazione agli artt. 420 – 490 c.c. pure violati (art. 360 c.p.c., n. 3), assumendo che l’esame delle norme sull’accettazione dell’eredità (art. 470 c.c.), in correlazione con quelle regolanti la liquidazione dell’eredità beneficiata, non consentano dubbi su fatto che rispetto al terzo non sia ipotizzarle un pagamento pro quota, non rilevando le disposizioni degli artt. 752 e 754 c.c., che si riferiscono alla ripartizione interna o presuppongono l’intervenuta divisione, laddove l’atto di divisione in atti prevedeva che quanto assegnato a stralcio a C.A. fosse al netto dei crediti e debiti aziendali, che restavano in capo a tutti e quattro i coeredi del defunto in proporzione alle loro quote nella comunione ereditaria, rilevando che, al di là della denominazione dell’atto, non si era proceduto a divisione; ma a cessione con compensazione parziale del prezzo pagato per effetto della partecipazione della quota dell’ A. sui valori attivi dell’eredità e che la deroga alla regola della solidarietà passiva posta dall’art. 754 c.c., era anche tacitamente derogabile dagli eredi, che: appunto, avevano alla stessa derogato con l’atto in questione.

6) la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c., comma 4, (art. 360 c.p.c., n. 3): sostenendo che la norma in questione prevede, al primo comma, il diritto del partecipante in relazione alla “vigenza dell’impresa” ed al quarto comma la liquidazione in denaro, che rappresentano due diverse ragioni di credito (diritti connessi alla dinamica della vita dell’impresa nei primo caso e nel secondo diritti di partecipazione in fase statica al momento della sua liquidazione).

Il ricorso principale è infondato. La contestazione mossa alla sentenza impugnata in relazione al valore attribuito dalla stessa all’atto di appello del 15.5.1996 non risulta condivisibile, non essendo la corte territoriale incorsa nella violazione delle norme citate nel motivo di impugnazione nel qualificare l’atto in questione non come mero atto di impulso processuale, ma come atto idoneo a costituire in mora i debitori.

Va al riguardo premesso che, nel sistema delineato dall’art. 2945 cod. civ., l’instaurazione del giudizio interrompe la prescrizione e ne sospende il decorso fino al passaggio in giudicato della sentenza (anche di rito) che definisce il giudizio e che, quando il processo si estingue, invece, la prescrizione decorre dalla data dell’atto interattivo. Non può, pertanto, prodursi l’effetto interattivo sospensivo enunciato nel citato art. 2945, comma 2, quando un processo, all’esito di una pronuncia declinatoria della competenza, come nella specie, non sia tempestivamente riassunto, non potendo più ravvisarsi l’unicità del processo.

In caso di estinzione del processo, di norma solo l’atto introduttivo del giudizio ha efficacia interruttiva istantanea della prescrizione, che ricomincia a decorrere dalla data di tale atto, non avendo efficacia interruttiva le attività processuali svolte nel processo estinto, tuttavia, all’interno di un processo poi estintosi può esplicare efficacia interruttiva della prescrizione il singolo atto processuale, qualora esso esprima al contempo anche un contenuto sostanziale, essendo espressione di un comportamento inequivoco del creditore volto a far valere il proprio diritto e tale da comportare la costituzione in mora del debitore (cfr. Cass. 18.1.2006 n. 825). E la valutazione della idoneità di un atto ad interrompere la prescrizione, quando non si tratti degli atti previsti espressamente e specificamente dalla legge come idonei all’effetto interruttivo.

come nei casi indicati nell’art. 2943 cod. civ., primi due commi, costituisce apprezzamento di fatto, come tale riservato ai giudice del merito ed insindacabile in sede di legittimità se immune da vizi logici o da errori di giudizio (cfr Cass. 18.9.2007 n. 19359).

Nella specie, come si evince dalla lettura della sentenza impugnata, la Corte territoriale ha espressamente rilevato come con l’atto di gravame del 15.5.1996, l’appellante “ha regolarmente messo in mora le controparti con riferimento proprio alle spettanze a lei derivanti dall’impresa familiare” ed ha aggiunto che l’atto di gravame in oggetto “avuto riguardo al suo specifico tenore può valere come atto interruttivo istantaneo della prescrizione dei crediti vantati da C.A. in considerazione della disciolta impresa familiare paterna, come ravvisata dal giudice di Salerno del 1996 e successivamente confermata in data 22.10.1997″.

Deve: pertanto, escludersi che l’atto di appello abbia avuto solo una funzione di impulso processuale, inidonea a determinare l’effetto interruttivo conferitogli, nè sono individuabili ragioni che valgano ad evidenziare vizi logici o errori di giudizio da parte del giudicante in ordine all’apprezzamento dello stesso compiuto, quanto piuttosto un inammissibile sindacato nel merito della valutazione operata. Peraltro i motivi, da trattarsi congiuntamente, mancano del requisito di autosufficienza, essendo stato omesso di riportare il contenuto dell’atto del maggio 1996.

Il rigetto del ricorso principale determina l’assorbimento del ricorso incidentale definito ‘subordinato”, che presuppone che i rilievi dei primo siano fondati.

Il ricorso incidentale condizionato al mancato accoglimento dell’istanza di rettifica ex art. 287 c.p.c., non deve esaminarsi in considerazione della mancanza di ogni riferimento all’esito della istanza di cui sopra.

Passando all’esame dei motivi del ricorso incidentale autonomo, il rilievo attinente alla pronunzia resa ultrapetita nella parte in cui, anche con vizio motivazionale, sarebbe stato denegato quanto già riconosciuto dal giudice di primo grado in relazione all’incremento risultante dalla denunzia di successione senza specifico appello sul punto: non menta di essere condiviso, ove si osservi che il 77,78% dell’importo di Euro 81.736,94 – determinato quale media del 40% dei valori stabiliti quale incremento dell’avviamento commerciate calcolati in base a criteri diversi – è pari ad Euro 63.574,99 e che, aggiungendo a tale importo ulteriori L. 32.664.000, pari ad Euro 16,869,54 – risultanti dalla dichiarazione dei redditi relativi all’anno 1989 e già liquidati in primo grado – si perviene ad un importo di poco superiore a quello liquidato, comprensivo anche della liquidazione degli utili. Peraltro, se avesse voluto contestare che la somma non corrispondeva esattamente all’ammontare dovuto avrebbe dovuto la ricorrente incidentale specificare i singoli addendi che sarebbero stati erroneamente presi a riferimento dal giudice del gravame, censurando la decisione con articolata e puntuale definizione delle poste creditorie asseritamente omesse nel calcolo.

Non risulta che tale specificazione sia contenuta nel corrispondente motivo di ricorso, nè il quesito è idoneo a chiarire i termini della questione sottoposta all’esame di questa Corte.

Va da sè che anche il secondo motivo di ricorso riflette le omissioni evidenziate non potendo con certezza escludersi che la corte territoriale abbia già computato anche il valore degli incrementi dei beni materiali verificatisi durante la collaborazione all’impresa familiare, oltre all’incremento dell’avviamento commerciale.

In relazione alla asserita violazione e falsa applicazione dell’art. 2967 c.c., comma 2, e dell’art. 244 c.p.c., con riguardo all’onere di provare l’avvenuto reinvestimento degli utili maturati anteriormente al 1989, la censura si rivela inammissibile nella misura in cui emerge che la ricorrente, attraverso i passaggi argomentativi della censura, avanza sostanzialmente una richiesta – inammissibile in questa sede di legittimità – di rivalutazione del materiale probatorio acquisito nel processo, ritenendo che la prova non possa desumersi dalla dichiarazione di un teste (netto specifico quella resa dal teste C.) che avrebbe espresso, sul punto, a dire della ricorrente incidentale, una propria opinione e non la conoscenza di un fatto come invece previsto dall’art. 244 c.p.c..

Peraltro, deve rilevarsi che anche i quesiti di diritto per come formulati non rispondono ai canoni di cui all’art. 366 bis c.p.c., risultando esposta solo una richiesta generica di accertamento della violazione della norma di legge, laddove il quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve comprendere l’indicazione sia della “regula iuris” adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo, la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass. 30.9,2008 n. 24339 cui adde: tra le tante, Cass. 19 febbraio 2009 n. 4044)).

Passando all’esame del quarto motivo del ricorso incidentale autonomo, si osserva che il motivo presuppone che già con l’atto di gravame sia stata sollevata la questione della erroneità della condanna dei coeredi pro quota e non in solido, come disposto anche da primo giudice, ma il contenuto della specifica censura sollevata nel giudizio di appello ai riguardo viene riportato senza considerare che la pattuizione asseritamele contenuta nell’atto divisionale a stralcio: per notar Salomi del 2.8.1998, non contiene un espresso riferimento al vincolo di solidarietà nei debiti aziendali, che, anzi, si precisa che gravino in proporzione alle loro quote nelle comunione ereditaria. L’atto, in ogni caso non risulta f. depositato e prodotto nella presente sede e ciò deve ritenersi in violazione dei principio di autosufficienza e di quanto prescritto, per i ricorsi relativi a sentenze pubblicate dopo l’entrata in vigore della L. n. 40 del 2006, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione al deposito di atti processuali, documenti, su cui il ricorso si fonda. Il requisito non appare nella specie soddisfatto, atteso che si è omesso di precisare in quale sede processuale il documento in oggetto dei quali si assume l’omesso esame è stato prodotto nelle fasi di merito e dove, quindi, la Corte potrebbe esaminarlo in questa sede, per effetto della relativa già avvenuta,produzione nelle fasi di merito.

Al riguardo, è stato, invero, osservato, che anche con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, ad integrare il requisito della autosufficienza del motivo di ricorso per cassazione concernente, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., n. 5 (ma la stessa cosa dicasi quando la valutazione deve essere fatta ai fini dello scrutinio di un vizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, o di un vizio costituente error in procedendo ai sensi dei numeri 1, 2 e 4 di detta norma), la valutazione da parte del giudice di merito di prove documentali, è necessario non solo che tale contenuto sia riprodotto nel ricorso, ma anche che risulti indicata la sede processuale del giudizio di merito in cui la produzione era avvenuta e la sede in cui nel fascicolo d’ufficio o in quelli di parte, rispettivamente acquisito e prodotti in sede di giudizio di legittimità essa è rinvenibile. L’esigenza di tale doppia indicazione, in funzione dell’autosufficienza, si giustificava al lume della previsione del vecchio dell’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, che sanzionava (come, del resto, ora il nuovo) con l’improcedibilità la mancata produzione dei documenti fondanti il ricorso, producibili (in quanto prodotti nelle fasi di merito) ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., comma 1 (cfr. Cass. 25.5.2007 n. 12239: Cass. 20594/2007; 20437/2008, 4056/2009).

Gli ulteriori motivi, relativi alla violazione e/o falsa applicazione degli artt. 752-754 c.c. e dell’art. 230 bis c.c., comma 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, configurano questioni nuove, non essendo stato specificato che le tali questioni siano state già poste nei precedenti gradi del giudizio, donde l’inammissibilità della relativa proposizione nella presente sede processuale.

Peraltro, anche il quesito si presenta generico, perchè non indica il diverso principio di diritto cui la Corte si sarebbe attenuta e ciò in violazione delle regole: già sopra enunciate, in tema di formulazione dei quesiti di diritto ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Per le considerazioni svolte, i ricorsi, principale ed incidentale, vanno rigettati e va confermata la sentenza impugnata per essere la stessa supportata da una motivazione che, oltre ad essere congrua e priva di salti logici, ha fatto corretta applicazione della normativa applicabile alla fattispecie in esame.

Attesa la reciproca soccombenza le spese di lite del presente giudizio vanno compensate tra tutte le parti, considerato che la posizione del coerede C.C. risulta sostanzialmente adesiva alle ragioni sostenute da C.G. e S.A..

P.Q.M.

La Corte così provvede:

riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa tra tutte le parti le spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2011

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