Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6763 del 07/04/2016


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Civile Sent. Sez. L Num. 6763 Anno 2016
Presidente: DI CERBO VINCENZO
Relatore: BOGHETICH ELENA

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo
comma, n. 5, c.p.c. omessa e contraddittoria motivazione circa un
fatto decisivo del giudizio, nonché violazione dell’art. 132, comma 4,
c.p.c. avendo, la Corte territoriale, formulato una valutazione priva di
riscontri oggettivi e probatori nonché viziata nello sviluppo delle
argomentazioni logico-giuridiche circa la conoscenza, da parte della
lavoratrice, di due reclami proposti dalla ditta Eurosped quale mittente
di due raccomandate. La Malfetta osserva che il giudice di appello è
giunto alla conferma del licenziamento dando per scontato che la
restituzione, all’ufficio contabile delle Poste Italiane, delle somme
riscosse dai destinatari in sede di consegna dei plichi in contrassegno
dopo alcuni anni ma in data precedente alla contestazione disciplinare
sia stata effettuata nella consapevolezza della presentazione dei
reclami da parte di una società mittente di due raccomandate,
nonostante tale conoscenza non fosse emersa da alcuna fonte
probatoria. Invero, i due reclami erano pervenuti al Centro Principale di
Distribuzione — CPD delle Poste Italiane di Falconara Marittima in
R.G.n. 2147412014

Relatore Boghetich

Udienza 16/12/2015

Data pubblicazione: 07/04/2016

R.g. 21474/2014 Udienza 16/12/2015
Relatore Boghetich

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data 2 novembre 2011, ufficio diverso da quello (Presidio di
Distribuzione – PDD di Monte San Vito) ove la lavoratrice svolgeva la
propria attività. La Corte territoriale aveva, pertanto, errato nel ritenere
che la lavoratrice fosse informata dei reclami proposti da un utente e
che le operazioni di restituzione delle somme a suo tempo riscosse da
parte della lavoratrice, effettuate nei giorni del 3, 8 e 12 novembre
2011, non fossero state spontanee.
2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell’art. 360,
primo comma, n. 5, c.p.c., omessa e contraddittoria motivazione circa
un fatto decisivo del giudizio, nonché violazione e falsa applicazione
dell’art. 646 c.p.
avendo, la Corte territoriale, adottato una
motivazione perplessa e incomprensibile con riguardo all’aspetto
soggettivo e al profilo dell’intenzionalità da parte della dipendente, non
potendo ritenersi integrati gli elementi
costitutivi del reato di
appropriazione indebita e, di conseguenza, aspetti di gravità tali da
configurare una giusta causa di licenziamento.
3. Con il terzo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma,
n. 5, omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo del
giudizio nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116
c.p.c. non avendo, la Corte territoriale, attribuito corretta valenza
probatoria alla deposizione rilasciata dal testimone Lalli circa la
detenzione di una mazzetta di banconote in un cassetto personale
dell’ufficio postale.
4. Con il quarto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma,
n. 5, omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo del
giudizio nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge
20 maggio 1970, n. 300, non avendo considerato correttamente, la
Corte territoriale, l’intensità dell’elemento intenzionale della dipendente
che aveva provveduto ad effettuare i versamenti relativi ai
contrassegni senza essere a conoscenza dei reclami pervenuti alla
società.
5. Con il quinto motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360, primo comma,
n. 5, omessa e contraddittoria motivazione circa la valutazione di
tempestività della contestazione disciplinare, inoltrata alla lavoratrice
dopo un lasso di tempo pari a circa quattro mesi dalla presentazione
del reclamo da parte della società utente del servizio postale.
6. Con un ulteriore quinto (rectius sesto) motivo si deduce, ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 5, omessa e contraddittoria motivazione
circa un fatto decisivo del giudizio nonché violazione e falsa
applicazione dell’art. 7, comma 1, della legge 20 maggio 1970, n. 300

7. Le doglianze esposte con il primo, il secondo, il terzo ed il quarto
motivo possono essere esaminate congiuntamente, attenendo tutte
all’elemento soggettivo e al difetto di proporzionalità della sanzione
rispetto al fatto contestato, e debbono ritenersi in parte inammissibili e
in parte infondate.
7.1. Inammissibili laddove parte ricorrente sottopone e richiede a
questa Suprema Corte un riesame delle circostanze di fatto e delle
risultanze istruttorie; laddove denuncia, inoltre, un vizio motivazionale
in difetto dei requisiti richiesti dal novellato art. 360, primo comma, n. 5
(trattandosi di sentenza pubblicata dopo 1 1 11.9.2012 e ricadendo,
pertanto, l’impugnazione sotto la vigenza della modifica apportata dal
d.l. 22 giugno 2012, n. 83 convertito con modificazioni, dalla L. 7
agosto 2012, n. 134).
7.2. Va premesso che secondo costante orientamento di questa Corte
è devoluta al giudice di merito l’individuazione delle fonti del proprio
convincimento e, pertanto, anche la valutazione delle prove, il controllo
della loro attendibilità e concludenza, la scelta – tra le risultanze
probatorie – di quelle ritenute idonee ad accertare i fatti oggetto della
controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di prova e
disattendendone altri, in ragione del loro spessore probatorio, con
l’unico limite dell’adeguata e congrua motivazione del criterio adottato
(ex plurimis Cass. n. 1414/2015, n. 13054/2014, n. 10213/2007, Cass.
n. 16034 del 2002, Cass. n. 5964 del 2001). Inammissibile risulta,
quindi, la doglianza relativa alla maggiore attendibilità del testimone
Lalli piuttosto che del testimone Capogrossi.
7.3. Il nuovo testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. prevede che
la sentenza può essere impugnata per cassazione “per omesso
esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di
discussione tra le parti”.

L’intervento di modifica, come recentemente interpretato dalle Sezioni
Unite di questa Corte, comporta un’ulteriore sensibile restrizione
dell’ambito di controllo, in sede di legittimità, sulla motivazione di fatto.
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Relatore Boghetich

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avendo erroneamente ritenuto, la Corte territoriale, che non fosse
necessaria l’affissione del codice disciplinare all’interno dell’ufficio
postale, nonostante la condotta della lavoratrice non integrasse un
comportamento avente intrinseco disvalore sociale ma configurasse
esclusivamente un inadempimento agli obblighi imposti ai dipendenti
dal regolamento interno circa le iscrizioni da effettuarsi sui registri dei
contrassegni.

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Relatore Boghetich

Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno
chiarito che la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.
deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati
dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del
sindacato di legittimità sulla motivazione.
Pertanto, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale
che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in
quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio
risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto
con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella
“mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella
“motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni
inconciliabili’ e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente
incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione. Dunque, per le fattispecie ricadenti,
ratione temporis, nel regime risultante dalla modifica dell’ad. 360,
primo comma, n. 5), cod. proc. civ. ad opera dell’ad. 54 del dl. 22
giugno 2012, n. 83, il vizio di motivazione si restringe a quello di
violazione di legge. La legge, in questo caso, è l’art. 132 c.p.c., che
impone al giudice di indicare nella sentenza “la concisa esposizione
delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”.
Perché la violazione sussista, secondo le Sezioni Unite, si deve
essere in presenza di un vizio “così radicale da comportare con
riferimento a quanto previsto dall’art. 132, n. 4, cod. proc. civ. la nullità
della sentenza per mancanza di motivazione”.
Mancanza di motivazione si ha quando la motivazione manchi del tutto
oppure formalmente esista come parte del documento, ma le
argomentazioni siano svolte in modo “talmente contraddittorio da non
permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del
decisum”.
Pertanto, a seguito della riforma del 2012 scompare il controllo sulla
motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, ma resta il
controllo sulla esistenza (sotto il profilo della assoluta omissione o
della mera apparenza) e sulla coerenza (sotto il profilo della irriducibile
contraddittorietà e dell’illogicità manifesta).
Nessuno di tali vizi ricorre nel caso in esame e la motivazione non è
assente o meramente apparente, né gli argomenti addotti a
giustificazione dell’apprezzamento fattuale risultano manifestamente
illogici o contraddittori. In particolare, la Corte territoriale ha preso in
considerazione la circostanza della restituzione delle somme, riscosse

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negli anni 2009-2010-2011 da parte della dipendente, in date
precedenti l’invio della contestazione disciplinare, ma ha ritenuto che
rappresentasse mero elemento di attenuazione, non decisivo, della
gravità del fatto.

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Relatore Boghetich

7.4. I motivi si appalesano, altresì, infondati in quanto la Corte
territoriale nel caso di specie ha fatto corretta applicazione del
richiamato orientamento giurisprudenziale, prendendo in esame
l’intero quadro delle testimonianze assunte, dando conto delle
dichiarazioni dei testi e valutando gli elementi documentali acquisiti,
sicché il suo convincimento è sostenuto da adeguata e logica
motivazione.
Il giudice di appello ha ricostruito pertanto la condotta della Malfetta in
tutti i suoi profili (soggettivo ed oggettivo) evidenziandone la gravità in
relazione alla natura del rapporto di lavoro e alla delicatezza delle
mansioni di addetta al recapito svolte dalla lavoratrice, sicché
l’addebito mosso (appropriazione di somme rappresentanti il
controvalore dei plichi consegnati) era tale da far venir meno la fiducia
del datore di lavoro nell’operato del dipendente (in tal senso ex
plurimis Cass. n. 10213/2007, Cass. n. 14507/2003, Cass. n.
6609/2003).
In questo quadro il giudice di appello ha ritenuto la sanzione espulsiva
ampiamente giustificata ed adeguata alla gravità della condotta, la cui
componente soggettiva è stata considerata sussistente per aver
trattenuto, la Malfetta, le somme (da versare allo sportello dell’ufficio
contabile) in un ampio arco di tempo e per aver mantenuto una
“condotta fraudolenta (attuata — giova ripetere – tramite una falsa
attestazione nel registro che serviva per verificare gli importi da
restituire ai mittenti dei pliche La Corte, all’esito di una compiuta e
dettagliata disamina del comportamento della lavoratrice nello
specifico contesto fattuale, ha evidenziato, con motivazione adeguata
e priva di vizi logici, che la Malfetta ha trattenuto le somme ricevute dai
destinatari dei plichi postali per vari anni, senza operare versamenti
presso l’ufficio e, per di più, “preordinando annotazioni false (giova
ripetere nel registro “28C”), finalizzate ad evidenziare che non erano in
sofferenza versamenti da eseguire alla sportelleria (per la definitiva
consegna agli aventi diritto)”.
Tale congrua e logica motivazione non risulta oggetto di specifiche
censure, sicché i motivi dal primo al quarto debbono rigettarsi.

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8. Il quinto motivo è infondato.
Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare (Cass. 1
luglio 2010, n. 15649), “in tema di licenziamento per giusta causa,

l’immediatezza della comunicazione del provvedimento espulsivo
rispetto al momento della mancanza addotta a sua giustificazione,
ovvero rispetto a quello della contestazione, si configura quale
elemento costitutivo del diritto al recesso del datore di lavoro, in
quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento
espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro
abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo non grave o
comunque non meritevole della massima sanzione la colpa del
lavoratore; peraltro, il requisito della immediatezza deve essere inteso
in senso relativo, potendo in concreto essere compatibile con un
intervallo di tempo, più o meno lungo, quando l’accertamento e la
valutazione dei fatti richieda uno spazio temporale maggiore ovvero
quando la complessità della struttura organizzativa dell’impresa possa
far ritardare il provvedimento di recesso, restando comunque riservata
al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in
concreto giustifichi o meno il ritardo.” (in senso conforme Cass. 6
maggio 2015 n. 9102; Cass. 10 settembre 2013, n. 20719).

Nella fattispecie in esame la Corte territoriale ha applicato
correttamente tali principi nel momento in cui, con motivazione
adeguata ed esente da vizi di carattere logico-giuridico, ha spiegato
che il primo impulso all’accertamento dei fatti era pervenuto all’azienda
solamente a novembre 2011, che l’istruttoria aveva poi dovuto
riguardare la verifica incrociata dei registri dei contrassegni estesa
all’arco triennale risalente, che le indagini si erano concluse il 10
gennaio 2012 e che, successivamente, tutto il materiale raccolto era
passato al vaglio della Direzione delle Risorse umane competente per
la valutazione e la decisione relativa alla promozione dell’azione
disciplinare; non era risultato, quindi, che la condotta aziendale
avesse subito indebiti rallentamenti, per cui risultava proporzionato
alla complessità degli episodi lo spazio temporale maturato sino alla
contestazione degli addebiti del 24 febbraio 2012 (cfr. con riguardo a
valutazioni di analogo tenore dello spatium deliberandi di circa quattro
mesi e relative alla stessa società intimata, cfr. Cass. 6 maggio 2015
n. 9102).
In definitiva, la Corte territoriale ha dimostrato di aver correttamente
applicato il principio dell’immediatezza, rapportandolo alle diverse
circostanze di fatto adeguatamente scrutinate e rilevando che lo
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spazio temporale intercorso tra la conoscenza dei fatti e la loro
contestazione non era risultato di ostacolo al pieno esercizio del diritto
di difesa da parte della lavoratrice, essendo, viceversa, del tutto
compatibile con l’esigenza di pervenire ad un completo accertamento
della verità dei fatti.

9. L’ultimo motivo, attinente alla mancata affissione del codice
disciplinare, non è fondato.
Il giudice di secondo grado ha affermato che l’ addebito disciplinare
concerneva l’appropriazione indebita di somme, perpetrata per vari
anni, tale da integrare gli estremi di un reato contro il patrimonio.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della validità del
licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la
previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di
norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore,
riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione (Cass. n.
22626/2013, Cass. n. 14997 del 2010).
Ritiene questa Corte, in applicazione del suddetto principio, al quale si
intende dare continuità, che la condotta dell’appropriazione di somme
consegnate dagli utenti del servizio postale contrasti, ex se, con il c.d.
minimo etico o con norme penali.
10. Le spese di lite del presente giudizio seguono il criterio della
soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di
entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012,
n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002,
n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore:
“Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o
è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è
tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari
a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a
norma art i bis. Il giudice da atto nel provvedimento della sussistenza
dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento
sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso in
questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da
respingersi, deve provvedersi in conformità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento in
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favore della società resistente delle spese di giudizio di Cassazione,
liquidate in euro 100,00 per esborsi nonché in euro 3.500,00 per
compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15% ed
accessori di legge.
Dichiara dovuto dalla ricorrente l’ulteriore importo a titolo di contributo
unificato pari a quello versato.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 16 dicembre 2015.

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