Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6760 del 10/03/2021

Cassazione civile sez. III, 10/03/2021, (ud. 23/09/2020, dep. 10/03/2021), n.6760

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33009-2019 proposto da:

D.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA

732, presso lo studio dell’avvocato ELVIRA RICCIO, rappresentato e

difeso dall’avvocato SAVERIO VISCOMI per procura speciale in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS);

– resistente –

avverso la sentenza n. 1650/2019 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 02/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/09/2020 dal Consigliere Dott. RUBINO LINA.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

D.M., proveniente dal Mali, propone ricorso notificato il 5 novembre 2019 avverso la sentenza della Corte d’appello di Catanzaro, pubblicata il 2 settembre 2019 e non notificata.

Il ricorrente, udito dalla Commissione territoriale, descriveva la propria vicenda di vita in questi termini: rimasto orfano di padre durante l’infanzia, veniva affidato ad una famiglia che lo faceva lavorare come contadino e frequentare la scuola saltuariamente; poichè il capo-famiglia gli faceva fare lavori “troppo pesanti” e urlava quando non li faceva, egli – all’età di sedici anni – scappava a Bamako, dove dormiva all’esterno perchè non aveva nessuno a cui appoggiarsi e a volte veniva aggredito. Giungeva dunque in Italia dopo aver passato due anni in Libia, trascorrendo anche periodi di prigionia. Dichiarava di temere che, facendo rientro nel proprio paese, sarebbe stato nuovamente sottoposto a vessazioni dato che non aveva alcun appoggio familiare e sociale per poter trovare lavoro ed avere una vita dignitosa.

La Commissione territoriale respingeva la sua richiesta di protezione internazionale.

Il ricorrente impugnava il diniego dinanzi al Tribunale di Catanzaro, che rigettava l’impugnazione, affermando che dal racconto del giovane non emergessero elementi su cui basare l’accoglimento di nessuna richiesta di permanenza in Italia.

Il ricorrente appellava la decisione del Tribunale dinnanzi alla Corte d’appello di Catanzaro, che riteneva infondata l’impugnazione per le seguenti ragioni:

a) non sussiste un obbligo del giudice di disporre l’audizione della persona che richiede la protezione internazionale;

b) il ricorrente non verserebbe in alcuna delle situazioni che giustificano il riconoscimento della protezione internazionale, temendo al proprio ritorno “di fare la stessa vita che facevo prima” (avrebbe dichiarato ciò alla Commissione);

c) la regione di provenienza del ricorrente (centro del Mali) non è interessata da conflitto armato;

d) non può essere rilasciato il permesso per motivi umanitari, non bastando a tal fine la sola integrazione in Italia nè la compromissione dei diritti umani nel Paese d’origine, se non direttamente riguardanti il richiedente, dovendo il ricorrente allegare esplicitamente i motivi della propria vulnerabilità. Il Ministero, intimato, non svolgeva nessuna attività difensiva in questa sede.

La causa veniva avviata alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Diritto

RITENUTO IN DIRITTO

che:

Avverso tale decisione D.M. propone ricorso, formulando quattro censure.

Con il primo motivo di ricorso, egli lamenta la violazione dell’art. 46 par. 3 della direttiva 2013/32/CE e dell’art. 47 della Carta di Nizza, nonchè dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per avere la Corte d’appello respinto, senza motivazione sufficiente, la domanda volta alla audizione personale del ricorrente, così violando il suo diritto di difesa.

Il motivo è infondato.

La mancata rinnovazione della audizione in sede giurisdizionale non costituisce una automatica violazione del diritto di difesa.

Nel procedimento, in grado d’appello, relativo ad una domanda di protezione internazionale, non è ravvisabile una violazione processuale sanzionabile a pena di nullità nell’omessa audizione personale del richiedente, atteso che il rinvio, contenuto nel D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, comma 13, al precedente comma 10 che prevede l’obbligo di sentire le parti, non si configura come un incombente automatico e doveroso, ma come un diritto della parte di richiedere l’interrogatorio personale, cui si collega il potere officioso del giudice d’appello di valutarne la specifica rilevanza (in questo senso, tra le altre, Cass. n. 3003 del 2018, 25439 del 2020). Nel caso di specie, la corte d’appello non ha ritenuto di rinnovare in sede giurisdizionale l’audizione, non avendo il ricorrente prospettato specifiche esigenze a fondamento di essa e non avendo indicato le circostanze che avrebbe potuto e voluto meglio chiarire con il mezzo della audizione.

Il motivo di ricorso è a sua volta generico, non dice quali sarebbero le circostanze che il ricorrente non ha avuto modo di esporre e che avrebbe riferito al giudice. Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. b e c, e art. 4, dell’art. 210 e 2013 (rectius 213) c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5, per aver omesso il giudice di merito di attivare i propri poteri istruttori e di pronunciarsi sulle richieste istruttorie e sull’ordine di esibizione. La Corte d’appello avrebbe omesso, seppur sollecitata, di acquisire d’ufficio le fonti ufficiali sulla situazione socio politica del Mali.

Con il terzo motivo, D.M. lamenta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 4, 7 e art. 14 comma 1 lett. b e c, degli artt. 2, 3, 5, 8 e 9 della CEDU nonchè del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, essendo stato il diniego della protezione sussidiaria, basato su una erronea valutazione del rischio che il ricorrente correrebbe in caso di rientro in Mali. La Corte d’appello, invero, non avrebbe dovuto limitarsi ad una valutazione della situazione di guerra civile del Mali (che non coinvolgeva il Mali del sud, regione di provenienza del ricorrente), ma avrebbe dovuto anche verificare – mediante l’esercizio dei doveri ufficiosi di indagine – se il ricorrente “correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno” tornando nel paese di origine (art. 2 lett. e direttiva n. 2004/83/CE). Nell’ambito di tale verifica, poichè il ricorrente era stato minacciato, la Corte avrebbe dovuto in ordine verificare e motivare circa l’effettiva capacità del Paese d’origine del ricorrente di tutelarlo in relazione a tali minacce.

Inoltre, la protezione sussidiaria avrebbe dovuto essere riconosciuta a causa della instabile situazione del Mali. In argomento il ricorrente segnala (a pag. 20 del ricorso) alcune pronunce di merito con cui giudici italiani hanno riconosciuto la protezione sussidiaria a cittadini provenienti dalla regione meridionale del Mali. Il secondo e il terzo motivo sono connessi e possono di conseguenza essere trattati congiuntamente, e non possono essere accolti.

In effetti, esiste nella sentenza una accurata descrizione sulla situazione storico-politica del Mali tratta da fonti ufficiali (rapporti dell’Onu) e aggiornate, rispetto alle quali il ricorrente non cita rapporti successivi più favorevoli al ricorrente che non siano stati tenuti in conto.

Il ricorrente non indica neppure, come avrebbe dovuto fare, nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6, quando la richiesta della acquisizione di ulteriori fonti ufficiali sarebbe stata formulata dall’attuale ricorrente nel corso del giudizio di merito.

La situazione sul territorio risulta regolarmente accertata dalla corte d’appello sulla base di informazioni provenienti da fonti attendibili e aggiornate al momento della decisione, che le hanno consentito di escludere legittimamente una situazione di pericolo diffuso nella regione del Mali del sud, di provenienza del ricorrente, tale da legittimare il riconoscimento del diritto alla protezione sussidiaria in capo al D..

Eventuali mutamenti successivi alla decisione impugnata della situazione storico- politica del paese di provenienza, ed in particolare l’estensione dello stato di guerra a tutto lo Stato del Mali, che in ipotesi potrebbe essersi verificati dopo la decisione, non possono essere presi in considerazione in sede di legittimità, ma potrebbero eventualmente essere posti alla base di una nuova domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria che si fondi sulla situazione verificatasi successivamente alla decisione. La domanda di riconoscimento della protezione internazionale è infatti, reiterabile, il D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 29, a condizione – prevista a pena di inammissibilità – che siano posti a fondamento di essa elementi nuovi, siano essi afferenti alla condizione personale del ricorrente o alla situazione di fatto del paese di provenienza.

Con il quarto motivo, il ricorrente censura la violazione del combinato disposto di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e 5. Sostiene inoltre che la motivazione della Corte d’appello in relazione alla protezione umanitaria sarebbe illogica, contraddittoria e apparente per avere il Giudice rigettato la richiesta di protezione umanitaria senza operare un esame reale della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente, peraltro non prendendo in considerazione l’integrazione sociale da lui raggiunta.

Segnala che, sebbene la Suprema Corte abbia chiarito che l’inserimento socio lavorativo di per sè non rappresenti una condizione sufficiente per il riconoscimento della protezione umanitaria, bisogna tener conto che al fine di valutare la “vulnerabilità” richiesta al fine del riconoscimento di suddetta protezione, dovrebbe essere preso in considerazione il diritto alla vita privata e familiare del richiedente. Richiama la necessità di utilizzare, quale parametro normativo di riferimento, l’art. 8 della CEDU, per cui secondo l’interpretazione della Corte di Strasburgo la vulnerabilità del richiedente asilo può discendere da una “effettiva e incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali” Sostiene il ricorrente che avrebbe dovuto essere ritenuto vulnerabile in quanto, fuggito dal suo paese di origine dapprima in Nigeria ove, a causa della povertà, viveva per strada e faceva il mendicante e dalla Libia ove ha vissuto in prigionia (pag. 23 ricorso), nonchè provenendo dal Mali del sud ove non ha, nè beni, nè famiglia, si è invece integrato in Italia ove conosce la lingua, ha un contratto di locazione regolare ed ha un contratto di lavoro a tempo determinato come operaio che viene regolarmente rinnovato.

Il motivo è fondato.

Seguendo il percorso tracciato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 29459 del 2019, quanto ai presupposti utili a ottenere la protezione umanitaria, non si può trascurare la necessità di collegare la norma che la prevede ai diritti fondamentali che l’alimentano, con la precisazione che gli interessi protetti non possono restare ingabbiati in regole rigide e parametri severi, che ne limitino le possibilità di adeguamento, mobile ed elastico, ai valori costituzionali e sovranazionali; sicchè, come già ha puntualizzato questa Corte, l’apertura e la residualità della tutela non consentono tipizzazioni (tra varie, Cass. 15 maggio 2019, nn. 13079 e 13096). Le basi normative non sono, allora, affatto fragili, ma a compasso largo: l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali, col sostegno dell’art. 8 della Cedu, promuove l’evoluzione della norma, elastica, sulla protezione umanitaria a clausola generale di sistema, capace di favorire i diritti umani e di radicarne l’attuazione. Va quindi dato seguito all’orientamento di questa Corte (inaugurato da Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, seguita, tra varie, da Cass. 19 aprile 2019, n. 11110 e da Cass. n. 12082/19, cit., nonchè, a quanto consta, dalla preponderante giurisprudenza di merito), confermato nella sua correttezza dalle Sezioni Unite, che assegna rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale. Non può, quindi, come puntualizzato dalle sezioni Unite, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072). Si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria (Cass. 3 aprile 2019, n. 9304).

E tuttavia, va ulteriormente puntualizzato che, a condizione che ci si collochi sempre all’interno del giudizio di comparazione, in taluni casi la condizione denunciata dal ricorrente ove rimandato nel paese di provenienza non perde della necessaria soggettivizzazione laddove sia coincidente con quella della assoluta maggioranza della popolazione, laddove questi denunci proprio di non essere in grado di elevarsi, per mancanza di mezzi personali o di una adeguata struttura familiare di supporto, al di sopra della condizione di miseria diffusa, o di grave povertà multifunzionale, in cui i diritti di fasce estese di una intera popolazione sono compressi al di sotto del livello del rispetto della dignità umana perchè si vedono confiscati diritti inalienabili quali i diritti di sopravvivenza, di accesso al cibo, all’acqua, alle cure mediche essenziali.

In altri termini, laddove il permesso di soggiorno per ragioni umanitarie non può essere utilizzato allo scopo di rivendicare il diritto del singolo a migliorare le proprie condizioni economiche e il proprio standard di vita, in sè, il giudizio di vulnerabilità può tener in conto, per colmare di contenuto il secondo termine del giudizio di comparazione, situazioni generalizzate all’interno delle quali rientri anche la situazione individuale del ricorrente – laddove sia notorio, o sia documentato dal ricorrente, o emerga dalle Coi assunte, che l’intero paese di origine non garantisce alla generalità dei suoi cittadini il rispetto della soglia minima del nucleo inviolabile dei diritti umani.

In accoglimento del quarto motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione, che rinnoverà il giudizio di merito in relazione alla domanda di riconoscimento del diritto alla protezione umanitaria attenendosi ai principi di diritto sopra indicati e provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Rigetta i primi tre motivi di ricorso, accoglie il quarto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Catanzaro in diversa composizione anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di cassazione, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2021

 

 

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