Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6759 del 15/03/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 15/03/2017, (ud. 10/03/2017, dep.15/03/2017),  n. 6759

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 14372/2012 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura

generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma alla via dei

Portoghesi n. 12 domicilia ex lege;

– ricorrente –

contro

Porto Cervo Genova s.r.l., rappresentata e difesa dagli Avv.ti Angelo

Contrino e Francesco d’Ayala Valva, elettivamente domiciliata presso

lo studio del secondo in Roma al viale Parioli n. 43, per procura in

calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Liguria n. 51/7/11 depositata il 5 maggio 2011;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 10 marzo 2017

dal Consigliere Dott. Enrico Carbone.

Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per

l’accoglimento del ricorso, in subordine la rimessione alle Sezioni

Unite.

Udito l’Avv. Angelo Contrino per la controricorrente.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Commissione tributaria provinciale di Genova respingeva l’impugnazione proposta da Porto Cervo Genova s.r.l. contro l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro emesso nei confronti della società previa qualificazione come cessione d’azienda della sequenza negoziale intervenuta tra Porto Cervo 84 s.r.l., Porto Cervo Genova s.r.l. e Giaco Milano s.r.l. nelle date 23 dicembre 2004 e 5 maggio 2005.

La Commissione tributaria regionale della Liguria accoglieva l’appello di Porto Cervo Genova, escludendo l’unitarietà sostanziale dei negozi e censurando l’assenza di contraddittorio endoprocedimentale.

L’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione con tre motivi. Porto Cervo Genova resiste con controricorso, illustrato da memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, il secondo denuncia insufficiente motivazione, per aver il giudice d’appello negato la qualificazione unitaria del collegamento negoziale argomentando dalla genuinità economica dell’operazione.

I motivi devono essere trattati insieme, perchè logicamente connessi.

1.1. I motivi sono fondati.

Ai fini dell’imposta di registro, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 considera preminente la causa reale dell’operazione, sicchè il conferimento di un’azienda in società e la cessione delle quote della conferitaria possono integrare una cessione d’azienda (Cass. 14 febbraio 2014, n. 3481, Rv. 630075; Cass. 2 dicembre 2015, n. 24594, Rv. 637842); nella qualificazione di tale fattispecie come cessione d’azienda rilevano anche le circostanze extratestuali, non ostando che l’imposta di registro sia un’imposta d’atto (Cass. 19 marzo 2014, n. 6405, Rv. 630589).

Porto Cervo 84 ha conferito il ramo d’azienda a Porto Cervo Genova (atto del 23 dicembre 2004), quindi ha ceduto a Giaco Milano l’intera partecipazione in Porto Cervo Genova (atti del 23 dicembre 2004 e 5 maggio 2005): l’effetto finale vede il ramo d’azienda nella disponibilità di Giaco Milano, tramite società di cui Giaco Milano è ormai unica quotista.

Non hanno pertinenza gli argomenti spesi dal giudice d’appello sull’alterità soggettiva tra cessionario dell’azienda e cessionario delle quote, nè gli altri sull’effettività commerciale dell’operazione negoziale.

Per un verso, l’acquisto totalitario di Porto Cervo Genova da parte di Giaco Milano rende quell’alterità soggettiva formale ed apparente, mentre il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 impone di superare la “forma apparente” degli atti.

Per altro verso, la genuinità commerciale dell’operazione è irrilevante, poichè l’intento elusivo non rientra nella fattispecie normativa D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20 (Cass. 14 febbraio 2014, n. 3481, Rv. 630075; Cass. 2 dicembre 2015, n. 24594, Rv. 637842).

2. Il terzo motivo di ricorso denuncia ultrapetizione, per aver il giudice d’appello rilevato un difetto di contraddittorio precontenzioso mai eccepito dalla contribuente.

2.1. Il motivo è fondato.

Pacifico che il rilievo del giudice d’appello sia stato officioso, la controricorrente ne difende tuttavia la legittimità, argomentando dalla natura generale dell’obbligo imperativo del contraddittorio endoprocedimentale.

In realtà, siffatto obbligo generale esiste unicamente per i tributi armonizzati, mentre per i tributi non armonizzati occorre una specifica previsione normativa (Cass., sez. un., 9 dicembre 2015, n. 24823, Rv. 637604; Cass. 31 maggio 2016, n. 11283, Rv. 639865).

D’altronde, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 concerne l’oggettiva portata effettuale dei negozi e non configura quindi una disposizione antielusiva stricto sensu, come quella del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis (astrattamente rilevante nella fattispecie ratione temporis), sicchè l’avviso di liquidazione ex art. 20 non soggiace all’obbligo di contraddittorio preventivo ex art. 37-bis (Cass. 19 giugno 2013, n. 15319, Rv. 627197).

3. La memoria illustrativa della controricorrente è focalizzata sulle ragioni extrafiscali che escluderebbero la finalità elusiva dell’operazione, sulla premessa che l’art. 20 T.U. Registro detti una norma antielusiva in senso proprio.

La memoria evoca una recente pronuncia di questa Sezione, che – in consapevole frizione con indirizzi ormai consolidati – mostra di accettare la richiamata premessa, subordinando la c.d. riqualificazione negoziale ex art. 20 alla prova di un “disegno elusivo” (Cass. 27 gennaio 2017, n. 2054, Rv. 642530).

Gli argomenti esposti in memoria e il precedente in essa richiamato segnalano la persistenza di un’antica tensione ricostruttiva, destinata verosimilmente a riaccendersi con l’entrata in vigore della disciplina generale sull’abuso del diritto o elusione fiscale (L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015).

Tuttavia, la recente pronuncia in dissenso è stata seguìta da altre che hanno viceversa perpetuato l’anteriore e costante orientamento, secondo il quale l’art. 20 T.U. Registro non esprime una regola antielusiva, bensì una regola interpretativa (Cass. 10 febbraio 2017, n. 3562).

Ciò suggerisce che il contrasto possa essere riassorbito all’interno della Sezione, facendo apparire non indispensabile la rimessione alle Sezioni Unite, pur sollecitata dalla Procura generale in linea di subordine.

A questo fine, raccogliendo le istanze della memoria di controricorrente, è utile stabilire alcuni punti fermi in una materia tra le più controverse.

3.1. il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, rubricato “interpretazione degli atti”, dispone che l’imposta di registro è applicata “secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”.

La regola è dichiaratamente interpretativa, quindi, e si riferisce agli atti nella loro oggettività ermeneutica, prescindendo da qualunque riferimento all’eventuale disegno o intento elusivo delle parti.

Non è possibile qualificare la disposizione della legge di registro come disposizione antielusiva senza forzarne la struttura normativa, introducendovi un elemento estraneo – appunto, l’elusività fiscale -, che viceversa corrisponde solo a un’eventualità della fattispecie.

3.2. Come norma interpretativa, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 è una norma di “qualificazione” degli atti, che non si sovrappone all’autonomia privata dei contribuenti, ma si limita a definirne l’esercizio insieme agli altri canoni legali di ermeneutica negoziale.

Dunque, seppur corrente nel lessico della prassi, l’espressione “riqualificazione” degli atti appare tecnicamente impropria ed accettabile soltanto in chiave descrittiva.

Individuata da una parte della dottrina come oggetto di critica in funzione garantistica, la “teoria della riqualificazione” non è altro che il portato applicativo di un criterio legale di interpretazione, ciò che dissolve il ricorrente timore di un qualche vulnus al principio di legalità nella distribuzione dei carichi pubblici.

La prevalenza interpretativa che il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 attribuisce alla causa effettiva dell’atto rispetto alla causa cartolare non viola la riserva di legge sancita dall’art. 23 Cost., nè elude la garanzia fornita all’autonomia privata dall’art. 41 Cost., poichè l’interpretazione opera soltanto in chiave qualificativa dell’agire negoziale (Cass. 19 giugno 2013, n. 15319, Rv. 627196).

3.3. La qualificazione interpretativa prescritta dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 ha ad oggetto la causa dell’atto, nella sua dimensione reale e concreta (“la intrinseca natura… anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”).

Una parte della dottrina enfatizza il riferimento normativo agli effetti “giuridici” degli atti, aggettivazione mancante nel testo del R.D. n. 3269 del 1923, art. 8, introdotta nella dizione del D.P.R. n. 634 del 1972, art. 19 e confermata dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20.

Con questa opzione terminologica – si assume – il legislatore intese dirimere la controversia provocata dalla disposizione del 1923, la cui ambiguità aveva alimentato il dubbio che non gli effetti giuridici rilevassero ai fini dell’imposta di registro, bensì gli effetti economici, come sostenuto invero dalla scuola tributaristica pavese (c.d. teoria del sostrato economico).

L’eco della disputa attraversa la memoria della controricorrente, quando denuncia che la cessione dell’azienda conferita e la cessione delle quote della conferitaria sono operazioni con medesima “sostanza economica”, ma differente “sostanza giuridica”.

In realtà, una dicotomia assoluta tra effetti giuridici ed effetti economici del negozio può giustificarsi soltanto nella prospettiva dell’atto isolato e della causa tipica.

Quando gli atti sono plurimi e funzionalmente collegati, quando cioè la causa tipica di ciascuno è in funzione di un programma negoziale che la trascende, non può rilevare che la causa concreta dell’operazione complessiva.

In termini generali, da oltre un decennio (quantomeno da Cass. 8 maggio 2006, n. 10490, Rv. 592154), la giurisprudenza di legittimità ha rivisitato in senso critico la teoria della “causa tipica” e si è accostata alla teoria della “causa concreta”, ridefinendo la causa negoziale come la sintesi degli interessi oggettivati nell’operazione economica, prescindente dall’astrattezza giuridico-formale del tipo.

L’impostazione della controricorrente, del precedente che essa richiama e della dottrina che ispira entrambi, risulta invece orientata alla tradizione causalista di stampo tipicistico e alla concezione dell’imposta di registro quale “imposta d’atto”.

3.4. Che l’imposta di registro possa e debba viceversa configurarsi come “imposta di negozio” correlata alla causa concreta dell’operazione è un corollario immediato del principio costituzionale di capacità contributiva (Cass. 25 febbraio 2002, n. 2713, Rv. 552496; Cass. 5 giugno 2013, n. 14150, Rv. 627127; Cass. 14 febbraio 2014, n. 3481, Rv. 630075).

Un’interpretazione atomistica dell’operazione negoziale non è in grado di misurare il reale movimento di ricchezza, che si rivela soltanto nella dimensione complessiva dell’affare.

3.5. Trattandosi di una disposizione interpretativa e non antielusiva, l’applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 non esige il contraddittorio endoprocedimentale previsto per l’applicazione delle disposizioni antielusive (D.P.R. 600 del 1973, art. 37-bis, oggi L. n. 212 del 2000, art. 10-bis).

Peraltro, la (ri)qualificazione negoziale operata dall’ufficio finanziario resta soggetta alla verifica giurisdizionale circa l’osservanza dei criteri legali di interpretazione, i quali vanno riferiti alle circostanze concrete della sequenza di atti.

L’interpretazione aderente ai cànoni legali ermeneutici restituisce l’operazione negoziale nella sua realtà, scongiurando il rischio di un’alterazione della volontà privata; rischio paventato – oltre che dalla controricorrente – da quella dottrina che teme un’imposizione aliud pro alio ovvero l’arbitraria sostituzione della fattispecie imponibile.

3.6. La disposizione interpretativa D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20 può attingere la causa economica delle fattispecie negoziali complesse, mentre la disposizione antielusiva D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37-bis e L. n. 212 del 2000, art. 10-bis riguarda le fattispecie negoziali prive di “causa economica” (Cass. 10 febbraio 2017, n. 3562).

La diversità di oggetto e di natura esclude in radice un conflitto tra queste norme, che viceversa si palesano in rapporto di complementarietà.

Non si pongono allora le questioni di coordinamento normativo prospettate nella memoria della controricorrente ed anzi sembrano appianarsi i dubbi sollevati da una parte della dottrina circa l’irragionevolezza costituzionale della disparità di garanzie per tipologia d’imposta.

4. Il ricorso deve essere accolto e la sentenza cassata, con rinvio per nuovo esame e regolamento delle spese.

Il giudice di rinvio si atterrà ai seguenti principi di diritto:

a) “in tema di imposta di registro, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 non detta una regola antielusiva, ma una regola interpretativa, che impone una qualificazione oggettiva degli atti secondo la causa concreta dell’operazione negoziale complessiva, a prescindere dall’eventuale disegno o intento elusivo delle parti; ne consegue che il conferimento societario di un’azienda e la cessione dal conferente a terzi delle quote della società conferitaria devono essere qualificati come cessione dell’azienda al cessionario delle quote se l’interprete riconosca nell’operazione complessiva – in base alle circostanze obiettive del caso concreto – una causa unitaria di cessione aziendale”;

b) “in tema di imposta di registro, il D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 non detta una regola antielusiva, ma una regola interpretativa, la cui applicazione da parte dell’ufficio finanziario non è soggetta al contraddittorio endoprocedimentale previsto per l’applicazione delle disposizioni antielusive (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, poi L. n. 212 del 2000, art. 10-bis), bensì alla verifica giurisdizionale circa l’osservanza dei criteri legali di interpretazione dei negozi”.

PQM

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Liguria in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2017.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2017

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