Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6754 del 10/03/2020

Cassazione civile sez. lav., 10/03/2020, (ud. 21/11/2019, dep. 10/03/2020), n.6754

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. CIRIELLO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21764/2018 proposto da:

ROOM MATE ITALIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SALARIA 332, presso

lo studio dell’avvocato GIUSEPPE DE MAJO, rappresentata e difesa

dagli avvocati VITTORIO BECHI e STEFANO CHITI;

– ricorrente –

contro

M.M.A., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA

DELLA MARINA 1, presso lo studio dell’avvocato LAURA LA ROCCA,

rappresentata e difesa dall’avvocato IACOPO TOZZI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 80/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 26/03/2018, R.G.N. 191/2016.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza pubblicata il 26.3.2018 la Corte di appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città depositata il 30.9.2015, dichiarava l’illegittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato a M.M.A. dalla sua datrice di lavoro, società Room Mate Italia s.p.a., il 19.2.2013, e, applicando della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, condannava la società a reintegrare la lavoratrice nel posto di lavoro e a risarcirle il danno nella misura massima di legge di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione ed interessi, e alla regolarizzazione della posizione contributiva della M., respingendo le altre domande proposte dalla lavoratrice, compensava per un terzo le spese del doppio grado di giudizio, ponendo i residui due terzi a carico della società datrice di lavoro.

2. La Corte territoriale osservava preliminarmente che nessuna delle parti avesse sollevato questioni sulla correttezza del rito ordinario del lavoro che era stato seguito, sebbene la lavoratrice avesse impugnato nel presente giudizio un licenziamento intimato successivamente all’entrata in vigore della L. n. 92 del 2012 e fatto valere insieme differenti pretese. Con riguardo all’intimato licenziamento, il giudice di appello giungeva alla conclusione dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo posto a base del licenziamento, e quindi all’applicazione, come detto, della tutela di cui al della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4. La Corte territoriale rilevava, come già aveva fatto il primo giudice, la genericità delle allegazioni e deduzioni istruttorie della società in relazione alla affermata riorganizzazione, osservava che la società datrice di lavoro non aveva allegato alcun fatto specifico concretamente descrittivo dell’organizzazione poi in tesi attuata, e soprattutto dei suoi effetti sui compiti già richiesti alla lavoratrice, così indicando le mansioni delle quali essa si sarebbe privata, ma si era limitata a far valere che erano state accentrate presso la sede di Madrid le attività commerciali connesse alle prenotazioni, all’organizzazione dei flussi di clientela, alle politiche di vendita, ai prezzi e al marketing.

3. Avverso la sentenza citata della Corte di appello di Firenze la società Room Mate Italia s.p.a propone ricorso per cassazione affidato a cinque motivi, illustrati da memoria. M.M.A. resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.

2. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 92 del 2012, art. 1 commi 47 e 48, artt. 426 e 427 c.p.c. e D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, evidenziando come la lavoratrice abbia erroneamente presentato al Tribunale di Firenze ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c., cioè secondo il rito ordinario del lavoro, mentre trattandosi dell’impugnazione di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo essa avrebbe dovuto seguire le forme del rito previsto dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 47 e segg., essendo stato il licenziamento intimato successivamente all’entrata in vigore di tali disposizioni. La ricorrente fa valere l’obbligatorietà del rito speciale, che non è nella disponibilità delle parti, e lamenta di aver subito una lesione della propria posizione processuale in termini di compressione del diritto di difesa. Tale lesione si sarebbe concretata nel venir meno di una fase processuale, nella quale il giudice può agire sulla base di atti di istruzione che esulano dalle normative previste dal codice di rito, e ciò gli avrebbe inibito di motivare la sentenza n. 1012 del 2015 sulla base della “(supposta, ma contestata) aspecificità delle istanze istruttorie”.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, consequenzialmente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità delle sentenze di primo e secondo grado, nonchè del procedimento, per inammissibilità del rito introdotto.

4. Con il terzo motivo viene denunciata la violazione e la falsa applicazione degli art. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione alla mancata ammissione di mezzi istruttori.

5. Con il quarto motivo la ricorrente lamenta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, per non aver dedotto dagli importi di condanna i redditi risultanti dai modelli Unico dal 2014 al 2017 prodotti dalla lavoratrice su ordine della Corte fiorentina.

6. Con il quinto motivo la Room Mate denuncia la violazione e la falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sempre perchè la Corte distrettuale non avrebbe tenuto conto dell’aliunde perceptum, cioè dei redditi percepiti da altra occupazione da parte della lavoratrice nel periodo rilevante.

7. I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente, perchè con entrambi si deduce l’inammissibilità del rito prescelto dalla lavoratrice per l’impugnazione del licenziamento. Secondo la ricorrente la M. avrebbe dovuto seguire il rito c.d. “Fornero” di cui alla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 47 e segg. e non il rito ordinario del lavoro.

8. I motivi in esame non possono essere accolti.

9. La parte resistente osserva in primo luogo che, trattandosi di domande proposte in via cumulativa contro la datrice di lavoro, solo alcune delle quali rientravano nel paradigma della L. n. 92 del 2012, art. 1, bene sarebbero state tutte trattate in un unico processo secondo il rito ordinario del lavoro.

10. Non è necessario alla Corte pronunziarsi su tale questione, nè su quella del se la disciplina di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 4, sul mutamento del rito debba considerarsi espressione di un principio generale applicabile in via analogica, nel silenzio della L. n. 92 del 2012, ai casi di errata scelta del rito ordinario del lavoro in luogo di quello speciale.

11. In effetti, la giurisprudenza di questa Corte (ribadita, di recente, da Cass. n. 3803 del 2019 con specifico riferimento al rito del lavoro (ord.)), cui il Collegio intende dare continuità, ha chiarito che la violazione della disciplina sul rito assume rilevanza invalidante soltanto nell’ipotesi in cui, in sede di impugnazione, la parte indichi lo specifico pregiudizio processuale concretamente derivatole dalla mancata adozione del rito diverso, quali una precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte (Cass. n. 19942 del 2008, Cass. SS.UU. n. 3758 del 2009; Cass. n. 22325 del 2014; Cass. n. 1448 del 2015); perchè essa assuma rilevanza invalidante occorre infatti che la parte che se ne dolga in sede di impugnazione indichi il suo fondato interesse alla rimozione di uno specifico pregiudizio processuale da essa concretamente subito per effetto della mancata adozione del rito diverso (in termini, avuto riguardo al cd. “rito Fornero”, v. Cass. n. 12094 del 2016).

12. In particolare in una pronuncia questa Corte ha osservato che tale pregiudizio non poteva essere certo ravvisato, nella privazione di “una fase processuale”, considerato che il rito ordinario seguito nella fattispecie esaminata rappresentava la massima espansione della cognizione integrale, idonea a consentire il migliore esercizio del diritto di difesa, sicchè la parte ricorrente in quel caso nella sostanza si limitava ad invocare la violazione della legge processuale, con una concezione del processo volta a ricollegare il danno processuale alla mera irregolarità, concezione avulsa dai parametri, oggi recepiti anche in ambito costituzionale e sovranazionale, di effettività, funzionalità e celerità dei modelli procedurali (cfr. Cass. n. 4506 del 2016).

13. Nel caso oggi all’esame della Corte la ricorrente lamenta la perdita delle maggiori possibilità di difesa che sarebbero state a sua disposizione nella fase sommaria.

14. Ora, anche a voler supporre esistenti tali maggiori possibilità, esse sarebbero venute meno nella fase di cognizione piena, fase eventuale, certo, ma che la ricorrente non avrebbe avuto modo di evitare. Non sussiste dunque una “precisa e apprezzabile lesione del diritto di difesa, del contraddittorio e, in generale, delle prerogative processuali protette della parte”.

15. Il terzo motivo è inammissibile.

16. In quanto questa doglianza deduce una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., essa non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (v. da ultimo Cass. n. 3323 del 2018 e n. 27000 del 2016).

17. La doglianza, pur richiamando gli art. 115 e 116 c.p.c., non prospetta alcuna delle ipotesi sopra citate, per cui tali profili sono mal formulati e vanno respinti non essendo denunciata alcuna delle concrete possibili violazioni degli artt. 115 e 116 c.p.c..

18. Quanto agli ulteriori aspetti contenuti nel motivo, aspetti che, pur alludendo alla violazione dell’art. 115 c.p.c., contengono censure riferite al tema della valutazione delle risultanze probatorie, va osservato che in base al principio del libero convincimento del giudice, essi vanno valutati nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), ed il malgoverno dei poteri istruttori deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. n. 24434 del 2016 e n. 14267 del 2006).

19. Ciò senza contare che la sentenza impugnata ha ritenuto insufficienti, prima ancora delle prove proposte, le allegazioni della società datrice di lavoro.

20. Si tratta quindi di questioni di puro fatto inammissibilmente riproposte in questa sede di legittimità.

21. Il quarto e il quinto motivo, inerenti all’aliunde percotum, possono essere esaminati congiuntamente.

22. Indipendentemente dagli evidenti profili di inammissibilità del quarto motivo, giacchè nè nel corpo del motivo nè nella parte narrativa del ricorso viene trascritto il contenuto delle dichiarazioni fiscali citate, e neppure si dice in quale luogo degli atti esse si trovino, in effetti la sentenza impugnata tiene conto dei redditi percepiti dalla lavoratrice successivamente al licenziamento, osservando come essa avesse iniziato a svolgere attività lavorativa alle dipendenze di terzi “oltre l’anno dal recesso impugnato”, per cui l’indennità di cui dell’art. 18, comma 4, veniva calcolata nella misura massima di dodici mesi in modo da “riparare effettivamente il danno cagionatole dal recesso impugnato”, danno patito anche oltre il periodo che la legge assume come risarcibile. Entrambi i motivi sono dunque infondati.

23. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso è quindi complessivamente da rigettare.

24. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

25. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2020

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA