Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6732 del 19/03/2010

Cassazione civile sez. lav., 19/03/2010, (ud. 22/12/2009, dep. 19/03/2010), n.6732

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente –

Dott. LA TERZA Maura – rel. Consigliere –

Dott. IANNIELLO Antonio – Consigliere –

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22687-2007 proposto da:

ISTITUTO POLIGRAFICO E ZECCA DELLO STATO S.P.A., in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA

PIAZZA GIUSEPPE VERDI N. 10, presso lo studio dell’Avvocato TURCO

CHIARA, (c/o l’Ufficio della Funzione Affari Legali e Societari), che

lo rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.P., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

ANTONIO MANCINI 4/B, presso lo studio dell’avvocato FASANO

GIOVANNANTONIO, che lo rappresenta e difende, giusta delega a margine

del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4171/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/09/2006 R.G.N. 3006/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/12/2009 dal Consigliere Dott. MAURA LA TERZA;

udito l’Avvocato RAFFAELA FASANO per delega GIOVANNANTONIO FASANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FUCCI Costantino che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con la sentenza in epigrafe indicata dell’13 settembre 2006 la Corte d’appello di confermava l’accoglimento della domanda proposta da F.P. nei confronti dell’Istituto Poligrafico per la inclusione dei compensi percepiti per lavoro straordinario nella base di calcolo sia dell’indennità di anzianità e del TFR e in accoglimento dell’appello incidentale del F. condannava altresì il Poligrafico ad erogargli la somma di Euro 5.045,11 per la inclusione, sia nelle mensilità aggiuntive, sia nelle ferie, dei medesimi compensi per lavoro straordinario, limitatamente però al periodo antecedente all’entrata in vigore del CCNL del 1992.

La Corte territoriale affermava che il diritto al ricalcolo del TFR non era prescritto, e rigettava altresì la eccezione di compensazione proposta dal Poligrafico in relazione all’accordo aziendale del 1974, in cui, era stato erogato un miglioramento retributivo pari a 60 minuti della retribuzione dell’operaio litografo di (OMISSIS) livello, precisandosi che detto compenso era “assorbibile in caso di vertenze comunque proposte dal personale dipendente che possano ricollegarvisi” sul rilievo, tra l’altro, che la normativa sul TFR non era derogabile dalla contrattazione collettiva, cui era consentito solo di fissare una base di calcolo diversa da quella prefigurata dalla legge.

Avverso detta sentenza propone ricorso l’Istituto Poligrafico, con quattro motivi, mentre resiste con controricorso il lavoratore.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo del ricorso il Poligrafico si duole del rigetto dell’eccezione di prescrizione, dovendosi distinguere la fase delle esigibilità del diritto al TFR e la data della sua maturazione. Il motivo è infondato, in quanto la giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che la scadenza delle annualità idonee al calcolo delle quote di accantonamento degli istituti di fine rapporto e la ricezione delle comunicazioni datoriali in punto di accantonamenti utili sono inidonee ad eliminare la situazione di incertezza circa la quantificazione dell’importo spettante, che – continuando a sussistere – legittima il lavoratore a richiedere l’accertamento giudiziale del diritto. Perchè possa decorrere il termine di prescrizione è necessario che il diritto sia incontroverso e, dato che la maturazione del t.f.r. non è istantanea, non è dato identificare un unico momento destinato a costituire il dies a quo della prescrizione dell’azione di accertamento. Ne consegue che la relazione ravvisabile fra azione di mero accertamento del diritto ed azione diretta alla sua concreta attuazione opera in senso esattamente inverso a quello preteso da parte ricorrente, perchè, mentre la mancata sperimentazione della prima, non soggetta a termini di prescrizione, risulta del tutto irrilevante ai fini della persistente sperimentabilità della seconda, è la possibile prescrizione di questa che può precludere l’azione di mero accertamento, per difetto di interesse, in quanto, una volta estinto il diritto, con conseguente impossibilità di realizzazione pratica del suo contenuto, viene meno, di norma, ogni utilità dell’accertamento della sua mera esistenza, così il ricordato presupposto dell’invocazione dell’officium judicis (cfr. Cass. 9.4.03 n. 9575 e da ultimo, proprio in relazione a fattispecie analoga Cass. n. 2781 del 06/02/2008).

Con il secondo motivo, lamentando il difetto di motivazione, ci si duole che sia stata rigettata la domanda riconvenzionale – eccezione di compensazione procedendo ad una errata interpretazione dell’accordo del 1974, sul rilievo che nessuna azienda si sarebbe indotta ad erogare un’ora di retribuzione dal 1974 senza ricevere alcuna prestazione lavorativa, nè l’assorbibilità valeva solo in 1 caso di vertenze connesse alla produttività, ma per quelle relative al lavoro straordinario.

Il motivo è infondato.

Secondo parte ricorrente la menzionata clausola di assorbibilità avrebbe dovuto dar luogo alla non computabilità dei compensi per lavoro straordinario negli istituti per cui è causa o, quantomeno, in caso di diversa conclusione circa la computabilità, avrebbe dovuto far nascere il diritto alla restituzione degli importi corrisposti alla controparte in esecuzione del contratto aziendale.

Sotto un primo profilo, è contestata l’affermazione che la clausola di assorbibilità prevista dall’accordo del 1974 sia riferibile solo ai compensi previsti per aumento della produttività e non anche a quelli conseguenti all’effettuazione dello straordinario, in quanto porta all’illogica conclusione che il datore avrebbe corrisposto l’aumento senza nessuna contropartita sul piano della prestazione, a fronte di una semplice disponibilità ad aumentare la produttività.

Il giudice di merito avrebbe dovuto, invece, valutare l’accordo nella sua interezza, tenendo conto che il suo obiettivo era anche quello di evitare che in futuro potessero nascere controversie in punto di inclusione nel calcolo dell’i.d.a. e del t.f.r. dello straordinario.

Si contesta quindi l’interpretazione data dal giudice di merito all’accordo sindacale del 1974.

La censura è inammissibile sia sotto il profilo dell’erronea interpretazione, in quanto non specifica quali sarebbero i canoni di ermeneutica negoziale che il giudice di merito avrebbe violato, sia sotto il profilo della carenza di motivazione in quanto non sono indicati vizi logici o difetti di indagine in cui sarebbe incorso il secondo giudice.

E’ altresì infondata al riguardo la censura in punto di violazione della normativa di legge in materia di trattamento di fine rapporto contenuta nella L. n. 297 del 1982. Deve rilevarsi che ai fini del calcolo del t.f.r. i criteri di quantificazione della retribuzione annua fissati dall’art. 2120 c.c., nuovo testo, possono essere derogati solo dalla normativa collettiva intervenuta successivamente all’entrata in vigore della norma di legge e che tale deroga non può essere effettuata mediante il richiamo a norme pattizie previgenti.

Tali norme sono, infatti, mille in quanto la disciplina fissata dalla L. n. 297 è di carattere legislativo, di modo che la loro nullità prescinde dalla difformità o conformità rispetto alla nuova disciplina legislativa. La reviviscenza di dette clausole contrattuali mille può derivare solo da una “manifestazione di volontà delle parti contraenti che evidenzi una previsione diversa, rispetto a quella legale, circa il criterio specifico per l’individuazione della base di computo del trattamento di fine rapporto” (Cass. 24.6.95 n. 7185). Tale reviviscenza non è qui prospettata per l’accordo aziendale del 1974, atteso che parte ricorrente, pur facendo riferimento ad una generica rinegoziazione, nulla ha dedotto circa uno specifico intervento successivo in tema di calcolo del t.f.r. (nello stesso senso Cass. 2614/2008).

Con il terzo motivo ci si duole che la Corte territoriale non si sia pronunciata sulla eccepita sulla limitazione della inclusione nel TFR del compenso per lavoro straordinario alla data di entrata in vigore del CCNL del 1992, con esclusione del ricalcolo per il periodo successivo.

La censura è fondata.

La sentenza impugnata, mentre ha limitato al periodo anteriore all’entrata in vigore del CCNL del 1992 la inclusione dei compensi per lavoro straordinario negli istituti collaterali, non ha risposto al motivo di appello con cui il Poligrafico deduceva che analoga limitazione temporale doveva valere in relazione alla inclusione dei medesimi compensi nel TFR. La omissione di pronuncia determina l’annullamento della sentenza.

Con il quarto mezzo ci si duole del ricalcolo degli istituti collaterali per il periodo anteriore all’entrata in vigore del CCNL del 1992.

Il motivo è inammissibile, non avendo parte ricorrente prodotto i contratti collettivi, sui quali fonda la domanda, nella loro interezza.

Invero, dopo alcune perplessità (Cass. n. 21080 del 04/08/2008) la giurisprudenza maggioritaria di questa Corte (Cass. 11 febbraio 2008 n. 6432, n. 15495 del 02/07/2009, n. 2855 del 2009) si è orientata nel senso che è necessario il deposito del testo integrale del contratto.

Ciò in primo luogo in forza del dettato letterale dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (come modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40), il quale prevede che gli atti processuali, i documenti e i contratti o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda devono essere depositati insieme al ricorso a pena di improcedibilità, norma che non sembra prevedere deroghe, consentendo il deposito solo di stralci del contratto collettivo da interpretare.

Le modifiche apportate al codice di rito, per cui il ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 3 è consentito anche per violazione di accordi e contratti collettivi, si giustificano con l’esigenza di rafforzamento della funzione nomofilattica della Cassazione sul versante dalle contrattazione collettiva di diritto privato al fine, se non di eliminare, quanto meno di ridimensionare quelle zone di incertezza che hanno – in ragione sul piano istituzionale della mancata attuazione del disposto dell’art. 39 Cost. – caratterizzato non di rado le opzioni ermeneutiche della giurisprudenza di merito e di legittimità.

E’ altresì principio che trova concorde la giurisprudenza di legittimità, ed anche la dottrina, quello per cui i canoni ermeneutici da utilizzare non sono quelli incentrati sull’art. 12 preleggi ma sui generali criteri codicistici di cui all’art. 1362 c.c. e segg., applicabili a tutti gli atti espressione dell’autonomia privata.

Conviene però precisare quale sia l’ambito della interpretazione a cui la Corte di legittimità può e deve procedere, giacchè, sul piano sistematico, questa questione è connessa con quella che ne occupa nella specie, in cui si tratta di dimostrare che la legge impone il deposito del contratto collettivo nella forma integrale.

Alcuni commentatori hanno rilevato che, quando la domanda sia stata fondata su una o più specifiche disposizioni collettive, e solo su quelle si sia svolto il contraddittorio, alle medesime dovrebbe restringersi anche l’esame della cassazione, la quale, altrimenti, verrebbe indebitamente a conoscere di materiali non introdotti e non valutati nel giudizio di merito.

Se così fosse, sarebbe inutilmente oneroso esigere dal ricorrente il deposito integrale del ricorso, giacchè la interpretazione dovrebbe essere ristretta nei limiti che hanno contrassegnato il giudizio di merito e quindi non vi sarebbe necessità di esame di clausole ulteriori.

Al riguardo conviene in primo luogo richiamare i rilievi già svolti sul punto nei giudizi ex art. 420 bis cod. proc. civ., per decidere se essi possano valere anche quando non si tratta di questa speciale procedura, ma del normale ricorso per cassazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, in cui si assume che la sentenza impugnata abbia violato o falsamente i contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.

E’ stato precisato (Cass. n. 19560 del 2007) che, in sede di art. 420 bis cod. proc. civ. la Corte di legittimità – nell’enuncìare in funzione nomofilattica un principio – è tenuta ad operare come se l’oggetto del suo esame fosse una norma giuridica e non, invece, un negozio di natura privatistica.

Si è aggiunto, nella sentenza citata, per quanto attiene specificamente ai poteri della Corte di Cassazione, che nell’interpretazione del contratto, essa non è condizionata dalle domande delle parti e dal loro comportamento, potendo ricercare liberamente all’interno del contratto collettivo (da depositarsi ex art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) ciascuna clausola – anche se non oggetto dell’esame delle parti e del primo giudice – comunque ritenuta utile alla interpretazione.

Di conseguenza non si dubita che in quei procedimenti sia necessario depositare il contratto collettivo nella sua interezza (Cass. Sez. 50, Sentenza n. 16619 del 16/07/2009).

Fermo restando che i canoni ermeneutici da applicare sono sempre gli stessi, e cioè quelli indicati dal codice civile, ci si chiede se la metodica da seguire si differenzi davvero a seconda che l’interpretazione delle pattuizioni sindacali avvenga ad opera dei giudici di legittimità nel corso di un ordinario giudizio, ovvero attraverso l’iter procedurale disegnato dall’art. 420 bis c.p.c. (e con gli effetti determinati da tale norma e dall’art. 146 bis disp. att. c.p.c.).

La differenza tra i due procedimenti è indubbia, dal momento che quest’ultimo caso è funzionalizzato a provocare una pronunzia capace, seppure in via tendenziale, a fare stato in una pluralità di controversie cd. seriali, perchè interessanti la collettività dei lavoratori destinatari della contrattazione collettiva di cui viene definito l’ambito applicativo. Tutto ciò spiega – come si è già avuto modo di osservare con la già citata sentenza n. 19560 del 2007 – perchè la Corte di Cassazione nella procedura ex art. 420 bis c.p.c., non risulti vincolata alla opzione ermeneutica del giudice di merito, pur fondata su una motivazione congrua e corretta sul piano logico, potendo la stessa Corte, a seguito di propria ed autonoma scelta, pervenire ad una diversa decisione di quella del primo giudice, non solo per quanto attiene alla validità ed efficacia del contratto, ma anche in relazione alla sua interpretazione, attraverso una diversa valutazione degli stessi elementi di fatto già vagliati dal giudice di merito, atteso che presupposto indispensabile della funzione nomofilattica (al cui rafforzamento è volta la suddetta disposizione di rito) è la certezza e la stabilità delle statuizioni giurisprudenziali, che rendono inammissibile che possano darsi, di una identica disposizione contrattuale, interpretazioni corrette – quanto a motivazioni e quanto ad applicazione dei criteri di cui all’art. 1362 c.c. – ed al tempo stesso tra esse contrastanti.

Sembra al Collegio che alla stessa conclusione si debba pervenire in relazione all’ambito dell’interpretazione che compete alla Corte nel caso in cui venga proposto ordinario ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 3.

In primo luogo è stato osservato da alcuni commentatori che l’art. 420 bis cod. proc. civ. non indica il tipo di controllo cui la Corte deve procedere quando è investita del ricorso per saltum sulla questione pregiudiziale, dandolo per presupposto proprio in base al precedente art. 360 c.p.c., n. 3, senza il quale l’art. 420 bis c.p.c. non potrebbe operare; a tal fine le due disposizioni sono state introdotte contestualmente dal D.Lgs. n. 40 del 2006. In altri termini, il procedimento ex art. 420 bis trova necessario fondamento nella nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, e nulla autorizza ritenere che, nell’un caso, l’analisi della contrattazione collettiva debba essere più limitato rispetto a quanto previsto per l’altro. E’ poi innegabile che la interpretazione resa ex art. 420 bis c.p.c., oltre avere effetto anticipatorio, abbia una maggiore forza cogente, stante il disposto dell’art. 146 bis disp. att. cod. proc. civ. in cui richiamando il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 64, comma 7 si sancisce l’influenza della decisione della Corte in altri processi in cui si controverta sulla medesima questione.

La statuizione ha quindi effetti diversi, tuttavia nessuna disposizione diversifica il processo interpretativo da applicare in caso di ricorso normale ed in caso del ricorso per saltum. Invero, la nomofilachia, cui le nuove norme sono finalizzate, sarebbe pregiudicata ove si ritenesse che, nell’un caso, l’interpretazione debba essere astretta alle clausole contrattuali esaminate nei gradi di merito, mentre, nell’altro, la interpretazione si possa svolgere a tutto campo, reperendo nel contratto altre clausole, non esaminate, che però potrebbero risolvere ogni margine di incertezza. Il rischio starebbe nella emanazione di sentenze contrastanti, recanti cioè interpretazioni diverse sulla medesima questione e sulla base della medesima contrattazione collettiva, stante il diverso grado di affidabilità delle une rispetto alle altre, a causa della completezza o meno dell’indagine che la Corte ha svolto.

Peraltro, come si è già avuto modo di osservare con la citata sentenza n. 19560 del 2007, nella giurisprudenza di legittimità è ormai costante – nell’interpretazione della disciplina contrattuale collettiva dei rapporti di lavoro, censurabile in sede di giudizio di cassazione solo per vizi di motivazione e violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale – l’affermazione che, sebbene la ricerca della comune intenzione delle parti debba essere operata innanzitutto sulla base del criterio dell’interpretazione letterale, assume valore preminente il criterio logico – sistematico di cui all’art. 1363 c.c., che impone di desumere la volontà dei contraenti come manifestata nella globalità delle clausole afferenti il contratto collettivo ed aventi immediata attinenza alla materia in contesa (cfr. in tali termini tra le altre: Cass. 22 giugno 2006 n. 14461; Cass. 9 maggio 2006 n. 10636; Cass. 21 marzo 2006 n. 6264).

Ossia, stanti gli innegabili limiti sul versante istruttorio che la Corte di Cassazione incontra nell’ambito della procedura interpretativa, assume un rilievo particolare il criterio logico sistematico della interpretazione complessiva delle clausole stesse.

Orbene, se fosse precluso alla Corte, anche in sede di ricorso ordinario, di applicare il criterio sistematico, interpretando le clausole le une per mezzo delle altre, la decisione che ne sortirebbe sarebbe sicuramente meno affidabile e meno “resistente” rispetto ad altri interventi, sentenze rese ex art. 420 bis cod. proc. civ., che si possono invece giovare di questo fondamentale criterio ermeneutico.

Si è obiettato da alcuni commentatori che la presa in considerazione, da parte della Corte, di clausole non valutate dai giudici di merito, potrebbe pregiudicare il contraddittorio, dal momento che i contratti collettivi non sono stati interamente equiparati alla legge.

Si può rispondere che – data per scontata la non equiparazione del contratto collettivo alla legge ( prova ne sia la diversa tipologia dei canoni ermeneutici, cui già si è fatto cenno) – tuttavia il legislatore ha investito la Corte in relazione alla indubbia efficacia precettiva della fonte contrattuale, in funzione della sua “proiezione” diretta a disciplinare una serie di contratti individuali di lavoro.

Ed allora, per consentire alle parti di interloquire su clausole non considerate in sede di merito, si potrebbe ricorrere all’art. 384 c.p.c., comma penultimo, (cfr. disposizione analoga per il giudizio di merito introdotta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 11) provocando il contraddittorio sulla questione, come non si dubiterebbe di dover fare nel caso si trattasse di norme di legge, in forza del principio, più volte enunciato, per cui il giudice ha l’obbligo di rilevare d’ufficio l’esistenza di una norma di legge idonea ad escludere o a fondare, alla stregua delle circostante di fatto allegate ed acquisite agli atti, il diritto vantato dalla parte, senza che su tale obbligo possa esplicare rilievo la circostanza che nei gradi di merito le questioni controverse abbiano investito altri e diversi profili (Sez. un. n. 10933 del 7 novembre 1997). In ogni caso, è necessario il deposito del contratto collettivo nazionale in forma integrale, pena la improcedibilità del ricorso, come la norma di legge prevede, per cui, solo all’esito di questa produzione ed al suo esame complessivo, sarà possibile aprire il contraddittorio sulle parti del contratto non esaminate in sede di merito.

Quanto alle modalità del deposito, la disposizione (art. 369 c.p.c., n. 4) impone di farlo unitamente al ricorso, ma è ben possibile che nel ricorso medesimo si indichi che la copia del contratto collettivo è già inserita nel fascicolo dei gradi di merito in atti, indicazione necessaria affinchè la Corte lo reperisca agevolmente, nell’ambito di quel sistema di collaborazione tra le parti ed il giudice, funzionale alla speditezza ed alla chiarezza del procedimento, introdotto dal D.Lgs n. 40 del 2006. Ancora in relazione alle modalità di deposito, si è già affermato (Ordinanza n. 2855 del 5 febbraio 2009) che “L’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda – imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella nuova formulazione di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006 – non può dirsi soddisfatto con il deposito, oltre il termine di cui all’art. 369 c.p.c., comma 1, dei fascicoli di parte di primo e secondo grado, contenenti il contratto, per estratto, in allegato al ricorso di primo grado, a nulla rilevando che il contratto sia stato depositato, a sua volta, dal ricorrente incidentale, atteso che, ove venisse ammessa tale equipollenza nella produzione, verrebbe disattesa la lettera del citato art. 369 c.p.c., che sancisce l’improcedibilità, senza eccezioni”.

10. Conclusivamente va accolto il terzo motivo, con conseguente cassazione sul punto della sentenza impugnata e rinvio ad altro giudice che si designa nella Corte d’appello di Roma il diversa composizione, mentre vanno rigettati il primo e secondo motivo e va dichiarato improcedibile il quarto, dovendosi affermare il principio di diritto per cui la produzione di meri stralci del contratto collettivo nazionale di lavoro non corrisponde alla prescrizione di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo ed il secondo motivo del ricorso, dichiara improcedibile il quarto ed accoglie il terzo, cassa in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 22 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2010

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