Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6719 del 19/03/2010

Cassazione civile sez. II, 19/03/2010, (ud. 09/02/2010, dep. 19/03/2010), n.6719

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. ODDO Massimo – Consigliere –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3405-2005 proposto da:

B.P. (OMISSIS), BA.PI.

(OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI

GRACCHI 130, presso lo studio dell’avvocato MACRI’ TERESA,

rappresentati e difesi dall’avvocato CANIGLIA PIETRO;

– ricorrenti –

contro

T.S. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 63, presso lo studio

dell’avvocato CONTALDI MARIO, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato LONGHIN ROBERTO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1461/2004 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 23/09/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/02/2010 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SCARDACCIONE Eduardo Vittorio che ha concluso per il rigetto del

ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

B.P. e Ba.Pi. convenivano in giudizio T.S. esponendo: che essi attori erano comproprietari di diversi alloggi siti in (OMISSIS); che il convenuto aveva acquistato in detto stabile un alloggio in cui stava eseguendo lavori di ristrutturazione onde adibirlo a studio dentistico; che l’art. 6 del regolamento condominiale inibiva la destinazione delle singole unità immobiliari ad ambulatorio dentistico ed attività connesse. I B. chiedevano quindi che fosse inibito al convenuto l’utilizzo dell’alloggio a studio dentistico ed attività connesse.

T.S., costituitosi, chiedeva il rigetto della domanda sostenendone l’infondatezza.

Con sentenza 30/6/2003 l’adito tribunale di Torino dichiarava inibito al convenuto l’utilizzo dell’immobile quale studio medico-dentistico.

Avverso la detta sentenza il T. proponeva appello al quale resistevano i B..

Con sentenza 23/9/2004 la corte di appello di Torino, in riforma dell’impugnata decisione, rigettava la domanda dei B.. La corte di appello, per quel che ancora rileva in questa sede, osservava: che erano fondate le censure mosse dall’appellante all’interpretazione data dal tribunale all’art. 6 del regolamento condominiale contrattuale in questione contenente il divieto di destinazione delle singole unità immobiliari “ad ambulatorio dentistico ed attività connesse”; che infatti si doveva dare preminenza al significato letterale della terminologia usata dal regolamento nel rispetto del criterio basilare dell’interpretazione negoziale; che nella specie andava considerata la necessità di un’interpretazione rigorosa e restrittiva delle disposizioni a carattere derogativo, rispetto alla disciplina generale, implicanti l’imposizione di limitazioni alle facoltà di norma riconducibili alla pienezza dell’esercizio del diritto di proprietà di ciascun condomino; che il termine “ambulatorio” non era l’equipollente del termine “studio medico”; che tale assunto trovava conferma nel R.D. 18 giugno 1931, n. 773, art. 193 (T.U.L.P.S.) implicante, per la costituzione di ambulatori, il preventivo rilascio dell’autorizzazione da parte della competente Azienda USSL; che con detto termine si doveva far riferimento ad una struttura aziendale aperta – spersonalizzata ed organizzata imprenditorialmente in vista di un’affluenza di un pubblico indeterminato – destinata alla diagnosi e/o alla terapia medica extraospedaliera, mentre doveva ritenersi semplice studio medico quello concernente l’esercizio individuale dell’attività sanitaria con profilo professionale prevalente rispetto a quello organizzativo;

che era evidente la “ratio legis” sottesa al preventivo rilascio dell’autorizzazione nel caso di ambulatori trattandosi di una struttura assimilabile ad una casa di cura; che l’inserimento del divieto di cui al citato articolo 6 del regolamento si giustificava in considerazione della esigenza di assicurare la tranquillità del condominio tenuto conto dell’affluenza nell’ambulatorio di una mole indeterminata di utenti; che erano condivisibili anche le ulteriori osservazioni svolte dall’appellante circa la necessità di interpretare la norma in esame mediante il riferimento al contesto complessivo del regolamento e, in particolare, all’inclusione nell’art. 1 dell’espressa previsione, nell’ambito dell’indicazione delle destinazioni d’uso delle singole unità, della destinazione pertinente agli studi professionali.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Torino è stata chiesta da B.P. e Ba.Pi. con ricorso affidato ad un unico motivo. T.S. ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di ricorso, articolato in più censure, i B. denunciano vizi di motivazione e violazione degli artt. 2697 e 1362 e segg. c.c., R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 193 e art. 113 c.p.c..

Deducono i ricorrenti che, avendo essi B. dimostrato a norma dell’art. 2697 c.c. la violazione da parte del condomino T. del divieto contenuto nell’articolo 6 del regolamento condominiale, il giudice di appello doveva confermare la sentenza di primo grado e accogliere la domanda inibitoria proposta nei confronti del detto condomino. La corte di merito doveva applicare l’art. 1362 c.c. che tratta l’intenzione dei contraenti. Nella specie l’intenzione della parte beneficiata dall’art. 6 del regolamento in questione era quella di evitare lo svolgimento di attività di due medici dentistici nello stesso stabile onde evitare la concorrenza. Il beneficio di utilizzare gli alloggi per lo svolgimento di attività di medico dentista era stato infatti esclusivamente riservato a favore di essi B.. La clausola in esame era stata pattuita per eliminare la concorrenza nello stesso stabile tra due medici dentisti. La corte di appello, inoltre, non doveva esaminare ed applicare il R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 193 che non fa alcun riferimento alla notoria e pacifica attività del medico dentista il quale nessuna autorizzazione deve chiedere per svolgere la detta attività. E’ quindi errato sostenere una differenza – nel caso di attività svolta da un medico dentista – tra ambulatorio medico dentista e studio medico dentistico.

La Corte rileva l’infondatezza delle dette censure che si risolvono essenzialmente nella pretesa di contrastare il risultato dell’attività svolta dalla corte di appello in ordine all’interpretazione dell’art. 6 del regolamento contrattuale condominiale in questione.

Al riguardo occorre osservare che, secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, l’interpretazione del regolamento contrattuale di condominio da parte del giudice del merito è insindacabile in sede di legittimità, quando non riveli violazione dei canoni di ermeneutica oppure vizi logici.

E’ del pari pacifico nella giurisprudenza di legittimità il principio secondo cui l’interpretazione degli atti di autonomia privata si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice del merito e censurabile in sede di legittimità solo per il caso di insufficienza o contraddittorietà di motivazione tale da non consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione, ovvero per il caso di violazione delle regole ermeneutiche di cui all’art. 1362 e segg. c.c.. L’individuazione della volontà contrattuale – che, avendo ad oggetto una realtà fenomenica ed obiettiva, si risolve in un accertamento di fatto – è censurabile non già quando le ragioni poste a sostegno della decisione siano diverse da quelle della parte, bensì quando siano insufficienti o inficiate da contraddittorietà logica o giuridica.

La giurisprudenza di questa Corte ha anche più volte rilevato che non è sindacabile in sede di legittimità la scelta da parte del giudice del merito del mezzo ermeneutico più idoneo all’accertamento della comune intenzione delle parti, qualora sia stato rispettato il principio del gradualismo, secondo il quale deve farsi ricorso ai criteri interpretativi sussidiari solo quando i criteri principali (significato letterale e collegamento tra le varie clausole contrattuali) siano insufficienti all’individuazione della comune intenzione stessa.

Nella specie il giudice di secondo grado ha ineccepibilmente proceduto all’interpretazione del regolamento contrattuale in questione (in particolare dell’art. 6 di tale regolamento) ed alla valutazione del significato letterale e logico della espressione “ambulatorio dentistico” adoperata nella menzionata norma regolamentare.

La corte di appello ha ampiamente giustificato tale valutazione ed è quindi giunta alla conclusione che la detta espressione andava interpretata letteralmente in senso restrittivo e contrapposto alla diversa espressione “studio medico”.

Al riguardo il giudice di secondo grado ha fatto specifico riferimento alla diversità tra “ambulatorio” e “studio medico” illustrando i motivi di tale differenziazione.

Il procedimento logico-giuridico sviluppato nell’ impugnata decisione è ineccepibile, in quanto coerente e razionale, ed il giudizio di fatto in cui si è concretato il risultato dell’interpretazione della norma regolamentare in questione è fondato su un’indagine condotta nel rispetto dei comuni canoni di ermeneutica e sorretto da motivazione adeguata ed immune dai vizi denunciati.

Il giudice di secondo grado – con corretta indagine in fatto condotta attraverso tutti gli elementi desumibili dal contesto generale dell’atto negoziale in esame – ha quindi svolto coerentemente il compito interpretativo affidatogli indicando minuziosamente le ragioni che gli hanno consentito di pervenire alle riportate conclusioni.

Le argomentazioni al riguardo svolte nell’impugnata decisione sono esaurienti, logicamente connesse tra di loro e tali da consentire il controllo del processo intellettivo che ha condotto alla indicata conclusione.

Va peraltro aggiunto – a ulteriore conferma della decisione adottata – che la corte di appello con la decisione impugnata si è attenuta a quanto affermato nella giurisprudenza di legittimità in tema di differenza ontologica tra “ambulatorio” e “studio medico”.

Al riguardo va infatti rilevato che questa Corte ha avuto modo di affermare che:

– deve qualificarsi come ambulatorio, per il cui esercizio è richiesta, ai sensi del combinato disposto della L.R. Lombardia n. 5 del 1986, art. 5 e art. 193, cit. T.u.l.p.s., l’autorizzazione da parte della competente azienda Usl, ogni struttura aziendale destinata alla diagnosi e/o alla terapia medica extraospedaliera, mentre deve ritenersi semplice studio medico quello nel quale si eserciti un’attività sanitaria il cui profilo professionale si appalesi come assolutamente prevalente rispetto a quello organizzativo, senza che, contro tale interpretazione, possa legittimamente invocarsi altra e diversa nozione di ambulatorio, quale quella eventualmente desumibile dal disposto normativo di cui al tariffario delle tasse sulle concessioni regionali approvata con D.Lgs. n. 230 del 1991, diversa essendo la finalità delle norme sin qui richiamate, l’una eminentemente fiscale, l’altra di controllo e tutela sanitaria, propria della p.a. (Cassazione civile, sez. 1, 14 gennaio 1998, n. 256);

– è ambulatorio, la cui apertura lecita postula l’autorizzazione amministrativa, ogni struttura aziendale destinata alla diagnosi o terapia medica extraospedaliera. Lo studio medico è da identificare come il luogo di esercizio dall’assistenza sanitaria, caratterizzata dalla prevalenza del profilo professionale su quello organizzativo.

(Cass. penale sez. 3, 06 luglio 1995, n. 10043).

Va infine posto in evidenza che la corte di appello ha anche espressamente richiamato e fatto proprio il costante principio giurisprudenziale secondo cui le restrizioni alle facoltà inerenti alla proprietà esclusiva contenute nel regolamento di condominio di natura contrattuale devono essere formulate in modo espresso o comunque non equivoco e non possono quindi dar luogo ad un’interpretazione estensiva delle relative norme (da ultimo, sentenza di questa Corte 20/7/2009 n. 16832).

In definitiva deve ritenersi insussistente la denunciata violazione delle norme indicate nei motivi di ricorso in esame: l’operazione interpretativa compiuta dal giudice del merito è corretta ed anche se il ricorrente lamenta la violazione delle citate norme codicistiche, svolgendo al riguardo generiche argomentazioni, la rilevata coerente applicazione dei canoni interpretativi da parte del giudice di appello, rende manifesto che è stato investito essenzialmente il “risultato” interpretativo raggiunto, il che è inammissibile in questa sede.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con la conseguente condanna dei soccombenti B. al pagamento delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 2.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 9 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2010

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