Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6714 del 10/03/2021

Cassazione civile sez. lav., 10/03/2021, (ud. 10/11/2020, dep. 10/03/2021), n.6714

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 22081-2018 proposto da

T.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DI

PRISCILLA N. 4, presso lo studio dell’Avvocato MASSIMO BEVERE, che

lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ACEA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR n. 19, (STUDIO

FOLETTO DE LUCA TAMAJO & SOCI) presso lo studio degli Avvocati

FEDERICA PATERNO’, MARIA STELLA COCCIA, RAFFAELE DE LUCA TAMAJO, che

la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2081/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata 11 18/05/2018 R.G.N. 487/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2020 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ILARIA DI MUCCIO, per delega verbale Avvocato

MASSIMO BEVERE;

udito l’Avvocato MARIA STELLA COCCIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Roma, con la sentenza n. 20181 del 2018, ha rigettato il reclamo proposto avverso la pronuncia del Tribunale della stessa sede con la quale era stata confermata la ordinanza del 25.6.2017 di rigetto della domanda di declaratoria della illegittimità del licenziamento intimato da Acea Illuminazione Pubblica spa al dipendente T.A..

2. Nella gravata decisione si legge che il predetto T. era stato assunto in data 15.2.1999 da S.M.T. Società Mineraria del Trasimeno (società facente parte del Gruppo Acea), divenuta Acea Luce spa con successiva prosecuzione del rapporto di lavoro, dal maggio 2005, con Acea distribuzione spa e successivamente, dall’1.5.2013, con Acea Illuminazione pubblica spa.

3. Il lavoratore, dopo un periodo di assenza per aspettativa per lo svolgimento di carica pubblica dal 2013 all’1.4.2015 (quale Presidente del (OMISSIS) Municipio) era stato sospeso dal servizio e dalla retribuzione con effetto dal (OMISSIS), a seguito dell’applicazione nei suoi confronti della misura restrittiva della libertà personale e, in data 17.6.2016, gli era stato notificato il provvedimento di revoca della misura cautelare degli arresti domiciliari.

4. Con lettera ricevuta dal T. in data 30.6.2016, l’Acea gli aveva comunicato: “Con riferimento alla nostra del (OMISSIS) n. 54, con la quale abbiamo disposto la sua sospensione dal servizio e dalla retribuzione in conseguenza della Sua impossibilità di rendere la prestazione lavorativa, le comunichiamo la risoluzione del rapporto di lavoro. Detta risoluzione viene intimata per gli effetti dell’art. 34, comma 3 CCNL applicato alla unità produttiva di appartenenza, con efficacia dalla data di ricezione della presente e liquidazione della indennità di mancato preavviso. Il protrarsi della Sua assenza ha peraltro determinato il venir meno dell’interesse datoriale alla sua eventuale e futura prestazione lavorativa”.

5. I giudici di seconde cure, in sintesi, hanno rilevato che: a) la disposizione contrattuale collettiva richiamata (art. 34 CCNL elettrici) corrispondeva alla situazione di fatto per la quale la società aveva disposto il licenziamento e aveva introdotto, in favore del lavoratore, una ipotesi particolare di sospensione del rapporto di lavoro che precludeva per dodici mesi l’esercizio del potere di recesso ex art. 1464 c.c.; b) al di là della esattezza della norma collettiva richiamata, il licenziamento era stato determinato dalla mancata prestazione di attività lavorativa, da parte del T., per un periodo superiore ad un anno, e trovava il suo fondamento nella disciplina di legge dettata dagli artt. 1463 e 1464 c.c.; c) la fattispecie della previsione del recesso di cui all’art. 1464 c.c. non era strettamente equiparabile alla risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo, determinata dalla volontà del datore di lavoro per il proseguimento degli interessi collegati alle sue scelte organizzative; d) nella fattispecie andavano valutati, ai fini del giudizio di intollerabilità: 1) il protrarsi della assenza dal (OMISSIS) al (OMISSIS) (che era oggettivamente suscettibile di incidere sull’organizzazione dell’attività di impresa e di determinare una grave disfunzione); 2) la necessità di modifiche, nell’anno di assenza del lavoratore e nella unità di appartenenza dello stesso, dell’assetto aziendale che non consentiva un proficuo inserimento dello stesso; 3) la irrilevanza delle dimensioni della società, circa la durata della custodia cautelare, perchè comunque essa doveva rispondere a criteri di economicità; e) con la lettera del 27.6.2018, pervenuta il 30.6.2016, il lavoratore si era limitato ad offrire solo formalmente le proprie prestazioni, chiedendo un ulteriore periodo di aspettativa con effetto immediato e per un anno, per l’impegno che lo vedeva coinvolto nella vicenda penale.

6. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, T.A. il quale, con comparsa del 10.12.2018, si è costituito con un nuovo difensore.

7. L’ACEA spa ha resistito con controricorso illustrato con memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I motivi possono essere così sintetizzati.

2. Con il primo motivo il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi, in relazione agli artt. 1463 e 1464 c.c. nonchè la motivazione apparente e contraddittoria ed il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Deduce che la Corte di merito, dopo avere dato indubbia rilevanza alla norma contrattuale cui l’Acea spa aveva ricondotto il licenziamento (art. 34 CCNL elettrici che però non riguardava il T. a cui era sempre stato applicato il CCNL Gas – Acqua) e di avere sottolineato che ciò che contava era l’identità dei fatti posti a base del recesso, aveva, poi, con una motivazione contraddittoria, illogica e non coerente, fatto rientrare il licenziamento in contestazione sia nella categoria giuridica di cui all’art. 1463 c.c. (impossibilità sopravvenuta totale della prestazione) sia in quella di cui all’art. 1464 c.c. (impossibilità parziale della prestazione), che, secondo l’assunto del T., avrebbe però legittimato solo la sospensione del rapporto di lavoro e non la sua definizione.

3. Con il secondo motivo si censura la violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 112,113 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, art. 118 disp att. c.p.c. e della L. n. 604 del 1966, artt. 2 e 3 il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la motivazione insufficiente e contraddittoria nonchè il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e 5. Si sostiene che la Corte di appello, in presenza di un licenziamento sprovvisto di motivazione, aveva colmato le evidenti lacune avvalendosi di poteri che non le competevano, ben oltre quello decisionale attribuitole dalla legge, concretizzando così una conclamata violazione dei principi cardine del processo rappresentati dal divieto di ultra o extra petizione e dall’obbligo di rendere una motivazione sufficiente, logica e ordinata. In particolare, precisa che la Corte territoriale aveva fondato la propria decisione sulla legittimità del licenziamento non applicando i contenuti precettivi della L. n. 604 del 1966, art. 4 ed escludendo l’obbligo del repèchage pur avendo ipotizzato il giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

4. Il primo motivo è infondato.

5. E’ opportuno premettere che il richiamo effettuato dalla Corte territoriale all’art. 34 CCNL Elettrici, operato nella lettera di contestazione, è stato svolto unicamente per rappresentare la situazione di fatto in relazione alla quale era stato disposto il licenziamento del dipendente.

6. Con tale richiamo i giudici di seconde cure non hanno specificato che il Contratto Collettivo Elettrici regolasse il rapporto di lavoro del T. nè che il recesso dovesse essere modulato in relazione a tale disposizione, ma si sono limitati a ritenerlo elemento idoneo a rappresentare al lavoratore le ragioni del recesso: cioè una assenza prolungata per più di dodici mesi che aveva determinato il venire meno dell’interesse datoriale alla sua eventuale e futura prestazione residua.

7. Ciò non contrasta con i principi affermati in sede di legittimità secondo i quali la funzione della motivazione del licenziamento resta quella di consentire al lavoratore di comprendere, nei termini essenziali, le ragioni del recesso (Cass. n. 16795 del 2020; Cass. n. 6678 del 2019).

8. Inoltre, la Corte di merito non ha fatto rientrare la fattispecie in questione sia nell’ambito operativo dell’art. 1463 c.c. che di quella dell’art. 1464 c.c.: ha richiamato entrambe le norme per sottolineare che il caso concreto gravitasse nel contesto giuridico dell’istituto della “impossibilità sopravvenuta” dell’obbligazione, ma poi ha inquadrato, nello specifico, la vicenda in questione nella previsione del recesso di cui all’art. 1464 c.c., non strettamente equiparabile alla risoluzione del rapporto per giustificato motivo oggettivo, ma determinata, invece, dalla mancanza di un interesse apprezzabile all’adempimento parziale della prestazione.

9. Infatti, la persistenza o meno di un interesse rilevante a ricevere le ulteriori prestazioni, in ipotesi di assenza dal lavoro per carcerazione preventiva, deve essere parametrata alla stregua di criteri oggettivi, riconducibili a quelli fissati nella L. n. 604 del 1966, art. 3, u.p. e cioè con riferimento alle oggettive esigenze dell’impresa, da svolgere, però, con una valutazione ex ante, e non già ex post, in cui si tenga conto delle dimensioni dell’impresa, del tipo di organizzazione tecnico-produttiva, della natura ed importanza delle mansioni del dipendente, del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevole prevedibilità di ulteriore durata dell’impossibilità, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell’assenza (Cass. n. 19135 del 2016; Cass. n. 12721 del 2009).

10. La Corte territoriale si è attenuta a tali principi e con un accertamento in fatto, da cui è possibile evincere la ratio decidendi di talchè resiste alle censure di avere adottato una motivazione apparente, illogica e contraddittoria – che sussiste invece solo quando non è consentito alcun controllo sulla esattezza e sulla logicità del ragionamento decisorio così da non attingere la soglia del cd. “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost. (Cass. n. 13248 del 2020; Cass. n. 17196 del 2020) – ha ritenuto che il protrarsi dell’assenza del dipendente, per più di un anno, fosse tale da determinare appunto la perdita di interesse del datore di lavoro alla eventuale prestazione residua.

11. Nè può condividersi l’assunto del ricorrente secondo cui la fattispecie dell’art. 1464 c.c. legittimerebbe solo la sospensione del rapporto e non anche la sua definizione.

12. Invero, il dato normativo è chiaro nell’attribuire al datore di lavoro anche tale ultima facoltà che, secondo la giurisprudenza di legittimità, è consentita solo quando, sulla base di tutte le circostanze del caso concreto, non si possa prevedere (dunque necessariamente a livello di prognosi) la ripresa dell’attualità del rapporto senza significativi pregiudizi per l’organizzazione del datore di lavoro in relazione alla prevedibile durata dell’assenza (Cass. n. 1591 del 2004).

13. Anche il secondo motivo è infondato.

14. In primo luogo, va escluso ogni vizio di ultra o extra petizione della gravata pronuncia, che si ha quando il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, altera gli elementi obiettivi dell’azione ovvero, sostituendo i fatti costitutivi della pretesa emette un provvedimento diverso da quello richiesto oppure attribuisce o nega un bene diverso dalla vita diverso a quello conteso (Cass. n. 18868 del 2015; Cass. n. 455 del 2011): ipotesi non ravvisabili nella fattispecie.

15. In secondo luogo, deve osservarsi che i giudici di seconde cure, a fronte di una motivazione specifica e intellegibile del licenziamento (come sopra evidenziata) hanno correttamente valutato le circostanze obiettive che giustificavano il provvedimento di licenziamento all’atto della sua adozione.

16. Al riguardo, giova precisare che nella comunicazione del licenziamento il datore di lavoro ha l’onere di specificare i motivi ma non è tenuto, neppure dopo la modifica legislativa della L. n. 604 del 1966, art. 2, comma 2 per opera della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 37 ad esporre in modo analitico tutti gli elementi di fatto e di diritto alla base del provvedimento (Cass. n. 16795 del 2020).

17. I giudici di appello hanno valutato, senza quindi incidere sulla motivazione del recesso, i criteri normativi di riferimento di cui alla L. n. 604 del 1966, art. 3 che, sebbene non strettamente vincolanti o limitativi, costituiscono gli indici per accertare l’oggettiva carenza dell’interesse del datore di lavoro alla residua prestazione ex art. 1464 c.c.

18. Essi hanno, perciò ritenuto, sulla base delle allegazioni difensive prospettate dalla società (che in sede di appello non erano state specificamente censurate), che, nell’anno di assenza del lavoratore, nell’unità di appartenenza erano intervenute modifiche tali da non consentire un proficuo inserimento lavorativo di quest’ultimo; inoltre hanno evidenziato che le dimensioni dell’azienda non incidevano sulla irrilevanza, per il datore di lavoro, della durata della custodia cautelare e che, oggettivamente, una assenza di più di un anno di una posizione lavorativa era in grado di ricadere sulla organizzazione dell’attività di impresa.

19. Si tratta di una valutazione svolta per accertare l’interesse dell’imprenditore alla prestazione lavorativa, rimessa al giudice di merito, che vi ha provveduto avendo riguardo alle possibili e prevedibili capacità lavorative del prestatore e alla organizzazione dell’azienda: detta valutazione in fatto, correttamente e congruamente motivata, non è censurabile in sede di legittimità.

20. In modo condivisibile, da ultimo, è stata esclusa l’operatività dell’obbligo di repèchage in quanto, nel caso di impossibilità sopravvenuta ex art. 1464 c.c. per stato di detenzione del lavoratore -a differenza di quanto accade nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo- vi è un fatto oggettivo, estraneo alla volontà del datore di lavoro e non riconducibile alle sue scelte imprenditoriali, che incide sulla organizzazione aziendale comportandone, di per sè una modificazione connessa alla incapacità totale di usufruire – per la imprevedibilità della durata della sospensione – di ogni prestazione lavorativa di quei determinato dipendente, con conseguente impossibilità di ipotizzare ogni ricollocamento alternativo e/o parziale.

21. In altri termini, vi è una ragione ostativa che rileva intuitu personae sicchè il repechage è escluso per una impossibilità intrinseca di operatività di detto istituto che richiede, invece, pur sempre una fungibilità ed una idoneità attuale lavorativa (sia pure parziale) del dipendente, sincroniche alla determinazione datoriale.

22. Alla stregua, pertanto, di quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato.

23. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti processuali, sempre come da dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie della misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 10 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2021

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