Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6704 del 06/04/2016


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Civile Sent. Sez. L Num. 6704 Anno 2016
Presidente: MAMMONE GIOVANNI
Relatore: TRIA LUCIA

SENTENZA
sul ricorso 2505-2013 proposto da:
ILVA

S.P.A.

P.I.

11435690158,

in

persona

del

Presidente e legale rappresentante pro tempore,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO
VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato NICOLA
DOMENICO PETRACCA, che la rappresenta e difende
2016
161

unitamente all’avvocato LUCA MASSIMO FAILLA, giusta
delega in atti;
– ricorrentecontro

EQUITALIA

NORD

S.P.A.

P.I.

07244730961,

quale

Data pubblicazione: 06/04/2016

incorporante di EQUITALIA ESATRI SPA, GIA’ GEST LINE
P.A., in persona dell’Amministratore e legale
appresentante pro tempore, elettivamente domiciliata
in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio
dell’avvocato PAOLO BOER, che la rappresenta e difende

INPS – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE C.F.
80078750587, in persona del legale rappresentante pro
tempore, in proprio e quale mandatario S.C.C.I.
CARTOLARIZZAZIONE CREDITI INPS S.P.A. C.F.
05870001004, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale
dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati
CARLA D’ALOISIO, LELIO MARITATO, EMANUELE DE ROSE,
ANTONINO SGROI, giusta delega in atti;
– controricorrenti nonchè contro

GEST LINE SPA ;
– intimata –

avverso la sentenza non definitiva n. 668/2009 della
CORTE D’APPELLO DI GENOVA, depositata il 14/12/2009
R.G.N. 1119/2004;
avverso la sentenza definitiva n. 1/2012 della CORTE
D’APPELLO di GENOVA, depositata il 10/01/2012 R.G.N.
1119/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica

unitamente all’avvocato MARIA ROSA VERNA;

udienza del 14/01/2016 dal Consigliere Dott. LUCIA

udito l’Avvocato SOLFANELLI ANDREA per delega Avvocato
PETRACCA NICOLA;
udito l’Avvocato BOER PAOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. MARCELLO MATERA che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

udito l’Avvocato MARITATO LELIO;

*

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.- La sentenza non definitiva attualmente impugnata – pronunciandosi sugli appelli
riuniti avverso le sentenze del Tribunale di Genova n. 2857/2003, n. 2686/2004 e 2687/2004
proposti dall’INPS sia in proprio sia nella qualità di mandatario della Società di
Cartolarizzazione dei Crediti INPS (SCCI s.p.a.) – in parziale riforma delle suindicate sentenze
ridetermina l’importo delle cartelle opposte in oggetto, escludendo quanto richiesto all’ILVA
s.p.a. a titolo di contribuzione sull’indennità di trasferta dei dirigenti e condanna la società
stessa al pagamento in favore dell’INPS di quanto dovuto per gli altri titoli dedotti in causa,
rimettendo, con separata ordinanza, la causa in istruttoria per la quantificazione del debito, da
effettuare con sentenza definitiva.
In tale sentenza (n. 668/2009) la Corte d’appello di Genova, per quel che qui interessa,
precisa che:
a) quanto alla questione della domanda riconvenzionale, va accolta la censura dell’INPS
perché, in base all’espresso rinvio contenuto nell’art. 29, comma 2, del d.lgs. 26 febbraio
1999, n. 46, l’opposizione a cartella di pagamento (diversamente da quella al ruolo,
riguardante il merito della pretesa e che vede come contraddittori l’INPS e la SCCI) deve
essere proposta nelle forme ordinarie, cioè in quelle previste dagli artt. 615 e 617 cod. proc.
civ.;
b) nella specie, le opposizioni, riguardando la regolarità formale delle cartelle, sono da
qualificare come opposizioni agli atti esecutivi, sicché esse sono inammissibili perché andavano
proposte entro il termine di cinque giorni dalla notifica delle cartelle, non essendo applicabile
ratione temporis il d.l. n. 35 del 2005, convertito dalla legge n. 80 del 2005, visto che la
suddetta notifica è avvenuta nel 2004;
c) quanto all’opposizione al ruolo, del pari contenuta nel ricorso in opposizione dell’ILVA,
a prescindere dalla problematica attinente i rapporti tra ruolo e sentenza che accerta la
parziale sussistenza del credito previdenziale, è comunque da escludere che l’INPS debba
formulare una specifica domanda per ottenere un titolo per il pagamento di un credito di entità
inferiore rispetto a quello portato dal ruolo, perché la minore pretesa contributiva è già
contenuta in quella maggiore ed è quindi già oggetto del contendere;
d) diversamente, si dovrebbe qualificare una simile domanda dell’Istituto previdenziale
come domanda riconvenzionale, ma questo sarebbe difficilmente compatibile con la veste di
attore in senso sostanziale che l’Ente assume nel giudizio di opposizione a cartella, come si
evince dalla giurisprudenza di legittimità in materia di opposizione a decreto ingiuntivo nonché
in materia di opposizione a cartella esattoriale nel sistema di cui all’art. 2 del di. n. 338 del
1989 (non risultando pronunce sul punto con riferimento al d.lgs. n. 46 del 1999), secondo cui
è solo l’opponente, quale convenuto in senso sostanziale, a poter proporre domande
riconvenzionali, impedite all’opposto perché da qualificare come domande nuove;

1

‘ad«)

Udienza del 14 gennaio 2016 – Aula A
n. 20 del ruolo – RG n. 2505/13
Presidente: Mammone – Relatore: Tria

e) conseguentemente, la rideterminazione della somma portata dal ruolo può essere
ettuata direttamente con la pronuncia di condanna, non essendo previsto un potere del
udice di annullamento e/o revoca del ruolo e della cartella (diversamente da quanto accade
per l’ordinanza-ingiunzione, ai sensi dell’art. 23 della legge n. 689 del 1981, disposizione di
carattere speciale, rispetto al regime generale sui limiti di valutazione dei provvedimenti
amministrativi da parte del giudice ordinario);

g) ne consegue che l’opponente, se lo riteneva necessario, avrebbe potuto completare le
proprie difese, in considerazione delle allegazioni del convenuto-opposto, ai sensi dell’art. 420,
commi quinto e settimo, cod. proc. civ. e ciò porta ad escludere qualsiasi violazione degli artt.
3 e 24 Cost., da parte dell’art. 24, commi 5 e 6, del d.lgs. n. 46 del 1999, essendo, dalla
disciplina codicistica sul rito del lavoro, garantito il diritto di difesa dell’opponente nei suddetti
termini;
h) infine, per completezza sul punto, va precisato che le cartelle di cui si discute
contengono, sia pure in modo sintetico ma nell’ambito e nel rispetto dei principi di cui al d.m.
21 settembre 1999, gli elementi sufficienti ed indispensabili per l’identificazione dei crediti
azionati, cioè: periodi contributivi, importi dei contributi dovuti e relative sanzioni, con
indicazione dei periodi cui rispettivamente si riferisce il mancato pagamento del dovuto;
i) quanto alla fiscalizzazione degli oneri sociali (dicembre 1996-dicembre 1997 e gennaioagosto 1998) va osservato che, dopo la diffida del Ministero dell’Ambiente a risarcire tutti i
danni con riserva di quantificazione del relativo ammontare, nei successivi verbali di
arrertementa (di gpnriain 1997) si attestava le perdita del diritta alla fiscalizzazione degli oneri
sociali, precisandosi che si era verificata l’ipotesi di illecito ambientale previsto dall’art. 18 della
legge n. 349 del 1986, sul presupposto della sentenza passata in giudicato del Pretore penale
di Genova n. 1143/1992 di condanna dei legali rappresentati e dei responsabili dell’ILVA per il
compimento di alcuni reati ambientali posti in essere nel 1991 e veniva anche determinato
l’importo delle riduzioni contributive indebitamente poste a conguaglio dall’ILVA;
I) diversamente da quel che sostiene la società, nella specie sono presenti tutti í
presupposti ai quali l’art. 1, comma 13, del d.l. 30 dicembre 1987, n. 536, convertito dalla
legge 29 febbraio 1988, n. 48 ricollega la perdita della fiscalizzazione degli oneri sociali in
oggetto, ivi compreso quello secondo cui “il fatto in questione deve aver comportato danno ai
sensi dell’art. 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349”;
m) infatti, tra le condotte che in base a tale ultima disposizione possono determinare il
danno ambientale vi è anche quella della alterazione o deterioramento del bene ambiente,
nella specie accertata dalla suddetta sentenza pretorile dalla quale risulta essere stato
appurato un consistente sversamento di loppa granulare in mare proveniente dalle Acciaierie di
Cornigliano che aveva determinato una alterazione del bene ambientale mare sia in superficie
sia sul fondale, tanto che l’ILVA ha provveduto alla relativa rimozione, sia pure con un
decennio di ritardo, come certificato dal Ministero dell’Ambiente con nota del 10 marzo 2004;
n) tale ricostruzione dei fatti non è stata contestata in giudizio dall’ILVA, che aveva
l’onere di dimostrare di avere diritto al beneficio contributivo (Cass. 9 febbraio 2004, n. 2387 e
Cass. 1 ottobre 2002, n. 14130);
2

f) d’altra parte, proprio dall’applicazione all’opposto dell’art. 414 cod. proc. civ. deriva
l’eventuale richiesta, da parte sua, di una somma minore di quella originaria non può essere
configurata come domanda riconvenzionale soggetta all’art. 418 cod. proc. civ., mentre,
specularmente, sarebbe, in ipotesi, inammissibile una modifica in aumento della pretesa;


1 o) ne consegue che l’ILVA non ha diritto al beneficio suddetto, senza che possa
– dividersi la tesi della società secondo cui, non essendo stata effettuata da parte del
,4400 Ministero dell’Ambiente la quantificazione del danno ambientale, la fiscalizzazione sarebbe
stata operante, perché una corretta interpretazione del citato art. 1, comma 13, del d.l. n. 536
del 1987, porterebbe a ritenere che la perdita del beneficio per l’ILVA avrebbe dovuto
riguardare solo la parte dei contributi pari all’ammontare del danno cagionato all’ambiente
dalle condotte contestate in sede penale, quale risultante dalla suddetta quantificazione,
peraltro mai intervenuta;
p) tale tesi, tuttavia, non tiene conto della previsione da parte dell’indicata disposizione di
due fattispecie alternative, entrambe autonomamente idonee a determinare la perdita dei
benefici contributivi, secondo cui i benefici non spettano: 1) fino al ripristino dei luoghi ovvero
2) fino al pagamento del risarcimento del danno in favore dello Stato, nei limiti del danno
accertato;
q) nella specie è applicabile la prima ipotesi, pertanto, correttamente la defiscalizzazione
è stata esclusa nei periodi indicati in atti, perdendo quindi rilevanza la prospettazione della
illegittimità costituzionale dell’indicato art. 1, comma 13, per la parte relativa al risarcimento
del danno, che è inapplicabile.
2.- Nella successiva sentenza definitiva (n. 1/2012) la Corte d’appello di Genova, per
quel che qui interessa, precisa che:
a) tutte le ipotesi diverse dall’indebito sgravio degli oneri sociali sono da configurare
come omissioni – e non come evasioni – contributive in quanto non vi è prova che le
corrispondenti registrazioni non veritiere siano state fatte con la consapevolezza della loro
falsità;
b) per la fiscalizzazione degli oneri sociali invece l’evasione appare palese per la
consecuzione temporale dell’intimazione degli ispettori (verbale del 14 gennaio 1997) – di non
operare riduzioni contributive, al suddetto titolo, per i mesi successivi al novembre 1996 e fino
al ripristino dei luoghi – rimasta inosservata, dell’annotazione (con la detrazione) non conforme
al vero della fiscalizzazione contenuta nel DM 10 del dicembre 1996 pagato dall’ILVA il 20
gennaio 1997, cui è da aggiungere l’esistenza del giudicato penale di condanna per
inquinamento a carico degli amministratori della società, all’epoca inevitabilmente nota alla
società;
c) da tutti i suddetti elementi emerge con chiarezza che, in questo caso, si è trattato di
un errore voluto, commesso nella consapevolezza della non veridicità del diritto allo sgravio e
della sua inesatta registrazione, sicché si tratta di una palese ipotesi di evasione, che comporta
l’applicazione delle sanzioni di cui all’art. 1, comma 217, lettera b), della legge n. 662 del
1996;
d) in sintesi, l’importo complessivamente dovuto dall”ILVA all’INPS per i titoli di cui ai
presenti giudizi riuniti alla data di iscrizione a ruolo è pari ad euro 1.702.172,93, per il quale si
dispone condanna, come imposto dalla sentenza non definitiva.
3.- Il ricorso dell’ILVA s.p.a. – proposto nei confronti dell’INPS sia in proprio sia nella
qualità di mandatario della SCCI s.p.a., della GEST LINE s.p.a. nonché della EQUITALIA NORD
s.p.a. (già ESASTRI Esazione Tributi s.p.a.) – domanda la cassazione di entrambe le suddette
sentenze per cinque motivi.

3

Resistono, con separati controricorsi, l’INPS sia in proprio sia nella qualità di mandatario
a Società di Cartolarizzazione dei Crediti INPS (SCCI s.p.a.) nonché EQUITALIA NORD
.p.a. GEST LINE s.p.a. resta intimata.
MOTIVI DELLA DECISIONE
I

Sintesi dei motivi di ricorso

1. Il ricorso è articolato in cinque motivi, di cui i primi tre riguardano la sentenza non
definitiva n. 668/2009 e gli ultimi due la sentenza definitiva n. 1/2012.

1.1.- Con il primo motivo si denuncia: 1) in ordine alla tempestività dei ricorsi in
opposizione alle cartelle di pagamento: violazione e/o falsa applicazione degli artt. 24 e 29 del
d.lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, dell’art. 617 cod. proc. civ. nonché dell’art. 3 della legge n. 241
del 1990 e dell’ad. 7 della legge n. 212 del 2000; 2) in relazione ai vizi formali delle cartelle
opposte: violazione e falsa applicazione, oltre che del citato art. 3 della legge n. 241 del 1990,
degli artt. 6, 7, 17 della legge n. 212 del 2000 cit., degli artt. 1 e 6 del d.m. n. 321. del 1999,
dell’art. 6 del d.m. 6 novembre 2000 (approvato ai sensi dell’art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 46
del 1999 cit.) nonché degli artt. 12 e 15 del d.P.R. n. 602 del 1973.
Si sostiene che data la specialità della formazione del titolo esecutivo in materia di
riscossione dei crediti previdenziali e quindi la non assimilabilità delle relative cartelle agli atti
di precetto, il termine di quaranta giorni previsto dal Vari. 24 del d.igs. n. 46 del 1999, sarebbe
applicabile a qualunque tipo di opposizione – per motivi formali o per il merito – proposta
avverso le suddette cartelle, il che sarebbe confermato anche dall’art. 29 del suddetto d.lgs.
letto nella sua integralità e non solo pro parte, come ha fatto la Corte d’appello.
Si aggiunge che, nella specie, le cartelle hanno un contenuto del tutto generico che non è
conforme a legge e non è tale da non consentire alla destinataria di comprendere le ragioni di
fatto e di diritto poste a base delle cartelle, senza che, sul punto, abbia rilievo la circostanza
che l’ILVA avesse presentato un ricorso in via amministrativa avverso i verbali ispettivi di
accertamento e che fosse in possesso di tutta la documentazione inerente la richiesta di
risarcimento del danno ambientale provocato a Cornigliano e della relativa diffida del Ministero
dell’Ambiente.
1.2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 418 cod. proc. civ. e dell’art.
24, commi 5 e 6, del cl.lgs. n. 46 del 1999.
Si contesta la statuizione della Corte genovese secondo cui la richiesta, da parte
dell’INPS, di una somma minore di quella originaria non può essere configurata come domanda
riconvenzionale soggetta all’art. 418 cod. proc. civ., affermandosi che la mancata proposizione
da parte dell’Ente di una domanda riconvenzionale con istanza di differimento dell’udienza
come previsto dalla suddetta disposizione avrebbe irrimediabilmente compromesso il diritto di
difesa della società. Si aggiunge che la diversa tesi sostenuta nella sentenza impugnata
porrebbe l’art. 24 del d.lgs. n. 46 del 1999 in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost. e che,
comunque, diversamente da quel che afferma la Corte territoriale il procedimento di
opposizione a decreto ingiuntivo (riguardante un provvedimento emesso da un giudice) e
quello di opposizione a cartella esattoriale (riguardante un provvedimento amministrativo) non
sono sovrapponibili.
Pertanto, si ribadisce che la domanda dell’Ente volta all’accertamento della pretesa
contributiva, avrebbe dovuto essere dichiarata inammissibile perché proposta in assenza
dell’istanza di fissazione di una nuova udienza, come stabilito dal Vari. 418 cod. proc. civ.
4

1.3.- Con il terzo motivo – riguardante la questione della fiscalizzazione degli oneri
iali – si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1, comma 13, del d.l. 30
icembre 1987, n. 536, convertito dalla legge 29 febbraio 1988, n. 48, dell’art. 18 della legge
8 luglio 1986, n. 349 nonché dell’art. 115 cod. proc. civ.

1.4.- Con il quarto motivo – riguardante sempre la questione della fiscalizzazione degli
oneri sociali – si contesta, perché in contrasto con l’art. 1, comma 217, della legge n. 662 del
1996, la sentenza definitiva impugnata nella parte in cui ha configurato come evasione – e non
come omissione – contributiva le riduzioni contributive a titolo di fiscalizzazione degli oneri
sociali che ‘UVA ha continuato ad operare per i mesi successivi al novembre 1996 e fino al
ripristino dei luoghi.
Si sostiene che, tutt’al più, la condotta della società potrebbe essere configurata come
“morosità”, ossia come omissione contributiva sanzionata con il pagamento dei contributi
dovuti e una somma aggiuntiva, ma non come evasione, mancando l’intenti° fraudis.
1.5.- Con il quinto motivo si denuncia violazione dell’art. 116, comma 18, della legge n.
388 del 2000, per avere la Corte territoriale, nella sentenza definitiva, determinato le sanzioni
applicabili secondo il regime previsto dalla legge n. 662 del 1996 – previgente – anziché
applicare il regime sanzionatorio più favorevole previsto dalla legge n. 388 del 2000, vigente
all’epoca della decisione, in contrasto con il richiamato art. 116, comma 18, che reca la
disciplina intertemporale.

n

Esame delle censure

2.- Il ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito esposte.
3.- Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione dell’INPS secondo cui il primo
motivo di ricorso, per come è formulato, sarebbe inammissibile perché le sentenze riguardanti
le opposizioni agli atti esecutivi – quale è quella oggetto del motivo – sono impugnabili soltanto
con il ricorso straordinario per cassazione, di cui all’art. 111, settimo comma, Cost.
3.1.- Al riguardo va ricordato che, per costante indirizzo di questa Corte, nel vigente
sistema di tutela giurisdizionale per le entrate previdenziali (ed in genere per quelle non
tributarie) è possibile utilizzare i seguenti strumenti: a) proposizione di opposizione al ruolo
esattoriale per motivi attinenti al merito della pretesa contributiva ai sensi del D.Lgs. 26
febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 6, ovverosia nel termine di giorni quaranta dalla notifica
della cartella di pagamento, davanti al giudice del lavoro; b) proposizione di opposizione ai
sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. per questioni attinenti non solo alla pignorabilità dei beni, ma
anche a fatti estintivi del credito sopravvenuti alla formazione del titolo (quali ad esempio la
prescrizione del credito, la morte del contribuente, l’intervenuto pagamento della somma
precettata) sempre davanti al giudice del lavoro nel caso in cui l’esecuzione non sia ancora
iniziata (art. 615 cod. proc. civ., primo comma) ovvero davanti al giudice dell’esecuzione se la
stessa sia invece già iniziata (art. 615 cod. proc. civ., secondo comma e art. 618 bis cod. proc.
civ.); c) proposizione di una opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 cod. proc. civ.,
ovverosia “nel termine perentorio di venti giorni (cinque giorni prima delle modifiche introdotte
5

Si ribadisce la tesi – già sostenuta in appello, come risulta dalla sentenza non definitiva
impugnata – secondo cui, ai sensi dell’art. 1, comma 13, del d.l. n. 536 del 1987 cit.,
l’accertamento del danno ambientale con la relativa quantificazione sarebbe da configurare
come un presupposto indispensabile per la revoca dei benefici contributivi nei confronti della
società, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello che ha ritenuto applicabile la
norma in assenza dei suddetti elementi previsti dalla legge.

Tanto si ricava sia dalla formulazione del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 6
secondo cui “il giudizio di opposizione contro il ruolo per motivi inerenti il merito della pretesa
contributiva è regolato dagli artt. 442 e ss. cod. proc. civ.”, sia dal successivo art. 29, comma
2, del medesimo D.Lgs. n. 46 del 1999, che stabilisce che “alle entrate indicate nel comma 1
cioè, tra l’altro, quelle non tributarie, non si applica la disposizione del D.P.R. 29 settembre
1973, n. 602, art. 57, comma 1 come sostituito dall’art. 16 del presente decreto e le
opposizioni all’esecuzione ed agli atti esecutivi si propongono nelle forme ordinarie”. Il D.P.R.
n. 602 del 1973, citato art. 57, nel testo ora vigente, in relazione alla procedura di riscossione
delle entrate tributarie, non consente le opposizioni regolate dall’art. 615 cod. proc. civ., fatta
eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni; né le opposizioni regolate dall’art.
617 cod. proc. civ. relative alla regolarità formale ed alla notificazione del titolo esecutivo.
Ne consegue che – per quel che qui interessa – è indubbio che, la disciplina della
riscossione mediante iscrizione a ruolo dei crediti previdenziali in argomento, stabilisce che se
il debitore intende far valere vizi di forma della cartella di pagamento, ivi compresa la carenza
di motivazione dell’atto, deve farlo proponendo opposizione agli atti esecutivi secondo la
disciplina del codice di rito e, in particolare, secondo gli art. 618-bis e 617 cod. proc. civ.,
come previsto dall’art. 29, comma 2, del d.lgs. n. 46 del 1999, il quale per la regolamentazione
di tale fattispecie rinvia alle “forme ordinarie”, e non dall’art. 24 dello stesso D.Lgs., che si
riferisce, invece, all’opposizione all’iscrizione a ruolo e in genere sul merito della pretesa di
riscossione (orientamento costante, vedi, per tutte: Cass. 18 novembre 2004; Cass. 8 luglio
2008, n. 18691; Cass. 17 luglio 2015, n. 15116 e, da ultimo Cass. 19 gennaio 2016, n. 835).
3.2.- Altrettanto fermo è l’orientamento giurisprudenziale secondo cui è possibile
esperire, con un unico atto, sia un’opposizione all’iscrizione a ruolo (o riguardante il merito
della pretesa oggetto di riscossione: da ultimo Cass. 19 gennaio 2016, n. 835) ai sensi dell’art
24 del d.lgs. n. 46 del 1999 o all’esecuzione, ai sensi dell’ari 615 cod. proc. civ. (negli altri casi
sopra menzionati), sia un’opposizione agli atti esecutivi inerente l’irregolarità formali del
procedimento e/o della cartella e regolata dagli art. 617 e 618-bis cod. proc. civ., per le
anzidette ragioni.
In quest’ultima ipotesi, perché si possano considerare ammissibili i due tipi di opposizione
proposti con l’unico atto è necessario che risultino rispettati, per entrambe, i termini perentori
rispettivamente stabiliti per la relativa attivazione.
Pertanto, se risulta che l’atto sia stata depositato entro il termine perentorio di quaranta
giorni, di cui all’ari 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999 per le opposizioni di merito, ma
oltre quello previsto dall’art. 617 cod. proc. civ. (che, nella presente fattispecie, è di cinque
giorni, essendo state le cartelle notificate dell’elevazione del termine a venti giorni, per effetto
della modifica di cui al d.l. 14 marzo 2005, n. 35, conv. con modif. dalla I. 14 maggio 2005, n.
80), va ritenuta la tardività delle eccezioni formali, ossia di quelle attinenti la regolarità della
cartella di pagamento e della notificazione, che non possono essere quindi esaminate (vedi,
per tutte: Cass. 17 luglio 2015, n. 15116; Cass. 12 marzo 2012, n. 3861; Cass. 30 novembre
2009, n. 25208; Cass. 24 ottobre 2008, n. 25757).
6

dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito in L. 14 maggio 2005, n. 80) dalla notifica del titolo
ecutivo o del precetto” per i vizi formali del procedimento di esecuzione, compresi i vizi
strettamente attinenti al titolo ovvero della cartella di pagamento nonché alla notifica della
cartella o quelli riguardanti i successivi avvisi di mora, da incardinare anche in questo caso
davanti al giudice dell’esecuzione o a quello del lavoro a seconda che l’esecuzione stessa sia
già iniziata (art. 617 cod. proc. civ., secondo comma) o meno (art. 617 cod. proc. civ., primo
comma).

Tale ultimo principio comporta che per individuare il mezzo di impugnazione si deve fare
riferimento esclusivo alla qualificazione dell’azione compiuta dal giudice nel provvedimento,
indipendentemente dall’esattezza di essa e dalla qualificazione dell’azione operata dalla parti.
Pertanto, una sentenza emessa a definizione di un giudizio di opposizione esecutiva è
impugnabile con l’appello se il giudice ha qualificato l’azione come opposizione all’esecuzione,
mentre è impugnabile solo con ricorso straordinario per cessazione ex art. 111 Cost. se è stata
qualificata dal giudice come opposizione agli atti esecutivi (fra le tante: Cass. 4 agosto 2005,
n. 16379).
3.4.- Nella specie, prima il Tribunale di Genova e poi la Corte d’appello territoriale hanno
esattamente qualificato l’opposizione riguardante vizi formali delle cartelle come opposizione
agli atti esecutivi, pur avendone il primo erroneamente affermato la tempestività, sull’assunto
dell’applicabilità per il relativo deposito del termine di quaranta giorni di cui all’art. 24, comma
5, del d.lgs. n. 46 del 1999, anziché di quello di cinque giorni dalla notifica delle cartelle
stesse, stabilito dall’art. 617 cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis, visto che è
pacifico che cartelle di cui si tratta sono state notificate prima del 1° marzo 2006, data di
decorrenza dell’applicazione della elevazione a venti giorni di tale termine, in virtù della
modifica apportata dall’art. 2, comma terzo, lett. e), n. 41, del d.l. n. 35 del 2005, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 80 del 2005, e successive modificazioni ed integrazioni.
3.5.- Peraltro, è jus receptum che, nel caso di opposizione agli atti esecutivi, il giudice del
merito è, in primo luogo, tenuto a verificare se l’opposizione sia ammissibile, in quanto
proposta nel termine perentorio stabilito a pena di decadenza dall’art. 617 cod. proc. civ., di
cui si è detto, e che la relativa violazione è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio.
Infatti, se tale vizio non è stato riscontrato dal giudice del merito, esso deve essere
rilevato, in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 382, terzo comma, cod. proc. civ. (Cass. 11
maggio 2010, n. 11338; Cass. 28 novembre 2003, n. 18207).
E, nella specie, la Corte d’appello ha correttamente dichiarato l’inammissibilità delle
opposizioni qualificate come opposizioni agli atti esecutivi – perché riguardanti la regolarità
formale delle cartelle di pagamento, anche con riguardo alla contestata indeterminatezza per
mancanza di motivazione delle cartelle stesse (vedi: Cass. 19 ottobre 2015, n. 21080) perché non proposte entro il termine di cinque giorni di cui si è detto.
3.6.- Di conseguenza la Corte, pur non avendo affermato l’inammissibilità dell’appello
avverso una pronuncia su opposizione ad atti esecutivi, comunque ha rilevato la tardività
dell’opposizione e non ha effettuato alcun esame delle argomentazioni dell’ILVA sul punto.
L’esattezza della affermazione della tardività delle contestazioni formali delle cartelle di
pagamento – come si è detto, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, quindi
anche nel giudizio di cessazione unitamente con il rilievo secondo cui la società ricorrente
omette di argomentare in ordine alla affermata tardività per decorso del termine di cui all’art.
617 cod. proc. civ. – su cui si basa la dichiarazione di inammissibilità – e si limita a sostenere
7

3.3.- Inoltre, nell’ipotesi in cui una unica sentenza contenga sia decisioni riguardanti il
merito della pretesa e sia decisioni riguardanti la regolarità formale del procedimento (quali in
articolare quelle della cartella e/o della notificazione), ciascun tipo di decisione è assoggettata
al proprio regime impugnatorio: rispettivamente: appello, per le prime (nel regime qui
applicabile ratione temporis), e ricorso straordinario per cessazione ai sensi dell’art. 111 Cost.,
per le seconde, salvo il rispetto del principio dell’apparenza (ex multis: Cass. 13 giugno 2006,
n. 13655; Cass. 29 settembre 2009, n. 20816).

In questa situazione, – alla luce del canone generale “della strumentalità delle forme
processuali” e considerato che per effetto del richiamo operato dall’ultimo comma dell’art. 360
cod. proc. civ. ai commi primo e terzo (nel testo novellato dal d.lgs. n. 40 del 2006) il ricorso
straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., ora è sostanzialmente equiparato al
ricorso ordinario (Cass. 16 settembre 2015, n. 18194; Cass. 13 marzo 2013, n. 6352) – è
sufficiente disporre la correzione della motivazione sul punto relativo alla mancata
dichiarazione di inammissibilità dell’appello con riguardo alla parte dell’opposizione
configurabile come opposizione agli atti esecutivi, risultando comunque il relativo dispositivo
conforme a diritto.
Va, del resto, ricordato che, in base ad un consolidato e condiviso orientamento di questa
Corte, il potere di correzione della motivazione a norma dell’art. 384, secondo comma, cod.
proc. civ. è esercitabile anche in presenza di errores in procedendo, i quali, ove si risolvano in
violazione o falsa applicazione di norme processuali, presenta, dal punto di vista logico, la
stessa struttura del vizio di violazione e falsa applicazione di legge al quale in generale fa
riferimento il primo comma dell’art. 384 cod. proc. civ, fermi restando anche in tal caso i limiti
della non necessità di indagini di fatto (ulteriori rispetto a quelle che la Corte di cassazione può
compiere sul fascicolo, come di norma, nell’esame di tale tipo di “errores”) e del rispetto del
principio dispositivo (dovendosi trattare di fatti ed eccezioni rilevati dalle parti o rilevabili
d’ufficio) (Cass. 28 luglio 2005, n. 15810; Cass. 23 aprile 2001, n. 5962; Cass. 15 ottobre
2014, n. 21812).
4.- Il secondo motivo non è fondato.
4.1.- Con tale motivo si contesta la statuizione con la quale la Corte territoriale ha
escluso che l’INPS avrebbe dovuto formulare una specifica domanda per ottenere un titolo per
il pagamento di un credito di entità inferiore rispetto a quello portato dal ruolo, sul rilievo
secondo cui la pretesa contributiva di entità inferiore a quella originaria è già contenuta in
quest’ultima ed è quindi già oggetto del contendere, mentre, specularmente, sarebbe, in
ipotesi, inammissibile una modifica in aumento della pretesa iniziale.
La Corte genovese ha anche aggiunto che una simile domanda dell’Istituto previdenziale
dovrebbe essere qualificata come domanda riconvenzionale, il che sarebbe difficilmente
compatibile con la veste di attore in senso sostanziale che l’Ente opposto assume nel giudizio
di opposizione a cartella di pagamento mentre proprio dall’applicazione all’opposto, nella
suddetta veste, dell’art. 414 cod. proc. civ. deriva che l’opponente, se lo avesse ritenuto
necessario, avrebbe potuto completare le proprie difese, in considerazione delle allegazioni del
convenuto-opposto, ai sensi dell’art. 420, commi quinto e settimo, cod. proc. civ., dovendosi
pertanto escludere qualsiasi violazione degli artt. 3 e 24 Cost., da parte dell’art. 24, commi 5 e
6, del d.lgs. n. 46 del 1999 perché la disciplina codicistica sul rito del lavoro garantisce il diritto
di difesa dell’opponente nei suddetti termini.
Tale statuizione della Corte d’appello – e la motivazione che la sostiene – risultano
conformi al principio già ripetutamente affermato da questa Corte secondo cui in tema di
riscossione di contributi previdenziali, l’opposizione avverso la cartella di pagamento dà luogo
ad un giudizio ordinario di cognizione su diritti ed obblighi inerenti al rapporto previdenziale
obbligatorio e, segnatamente, al rapporto contributivo, con la conseguenza che l’Ente
8

che il termine di quaranta giorni previsto dall’art. 24 del cligs. n. 46 del 1999, sarebbe
applicabile a qualunque tipo di opposizione – per motivi formali o per il merito – proposta
vverso le suddette cartelle (senza neppure tenere conto della giurisprudenza di questa Corte
sul punto), portano alla inammissibilità del primo motivo.

Va quindi ribadito che non é ipotizzabile alcun contrasto di tale disciplina con gli artt. 3 e
24 Cost. – come, invece, nuovamente prospettato dalla società ricorrente in questa sede – in
quanto nel suddetto giudizio di cognizione, regolato dal codice di rito, l’accertamento del
rapporto contributivo viene effettuato nel rispetto delle norme relative alla ripartizione
dell’onere della prova, alla stregua delle quali grava sull’Ente previdenziale l’onere di provare i
fatti costitutivi dell’obbligo contributivo e sulla controparte l’onere di contestare i fatti
costitutivi del credito. Sicché l’esercizio del diritto di difesa delle parti e il principio del
contraddittorio risultano ampiamente tutelati, senza che possa influire in contrario l’eventuale
riduzione dell’originaria pretesa dell’Ente previdenziale.
4.2.- Nella specie, peraltro, la domanda subordinata di condanna al pagamento dei
contributi in misura ridotta era già stata formulata dall’INPS nel giudizio di primo grado, sicché,
a maggior ragione, la decisione della Corte territoriale non merita alcuna delle censure che le
sono state mosse sul punto con il motivo in esame.
5.- Infondati sono anche il terzo e il quarto motivo, che riguardano entrambi la questione
relativa alla fiscalizzazione degli oneri sociali (per i periodi: dicembre 1996-dicembre 1997 e
gennaio-agosto 1998) come, rispettivamente, esaminata sia nella sentenza non definitiva sia
in quella definitiva e che sono, quindi, da trattare insieme, perché intimamente connessi.
5.1.- In base all’art. 1, comma 13, del d.l. 30 dicembre 1987, n. 536, convertito dalla
legge 29 febbraio 1988, n. 48, le riduzioni contributive conseguenti alla fiscalizzazione degli
oneri sociali – istituto consistente in una riduzione dei contributi per malattia ed applicabile in
tutto il territorio nazionale a imprese svolgenti determinate attività (imprese industriali ed
artigiane operanti nei settori manifatturieri ed estrattivi, ecc.) con finalità di contenimento del
costo del lavoro, dell’inflazione e della disoccupazione (vedi, per tutte: Cass. 17 febbraio 1999,
n. 1338; Cass. 28 aprile 2015, n. 8593) – ivi prevista: “non spettano, sino al ripristino dei
luoghi ovvero al risarcimento a favore dello Stato, nel limite del danno accertato, per i
lavoratori dipendenti delle aziende nei confronti dei cui titolari o rappresentanti legali, per fatti
afferenti all’esercizio dell’impresa, siano accertate definitivamente violazioni di leggi a tutela
dell’ambiente, commesse successivamente all’entrata in vigore del presente decreto e che
comportino danno ai sensi dell’articolo 18 della legge 8 luglio 1986, n. 349; ove le violazioni
comportino rilevante danno ambientale, il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, su
proposta del Ministro dell’ambiente, può disporre la sospensione totale o parziale del
beneficio in attesa della definitività dell’accertamento”.
Esattamente la Corte territoriale ha sottolineato che, nella specie, si rinviene la presenza
di tutti i presupposti cui la norma collega la perdita del beneficio stesso, rappresentati dalla
contemporanea presenza di una sentenza definitiva di condanna a carico dei titolari o
rappresentati legali di una azienda per violazioni di una legge a tutela dell’ambiente commesse
nell’esercizio dell’impresa, che abbiano comportato danno ambientale ai sensi dell’articolo 18
della legge 8 luglio 1986, n. 349.
É, infatti, pacifico che: a) con sentenza del Pretore penale di Genova n. 1143/1992
passata in giudicato il 27 ottobre 1994 i legali rappresentati e i responsabili dell’ILVA sono stati
9

previdenziale convenuto può chiedere, oltre che il rigetto dell’opposizione, anche la condanna
‘l’opponente all’adempimento dell’obbligo contributivo, portato dalla cartella, anche tramite il
agamento in una misura inferiore a quella originariamente richiesta, senza che ne risulti
mutata la domanda, sempre che l’Ente stesso abbia assolto l’onere probatorio a proprio carico
(Cass. 6 settembre 2012, n. 14963; Cass. 20 aprile 2002, n. 5763; Cass. 10 settembre 2009,
n. 19502; Cass. 6 novembre 2009, n. 23600; Cass. 6 settembre 2012, n. 14963).

La Corte d’appello ha anche posto l’accento sul fatto che le condotte accertate dalla
sentenza pretorile rientrano sicuramente tra gli illeciti ambientali di cui all’alt. 18 della legge n.
349 del 1986, trattandosi di un consistente sversamento di loppa granulare in mare
proveniente dalle Acciaierie di Cornigliano che aveva determinato una alterazione del bene
ambientale mare sia in superficie sia sul fondale, tanto che l’ILVA ha provveduto alla relativa
rimozione, sia pure con un decennio di ritardo, come certificato dal Ministero dell’Ambiente con
nota del 10 marzo 2004.
Non va, del resto, dimenticato che, in base ad un consolidato e condiviso indirizzo di
questa Corte, l’ambiente naturale costituisce un bene pubblico di rango costituzionale, la cui
tutela deriva dal combinato disposto dell’art. 9, secondo comma, della Costituzione, e dell’art.
2059 cod. civ. prima ancora della legge 8 luglio 1986 n. 349, il cui art. 18 non ha affatto
introdotto nel nostro ordinamento una nozione di “danno ambientale” prima inesistente ma si è
limitato a ripartire tra Stato, enti locali ed associazioni di protezione ambientale la
legittimazione ad agire od intervenire nel relativo giudizio di risarcimento. Pertanto, una volta
accertata la compromissione dell’ambiente in conseguenza del fatto illecito altrui, la prova del
danno patito dalla PA deve ritenersi in re ipsa, e la relativa liquidazione – quando non sia
tecnicamente possibile la riduzione in pristino – deve avvenire con criteri ampiamente
equitativi, in quanto non è oggettivamente possibile tenere conto di quegli effetti che
inevitabilmente si evidenzieranno solo in futuro (vedi, per tutte: Cass. 10 ottobre 2008, n.
25010; Cass. 7 marzo 2013, n. 5705).
5.2.- Come precisato nella sentenza impugnata – e qui non specificamente contestato l’ILVA – che aveva l’onere di dimostrare di avere diritto al beneficio contributivo (Cass. 9
febbraio 2004, n. 2387 e Cass. 1 ottobre 2002, n. 14130) – non ha contrastato tale
ricostruzione dei fatti, essendosi limitata a sostenere la tesi – ribadita nel presente ricorso secondo cui, non essendo stata effettuata da parte del Ministero dell’Ambiente la
quantificazione del danno ambientale, la fiscalizzazione sarebbe stata operante, perché una
corretta interpretazione del citato art. 1, comma 13, del d.l. n. 536 del 1987, porterebbe a
ritenere che la perdita del beneficio per l’ILVA avrebbe dovuto riguardare solo la parte dei
contributi pari all’ammontare del danno cagionato all’ambiente dalle condotte contestate in
sede penale, quale risultante dalla suddetta quantificazione, peraltro mai intervenuta.
Al riguardo deve essere osservato che l’uso della congiunzione disgiuntiva (o alternativa)
“ovvero” fra le due ipotesi cui la norma collega la non spettanza del beneficio, nel caso
considerato – 1) fino ai ripristino dei luoghi; 2) fino al pagamento del risarcimento del danno in
favore dello Stato, nei limiti del danno accertato – dimostra ictu oculi la correttezza
dell’interpretazione che la Corte genovese ha dato della suindicata norma, sul punto, nel senso
di considerare ciascuna di tali due ipotesi autonomamente idonea a determinare la perdita del
beneficio della fiscalizzazione in oggetto.Con la conseguenza che essendo nella specie
sicuramente applicabile la prima ipotesi – come ulteriormente confermato anche dalla tardiva
rimozione del materiale sversato in mare, da parte della società, effettuata con grave ritardo e
10

condannati per il compimento di alcuni reati ambientali (sversamento di loppa in mare) posti in
essere nel 1991; b) dopo la diffida del Ministero dell’Ambiente a risarcire tutti i danni con
riserva di quantificazione del relativo ammontare, nei successivi verbali di accertamento (di
,gennaio 1997) si è attestata la perdita del diritto alla fiscalizzazione degli oneri sociali,
precisandosi che si era verificata l’ipotesi di illecito ambientale previsto dall’art. 18 della legge
n. 349 del 1986, sul presupposto della suddetta sentenza penale di condanna definitiva: c) nei
verbali stessi veniva anche determinato l’importo delle riduzioni contributive indebitamente
poste a conguaglio dall’ILVA.

comunque in epoca posteriore ai periodi cui si riferiscono le infrazioni contributive in oggetto correttamente la defiscalizzazione è stata esclusa nei periodi indicati in atti.
Di qui l’infondatezza del terzo motivo.

Per tale giurisprudenza, infatti, già la sola infedele denuncia mensile all’INPS attraverso i
modelli DM10, circa i rapporti di lavoro e le retribuzioni erogate, integra un “evasione
contributiva” ex art. 116, comma 8, lett. b), della legge n. 388 del 2000, e non la meno grave
“omissione contributiva” di cui alla lettera a) della medesima norma, dovendosi presumere una
finalità datoriale di occultamento dei dati, sicché grava sul datare di lavoro l’onere di provare
l’assenza d’intento fraudolento (Cass. 25 agosto 2015, n. 17119; nonché conformi: Cass. 25
giugno 2012, n. 10509; Cass. 27 dicembre 2011, n. 27966).
5.4.- Nella specie non risulta che la società abbia fornito tale dimostrazione né è
contestato che, come evidenziato dalla Corte territoriale, l’infedele compilazione dei modelli
DM10 (con l’indebita applicazione della riduzione contributiva da parte dell’ILVA) – già da sola
sufficiente per l’integrazione della evasione – sia stata effettuata dopo la mancata osservanza
dell’intimazione degli ispettori – nel senso di non operare riduzioni contributive al suddetto
titolo per i mesi successivi al novembre 1996 e fino al ripristino dei luoghi – e dopo un
giudicato penale di condanna per inquinamento a carico degli amministratori della società.
Ne consegue l’infondatezza del quarto motivo.
Con il frmotivo la ricorrente contesta la statuizione della sentenza definitiva

L7 q t.wil-vt126.-

í’impugnata con la quale le sanzioni applicabili nella specie sono state determinate secondo il
V, regime previsto dalla legge n. 662 del 1996 – previgente – anziché applicare il regime
sanzionatorio più favorevole previsto dalla legge n. 388 del 2000, vigente all’epoca della
decisione, assumendosi il contrasto di tale decisione con il richiamato art. 116, comma 18,
della legge n. 388 del 2000, recante la disciplina intertemporale.
6.1.- Il motivo è da respingere in quanto sul punto la Corte genovese si è uniformata a
consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte secondo cui il suddetto comma 18 al fine della
determinazione dell’efficacia temporale del nuovo regime sanzionatorio per i casi di omesso o
ritardato pagamento dei contributi – introdotto dai precedenti commi 8-17 dello stesso art. 116
e caratterizzato, rispetto a quello previgente, da una minore onerosità sia per quanto concerne
l’entità delle sanzioni sia per i criteri di commisurazione delle stesse – ha fissato lo
“spartiacque” tra il vecchio e il nuovo regime facendo riferimento ai crediti “in essere e
accertati ” al 30 settembre 2000 ovvero in epoca successiva all’anzidetta data (1° ottobre
2000), nel senso di prevedere l’applicazione del regime sanzionatorio previgente per i crediti in
essere ed accertati alla suddetta e il nuovo più favorevole regime sanzionatorio ai crediti sorti
ovvero accertati a far tempo dal 10 ottobre 2000.
5.2.- In particolare questa Corte ha precisato, al riguardo, che:
a) in tema di sanzioni per il ritardato o omesso pagamento di contributi previdenziali, la
disposizione di cui all’art. 116, comma diciotto, della legge n.388 del 2000 condiziona
inequivocabilmente l’applicazione della normativa sanzionatoria previgente (legge n.662 del
11

5.3.- Per quel che attiene al quarto motivo – con il quale si contesta la configurazione in
termini di evasione e non di semplice omissione contributiva del comportamento dell’ILVA in
ordine alla fiscalizzazione degli oneri sociali – va osservato che la Corte territoriale, nella
sentenza definitiva è pervenuta alla suddetta conclusione con congrua e logica motivazione e
in conformità con la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio.

b) non può ritenersi che tale regime sia applicabile anche a violazioni commesse
antecedentemente e non ancora soddisfatte, qualora il provvedimento amministrativo
(ordinanza ingiunzione o cartella esattoriale) sia stato notificato dopo l’entrata in vigore della
legge, posto che il suddetto provvedimento non è un provvedimento amministrativo
costitutivo, ma un atto puramente esecutivo, preordinato soltanto alla riscossione di un credito
già sorto per effetto della violazione commessa (vedi, per tutte: Cass. 21 luglio 2010, n.
17099; Cass. 13 luglio 2005, n. 14771; Cass. 4 agosto 2005, n. 16422; Cass. 13 giugno 2007,
n. 13794);
c) infatti, in tema di illeciti amministrativi, l’adozione dei principi di legalità, irretroattività
e divieto di analogia, di cui all’art. 1 della legge n. 689 del 1981, comporta l’assoggettamento
del fatto alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina
posteriore eventualmente più favorevole, a nulla rilevando che detta più favorevole disciplina,
successiva alla commissione del fatto, sia entrata in vigore anteriormente all’emanazione
dell’ordinanza-ingiunzione per il pagamento della sanzione pecuniaria (o della cartella di
pagamento), non trovando applicazione analogica gli opposti principi di cui all’art. 2, commi
secondo e terzo, cod. pen., attesa la differenza qualitative delle situazioni (Cass. 26 gennaio
2012, n. 1105; Cass. 26 settembre 2005, n. 18761; Cass. 21 luglio 2010, n. 17099);
d) in tema di sanzioni civili per omissioni contributive, la legge 22 dicembre 2000, n. 388,
in deroga al principio tempus regit actum, ha sancito la generalizzata applicazione del sistema
sanzionatorio previsto dalla legge 23 dicembre 1996, n. 662, a tutte le omissioni contributive,
in qualunque tempo poste in essere, purché esistenti e accertate alla data del 30 settembre
2000 ! contemperando la voluntas legis, da un lato, l’esigenza di applicare con effetto
retroattivo la nuova disciplina più favorevole agli obbligati di cui all’art. 116, commi da 8 a 17,
della legge n. 388 del 2000 e, dall’altro, di evitare di interferire sulle attività di
cartolarizzazione e di iscrizione a ruolo, già effettuate sulla base della disciplina precedente,
mantenendo ferme le penalità di cui alla legge n. 662 del 1996, riconoscendo alle aziende
sanzionate in modo più consistente, un credito contributivo allo scopo di alleggerirne l’impatto
(Cass. 27 gennaio 2015, n. 1476; Cass. 22 ottobre 2009, n. 22414).
6.3.- Nella specie è pacifico che le irregolarità contributive in oggetto e il relativo credito
erano esistenti e accertati alla data del 30 settembre 2000, sicché ad esse – in base al comma
18 dell’art. 116 invocato dalla ricorrente – doveva certamente applicarsi il regime sanzionatorio
previsto dalla legge n. 662 del 1996, come ha fatto la Corte territoriale, fornendo una corretta
applicazione dell’anzidetta norma.
III

Co n clusioni

7.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cessazione
– liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del
presente giudizio di cessazione, liquidate in euro 100,00 (cento/00) per esborsi, euro 3000,00
(tremila/00) per compensi professionali in favore di EQUITALIA NORD s.p.a. nonché in euro
100,00 (cento/00) per esborsi, euro 8000,00 (ottomila/00) per compensi professionali in
12

1996) alla circostanza che sussista un credito per contributi alla data del 30 settembre 2000,
con la conseguenza che il nuovo regime sanzionatorio è applicabile, qualora si tratti di
violazioni commesse antecedentemente, soltanto nel caso in cui il credito dell’INPS per
contributi sia stato soddisfatto alla data del 30 settembre 2000;

favore dell’INPS, oltre che, per entrambi, IVA, CPA e spese forfettarie nella misura del 15%.
Nulla spese quanto a GEST LINE s.p.a.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 14 gennaio 2016.

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