Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6701 del 19/03/2010

Cassazione civile sez. I, 19/03/2010, (ud. 16/12/2009, dep. 19/03/2010), n.6701

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente –

Dott. RORDORF Renato – Consigliere –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29411/2008 proposto da:

O.E. (c.f. (OMISSIS)), L.F.

(c.f. (OMISSIS)), L.M.G. (c.f.

(OMISSIS)), nella qualità di eredi di G.T.,

domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE

DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato MARRA

Alfonso Luigi, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositato il

23/11/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

16/12/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO DIDONE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con il decreto impugnato la Corte di appello di Roma ha parzialmente accolto la domanda L. n. 89 del 2001, ex art. 2, proposta da O. E., L.F. e L.M.G., quali eredi di G.T., in relazione all’irragionevole durata di un processo civile così sviluppatosi:

25.5.1994 domanda per rivalutazione e interessi su assegni versati in ritardo dall’INPS;

29.2.1996, sentenza Pretura Lavoro Torre Annunziata;

9.1.1997 appello, deciso con sentenza del 25.5.2001; 24.6.2002 ricorso per cassazione, deciso con sentenza del 4.11.2003;

16.11.2004 riassunzione decisa con sentenza 27.5.2005.

La Corte di appello ha ritenuto che solo nel primo giudizio di appello fosse stato violato il diritto alla ragionevole durata, pari a due anni, con ritardo stimato in anni due e, per tale ritardo, ha condannato il Ministero della Giustizia al pagamento del danno non patrimoniale, liquidato in Euro 1.600,00 (pari a Euro 800,00 per anno), oltre al rimborso delle spese processuali, liquidate in Euro 750,00 di cui Euro 200,00 per diritti e Euro 500,00 per onorario.

Contro il decreto della Corte di merito O.E., L.F. e L.M.G., nella predetta qualità, hanno proposto ricorso per cassazione affidato a 13 motivi.

Il ministero intimato non ha svolto difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

p.2.- Con i primi sei motivi di ricorso i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione di legge (L. n. 89 del 2001 e Convenzione europea per i diritti dell’uomo, come interpretata dalla Corte europea) e relativo vizio di motivazione, lamentando, in estrema sintesi, che la Corte di appello:

a) non ha ritenuto direttamente applicabile la C.E.D.U., sia erroneamente applicando la normativa italiana in contrasto con la C.E.D.U., dimenticando che la L. n. 89 del 2001, costituisce diretta applicazione della C.E.D.U. – specie art. 6 -, sia disattendendo la giurisprudenza europea e l’interpretazione, i parametri dalla stessa enunciati e la relativa elaborazione ermeneutica;

b) ha erroneamente calcolato la ragionevole durata del processo presupposto;

c) non si è attenuta ai parametri minimi sanciti dalla giurisprudenza di Strasburgo in tema di quantificazione dell’equo indennizzo (che non può essere inferiore a Euro 1.000,00 – 1.500,00 per anno di procedura e non per anno di ritardo) e in tema di durata ragionevole del processo in materia assistenziale, che non deve superare i due anni per il primo grado e i due anni per il secondo grado;

d) non ha tenuto conto che, una volta accertata la irragionevole durata, deve essere riconosciuto l’equo indennizzo per tutta la durata del processo e non il solo periodo eccedente la ragionevole durata (cioè il solo ritardo) – ha liquidato il danno solo per la parte eccedente la durata ragionevole (ritardo) e non già per l’intera durata del processo.

e) non ha tenuto conto del bonus dovuto in ipotesi di cause in materia assistenziale;

Con i restanti motivi il ricorrente denuncia violazione di legge e vizio di motivazione e lamenta che il Giudice del merito:

f) non ha tenuto conto in sede di liquidazione delle spese dei parametri europei ai quali doveva adeguarsi;

g) non ha motivato la liquidazione delle spese;

h) ha erroneamente applicato la tariffa professionale, applicando le voci relative ai procedimenti speciali anzichè quelle relative al processo contenzioso.

p.3.- Osserva la Corte che il ricorso è infondato. A più riprese questa Corte ha affermato che la L. n. 89 del 2001, art. 2, espressamente stabilisce che il danno debba essere liquidato per il solo periodo eccedente la durata ragionevole (v., da ultimo, Sez. 1^, n. 28266 del 2008).

Invero, “ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, deve aversi riguardo al solo periodo eccedente il termine ragionevole di durata e non all’intero periodo di durata del processo presupposto.

Nè rileva il contrario orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, poichè il giudice nazionale è tenuto ad applicare le norme dello Stato e, quindi, il disposto dell’art. 2, comma 3, lett. a) della citata legge; non può, infatti, ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dei criteri di determinazione della riparazione della Corte europea dei diritti dell’uomo, attraverso una disapplicazione della norma nazionale, avendo la Corte costituzionale chiarito, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo non crea un ordinamento giuridico sopranazionale e non produce quindi norme direttamente applicabili negli Stati contraenti, essendo piuttosto configurabile come trattato internazionale multilaterale, da cui derivano obblighi per gli Stati contraenti, ma non l’incorporazione dell’ordinamento giuridico italiano in un sistema più vasto, dai cui organi deliberativi possano promanare norme vincolanti, omisso medio, per tutte le autorità interne” (Sez. 1^, Sentenza n. 14 del 03/01/2008 (Rv. 601232).

La violazione del principio della ragionevole durata del processo va accertata all’esito di una valutazione degli elementi previsti dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 (ex plurimis, Cass. n. 8497 del 2008; n. 25008 del 2005; n. 21391 del 2005; n. 1094 del 2005; n. 6856 del 2004; n. 4207 del 2004) e in tal senso è orientata anche la giurisprudenza della Corte EDU (tra le molte, sentenza 1^ sezione del 23 ottobre 2003, sul ricorso n. 39758/98), la quale ha stabilito un parametro tendenziale che fissa la durata ragionevole del giudizio, rispettivamente, in anni tre, due ed uno per il giudizio di primo, di secondo grado e di legittimità.

Il quesito formulato nel secondo motivo è anche manifestamente inammissibile, sia in quanto sviluppato senza alcun riferimento alla fattispecie in esame, sia in quanto pretende di rimettere a questa Corte l’accertamento della durata ragionevole nel caso in esame.

L’apprezzamento degli elementi che permettono di fissare la misura ragionevole del giudizio è riservata invece al giudice del merito, spettando a questa Corte la verifica in ordine al rispetto del parametro stabilito dalla Corte EDU ed alla completezza, logicità e congruenza della motivazione svolta dal giudice del merito per discostarsene.

Relativamente alla misura dell’equa riparazione per il danno non patrimoniale, va osservato che, secondo la più recente giurisprudenza della Corte di Strasburgo, qualora non emergano elementi concreti in grado di farne apprezzare la peculiare rilevanza, l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, alla luce di quelle operate dal giudice nazionale nel caso di lesione di diritti diversi da quello in esame, impone di stabilirla, di regola, nell’importo non inferiore ad Euro 750,00, per anno di ritardo, in virtù degli argomenti svolti nella sentenza di questa Corte n. 16086 del 2009, i cui principi vanno qui confermati, con la precisazione che tale parametro va osservato in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, dovendo aversi riguardo, per quelli successivi, al parametro di Euro 1.000,00, per anno di ritardo, dato che l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente aggravamento del danno.

Il danno non patrimoniale deve dunque essere quantificato in applicazione di detto parametro, con la facoltà di apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda (quali: l’entità della “posta in gioco”, il “numero dei tribunali che hanno esaminato il caso in tutta la durata del procedimento” ed il comportamento della parte istante (per tutte, Cass., n. 1630 del 2006; n. 1631 de 2006; n. 19029 del 2005; n. 19288 del 2005), purchè motivate e non irragionevoli (tra le molte, Cass. n. 6898 del 2008;

n. 1630 del 2006; n. 1631 del 2006).

Nella concreta fattispecie, la Corte d’appello ha correttamente applicato i parametri di liquidazione fissati dalla Cedu, avendo liquidato l’indennizzo nella misura di Euro 800,00 per ogni anno di ritardo, tenuto conto che il ritardo si è protratto soltanto per due anni (i criteri CEDU consentivano di liquidare Euro 1.500,00).

Quanto alla richiesta di “bonus”, va ricordato che “ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, non può ravvisarsi un obbligo di diretta applicazione dell’orientamento della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo cui va riconosciuta una somma forfetaria nel caso di violazione del termine nei giudizi aventi particolare importanza, fra cui anche la materia previdenziale; da tale principio, infatti, non può derivare automaticamente che tutte le controversie di tal genere debbano considerarsi di particolare importanza, spettando al giudice del merito valutare se, in concreto, la causa previdenziale abbia avuto una particolare incidenza sulla componente non patrimoniale del danno, con una valutazione discrezionale che non implica un obbligo di motivazione specifica, essendo sufficiente, nel caso di diniego di tale attribuzione, una motivazione implicita” (Sez. 1^, Sentenza n. 6898 del 14/03/2008).

Anche le censure relative alle spese sono infondate, va evidenziata la manifesta inammissibilità delle censure (e dei corrispondenti profili dei quesiti) incongrue, in quanto non correlate alla ratio decidendi del decreto e che in nessun modo tengono conto della fattispecie, risolvendosi in argomentazioni astratte e prive di pertinenza con il caso di specie. Tanto va rilevato in relazione ai motivi: 8, laddove si fa riferimento ai presupposti della compensazione, nella specie non disposta; alla deduzione che la Corte territoriale avrebbe applicato la tariffa per i procedimenti di volontaria giurisdizione, mancando ogni accenno al riguardo ed evincendosi dal quantum liquidato il riferimento alla tariffa, nella parte stabilita per i procedimenti contenziosi; alla astratta deduzione in ordine alla ammissibilità della riduzione delle spese dedotte nella nota, svincolate da ogni riferimento al caso di specie.

Posta questa premessa, le questioni poste vanno risolte facendo applicazione dei seguenti principi, già enunciati da questa Corte:

la L. n. 89 del 2001, non reca nessuna specifica norma in ordine al regime delle spese all’esito dello svolgimento del processo camerale di cui all’art. 3, comma 4 e, in virtù del richiamo ivi effettuato, si applicano sul punto le norme del codice di rito, avendo anche il legislatore dimostrato attenzione a questo profilo, esonerando il ricorrente dal contributo unificato (L. n. 89 del 2001, art. 5 bis e, successivamente, D.Lgs. n. 115 del 2002, artt. 10 e 265) (Cass. n. 23789 del 2004);

le disposizioni dell’art. 91 c.p.c., e segg., in tema di spese processuali trovano applicazione, in linea generale, nel procedimento camerale nel caso in cui questo statuisca su posizioni soggettive in contrasto, come accade nella specie, senza che nessun ostacolo all’applicazione di detta normativa provenga dalla Convenzione CEDU, ovvero dal Protocollo aggiuntivo (Cass. n. 12021 del 2004), restando esclusa l’applicazione analogica delle disposizioni sulle spese vigenti per i procedimenti innanzi alla Corte di Strasburgo (Cass. n. 1078 del 2003);

dalla CEDU non discende un obbligo, a carico del legislatore nazionale, di conformare il processo per l’equa riparazione da irragionevole durata negli stessi termini previsti, quanto alle spese, per il procedimento dinanzi agli organi istituiti in attuazione della Convenzione, dovendosi escludere che l’assoggettamento del procedimento alle regole generali nazionali, e quindi al principio della soccombenza, possa integrare un’attività dello Stato che “miri alla distruzione dei diritti o delle libertà” riconosciuti dalla Convenzione o ad “imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla stessa Convenzione” (Cass. n. 18204 del 2003); la configurazione del procedimento disciplinato dalla L. n. 89 del 2001, quale procedimento contenzioso comporta l’applicabilità della Tab. A-4 e della Tab.B-1.

In questi termini sono i principi che possono essere enunciati in riferimento ai quesiti qui in esame.

Inoltre, va ricordato che, secondo un principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, la parte che censura in sede di legittimità la liquidazione delle spese processuali è tenuta ad indicare in modo specifico ed autosufficiente quali siano le voci della tabella forense non applicate dal giudice del merito, elencando in dettaglio le prestazioni effettuate, per voci ed importi, così consentendo al giudice di legittimità il controllo di tale error in iudicando, pena l’inammissibilità del ricorso (Cass. n. 17059 del 2007; n. 8160 del 2001), senza bisogno di svolgere ulteriori indagini in fatto e di procedere alla diretta consultazione degli atti (Cass. n. 3651 del 2007; n. 2626 del 2004). La doglianza richiede, inoltre, che dall’erronea applicazione delle voci della tariffa applicata sia conseguita la lesione del principio dell’inderogabilità ed il ricorrente non può, dunque, limitarsi alla generica denuncia dell’avvenuta violazione del principio di inderogabilità della tariffa professionale o del mancato riconoscimento di spese che si asserisce essere state documentate, in quanto, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, tenuto conto della natura del vizio, devono essere specificati gli errori commessi dal giudice e precisate le voci di tabella degli onorari, dei diritti di procuratore che si ritengono violate, nonchè le singole spese asseritamente non riconosciute (Cass. n. 14744 del 2007; n. 9082 del 2006; n. 13417 del 2001).

Nella specie siffatto onere non risulta adempiuto, posto che i ricorrenti hanno dedotto che il decreto avrebbe erroneamente individuato le voci della tariffa forense applicabili, omettendo del tutto di indicare che ciò avrebbe comportato la violazione del principio di inderogabilità, procedendo sia alla specifica indicazione dell’attività svolta (in punto di numero di udienze in CC alle quali hanno partecipato, di atti depositati) sia alla trascrizione delle singole voci per le quali ciò sarebbe accaduto (con specifica indicazione per ciascuna di esse della corrispondente voce della tariffa ritenuta applicabile e non, come è accaduto, mediante la mera trascrizione nel ricorso della nota spese), nell’osservanza del principio sopra indicato, con conseguente inammissibilità delle censure.

Inoltre, ciò sarebbe stato vieppiù necessario perchè la liquidazione operata dalla Corte di merito, pari a complessivi Euro 750,00, alla luce del valore della domanda accolta risulta ampiamente superiore ai minimi globalmente considerati, in riferimento alle tariffe applicabili.

Il ricorso va, dunque, rigettato. Nessuna pronuncia va emessa sulle spese per la mancanza di attività difensiva da parte del Ministero intimato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 25 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2010

 

 

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