Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6685 del 19/03/2010

Cassazione civile sez. I, 19/03/2010, (ud. 24/11/2009, dep. 19/03/2010), n.6685

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – rel. Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11624/2006 proposto da:

P.E. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente

domiciliato in ROMA, VIA CRESCENZIO 82, presso l’avvocato GUELI

Adalberto, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato

MASSACCI CARLO, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.C.;

– intimata –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositato il

14/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del

24/11/2009 dal Presidente Dott. UGO RICCARDO PANEBIANCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

DESTRO Carlo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 18.1.1990 il Tribunale di Cagliari dichiarò la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto il (OMISSIS) fra P.C. ed P.E. già separati consensualmente in data (OMISSIS). In quella sede il Tribunale, nella contumacia della P.C., non adottò alcun provvedimento di carattere economico.

Con ricorso del 6.2.2002 proposto avanti allo stesso Tribunale la P.C. chiedeva, a modifica delle condizioni contenute nella sentenza di divorzio, che le venisse riconosciuto un assegno divorziale in conseguenza dell’intervenuto mutamento della sua situazione economica e personale rispetto a quella che esisteva all’epoca di detta decisione.

Deduceva al riguardo che, mentre in precedenza disponeva della somma di L. 800.000 mensili lavorando “par time” come “baby sitter” e collaboratrice domestica, attualmente percepiva una pensione di invalidità di Euro 212,26 al mese ed un compenso mensile di circa L. 300.000/400.000 al mese (Euro 154,94/206,58), vale a dire sostanzialmente lo stesso importo di dodici anni prima. Aggiungeva che doveva anche provvedere al mantenimento della nipote P. R. affidatale in qualità di tutrice dal Tribunale per i Minorenni a seguito della decadenza dalla patria potestà disposta nei confronti della figlia M. nonchè al mantenimento del figlio della medesima R., P.G.F., nato il (OMISSIS) e che inoltre doveva far fronte ad un canone di locazione di L. 450.000 mensili e spendere almeno L. 150.000 di benzina per recarsi al lavoro, mentre il P.E. dall’epoca della separazione non si era mai occupato dei tre figli rimasti completamente a sua carico, che in precedenza aveva lavorato presso un’agenzia funebre di (OMISSIS) ed attualmente era socio di varie agenzie nello stesso settore.

Si costituiva il P.E. che chiedeva il rigetto della domanda, sostenendo che la situazione della P.C. era migliorata rispetto al passato in quanto fruiva di un introito mensile di Euro 400,00, disponeva di un’autovettura e di un’abitazione di non piccole dimensioni e beneficiava della contribuzione del figlio A. che lavorava presso la Esseci Marmi di Quartu Sant’Elena, mentre egli doveva provvedere al mantenimento della nuova famiglia, essendo l’attuale moglie sprovvista di reddito e consentendo la propria agenzia di pompe funebri di ricavare solo quanto necessario per assicurare alla famiglia, che viveva in una casa dell’IACP, una esistenza dignitosa.

Con decreto del 4.11.2003 il Tribunale riconosceva alla P.C. un assegno mensile di Euro 300,00 con decorrenza dalla data della domanda e con rivalutazione annuale secondo gli indici ISTAT. Proponeva impugnazione il P.E. ed all’esito del giudizio, nel quale si costituiva la P.C. chiedendone il rigetto, la Corte d’Appello di Cagliari con decreto del 21.1-14.2.2005 rigettava a il gravame, condannando l’appellante alle spese del grado.

Dopo aver rilevato che la P.C. versava in non buone condizioni di salute, essendo affetta, oltre che da depressione, da osteoporosi, avendo problemi al tunnel carpale ed essendo stata operata di tumore con inevitabile incidenza negativa sulle possibilità di arrotondare il magro importo della pensione di invalidità mediante un’attività, sia pure saltuaria, di collaboratrice domestica e che, oltre tutto, si era dovuta occupare da sola dei suoi tre figli, riducendo in tal modo ulteriormente le sue possibilità lavorative, osservava che il P.E. invece aveva potuto incrementare le sue possibilità di lavoro e ricostituire un nuovo nucleo familiare, avviando due agenzie di pompe funebri site in (OMISSIS) ed in (OMISSIS) in forma societaria nel 1995-1996 dopo aver lavorato nel settore prima del divorzio, come dedotto dalla P.C. senza essere smentita in modo convincente; risultava infatti dal libretto di lavoro che egli aveva lavorato nel settore edile solo saltuariamente nonchè come socio nella Cooperativa Flumendosa del Gerrei s.r.l. che alleva e vende anguille.

Pertanto, tenuto conto che la P.C. fruiva solo del reddito della pensione di invalidità nella misura di circa 240,00 Euro al mese, che lo stato di salute non le permetteva di lavorare neppure saltuariamente, che il figlio A. non lavorava più dal (OMISSIS) in quanto gravemente malato (HIV, sindrome depressiva ed altre patologie) e che era costretta a rivolgersi a vari enti assistenziali (Croce Rossa, Caritas) per semplici esigenze alimentari, mentre il P.E. ha dichiarato nel 2001 un reddito di Euro 39.171,00 annuo per poi ridurre tale importo in coincidenza con la richiesta di riconoscimento dell’assegno di divorzio, confermava la Corte d’Appello il diritto all’assegno divorziale a favore della donna nella misura riconosciutale dal Tribunale.

Avverso tale decreto propone ricorso per cassazione P.E. che deduce quattro motivi di censura.

La controparte non ha svolto alcuna attività difensiva.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso P.E. denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 898 del 1970. Lamenta che la Corte d’Appello abbia riconosciuto il diritto all’assegno divorziale a favore della sua ex moglie senza considerare, come avrebbe dovuto, che la sua attività di impresario di pompe funebri, da cui ha avuto origine il miglioramento delle sue condizioni economiche, non ha costituito il ragionevole sviluppo di situazioni ed aspettative già presenti al momento del divorzio, avendo iniziato “ex novo” detta attività in forma societaria nel 1995 ed essendo il rapporto coniugale cessato invece nel 1990. Deduce inoltre che la P.C. non ha sostenuto, se non in sede di reclamo e senza fornire le necessarie prove che le incombevano, la presenza di una tale prevedibile progressione di un’attività già prestata in costanza di matrimonio e che dal libretto di lavoro prodotto in giudizio risultava che egli aveva svolto tutt’altra attività come manovale nel settore dell’edilizia.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e della L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 9, nonchè omessa e contraddittoria motivazione. Lamenta che la Corte d’Appello abbia ritenuto che egli in precedenza, in costanza di matrimonio, aveva lavorato nel settore delle pompe funebri sul rilievo che non aveva smentito “convincentemente” le asserzioni sul punto della P.C., nonostante dal libretto di lavoro risultasse che egli aveva svolto attività temporanee nel settore dell’edilizia, basandosi in tal modo su una presunzione priva dei caratteri della gravità, univocità e concordanza.

Gli esposti motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per la sostanziale identità delle questioni trattate, sono inammissibili.

Il decreto emesso dalla Corte d’Appello in sede di reclamo avverso i provvedimenti adottati dal Tribunale sulle richieste di modifica delle condizioni stabilite nel giudizio divorzile sono impugnabili per ricorso per cassazione solo ai sensi dell’art. 111 Cost., vale a dire per violazione della legge regolatrice del rapporto sostanziale controverso o del processo.

Nè può essere invocato il D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, che ha sostituito l’art. 360 c.p.c., rendendo ricorribili per cassazione anche i provvedimenti diversi dalle sentenze in relazione a tutte le ipotesi previste dal primo comma dello stesso articolo, prevedendo la disciplina transitoria di cui all’art. 27 la sua applicazione solo ai provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto medesimo. Pertanto, essendo tale modifica entrata in vigore in data 2.3.2006 e risalendo al 14.2.2005, giorno della sua pubblicazione, il decreto impugnato in questa sede, deve escludersi “ratione temporis” l’applicabilità nel caso in esame dell’apertura introdotta con la nuova normativa.

Orbene le censure in questione, al di là della loro formale prospettazione sotto il profilo della violazione di legge (L. n. 898 del 1970, artt. 5 e 9), contengono in realtà deduzioni inquadrabili nel difetto di motivazione, non potendo non essere ricondotte in tale ambito le obiezioni alle argomentazioni della Corte d’Appello laddove ha ritenuto, in punto di fatto e di logica consequenzialità, che l’attività di impresario di pompe funebri, costituita in forma societaria nel 1995 con il conseguente miglioramento delle sua condizioni economiche, fosse da considerare il ragionevole sviluppo di situazioni ed aspetti già presenti precedentemente.

Nè è configurabile l’ipotesi di assoluta mancanza della motivazione, che si traduce in violazione di legge in caso appunto di radicale: carenza della stessa ovvero in presenza di argomentazioni inidonee a rivelarne la “ratio decidendi” (cosiddetta motivazione apparente) o fra loro inconciliabili. Infatti l’apprezzamento al riguardo della Corte d’Appello, basato sulla credibilità attribuita alle dichiarazioni della donna considerate non sufficientemente smentite dalla controparte nè dal libretto di lavoro – i cui intervalli di ordine temporale ivi rilevati sono state valorizzati per non escludere la possibilità di espletamento da parte del ricorrente di un’attività anche nel settore delle pompe funebri come affermato dalla P.C. – costituisce infatti una valutazione di merito non riconducibile nell’ambito della violazione di legge, come sopra precisato nè, addirittura, sotto il profilo del vizio di motivazione (360 c.p.c., n. 5).

In tale secondo ambito si è mosso infatti il ricorrente con le censura in questione, senza peraltro tener conto dei limiti, sopra richiamati, entro cui un tale vizio è proponibile. Non diversamente possono essere infatti inquadrate le obiezioni espresse, sulla base del contenuto del libretto di lavoro, al convincimento della Corte d’Appello, obiezioni, ripetesi, prive oltre tutto di qualsiasi riferimento ai numerosi intervalli temporali tra un lavoro ed un altro evidenziati dalla stessa Corte d’Appello.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ancora violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. e della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, nonchè omessa e/o contraddittoria motivazione.

Sostiene che la Corte d’Appello, nel ritenere sufficiente per disporre la modifica delle condizioni divorzili il mero indizio costituito dalla rappresentazione della contemporaneità fra riduzione del reddito e notifica del ricorso, non ha indicato i motivi per i quali un tale indizio dovesse ritenersi tanto grave e preciso da giustificare un giudizio di irrilevanza di detta diminuzione nè ha disposto i dovuti accertamenti mediante la Polizia Tributaria. Lamenta inoltre che la Corte d’Appello, senza alcuna motivazione, abbia dato credito alle ritrattazioni della P.C. la quale, in un primo tempo aveva dichiarato che svolgeva un’attività lavorativa come collaboratrice domestica e che riceveva un aiuto economico dal figlio A., mentre successivamente aveva dichiarato che erano venute meno entrambe le fonti di reddito.

In gran parte inammissibili devono ritenersi le esposte censure, muovendosi anch’esse, sotto l’apparente prospettazione della violazione di legge, nell’ambito del merito.

In tale quadro devono essere enucleate infatti le obiezioni ai rilievi della Corte d’Appello in ordine all’improvvisa riduzione del reddito dichiarata dal ricorrente in coincidenza con l’anno in cui la P.C. ha chiesto il riconoscimento dell’assegno divorziale.

Nè la specifica doglianza in ordine alla mancata adozione di provvedimenti volti ad accertare il suo effettivo reddito mediante la Polizia Tributaria può considerarsi decisiva sotto il profilo della violazione di legge (L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9), risolvendosi ancora una volta, così come prospettata, in un preteso difetto di motivazione.

Peraltro la Corte d’Appello non si è astenuta dal fornire una motivazione, avendo ritenuto non convincente la giustificazione addotta – basata sulla concorrenza di altre imprese sulla piazza – sul rilievo che tale situazione risaliva a molti anni prima (sin dal 1995).

Sotto il profilo strettamente giuridico si osserva che la discrezionalità di cui è certamente munito il giudice di merito nel disporre indagini patrimoniali attraverso la Polizia Tributaria, ai sensi del richiamato della L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 9, nel testo novellato dalla L. n. 74 del 1987, art. 10, trova il suo limite nella impossibilità da parte del giudice medesimo di motivare la propria decisione per mancanza di elementi utili di valutazione. Ma, allorchè, come nel caso in esame, sia stato possibile da parte della Corte d’Appello, con un apprezzamento di merito incensurabile in questa sede di legittimità, accertare, sulla base della duplice ragione sopra evidenziata (peculiarità del procedimento ed impossibilità di inquadrare la censura in un vizio di motivazione), i redditi di ciascun coniuge, correttamente viene omesso il ricorso a tale ulteriore strumento di verifica.

A differenza delle altre precedenti censure il profilo in esame, traducendosi nella deduzione di un’effettiva violazione di legge, deve ritenersi infondato e non già inammissibile.

Quanto infine all’ultima parte del terzo motivo, ancora una volta il ricorrente muove le proprie obiezioni alla motivazione della Corte d’Appello, facendo specifico riferimento ad una supposta contraddizione in cui sarebbe incorsa la Corte d’Appello in ordine alle dichiarazioni rese in tempi diversi dalla donna sulla propria attività lavorativa. Ma, così come prospettata, la censura non accenna alla diversa collocazione temporale in cui tali dichiarazioni sono state rilasciate ed alla possibilità quindi fra l’una e l’altra di un peggioramento delle sue già precarie condizioni economiche in relazione all’aggravarsi del suo stato di salute.

Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione della L. n. 898 del 1970, artt. 5, 6 e 9, nonchè degli artt. 147 e 433 c.c..

Sostiene che erroneamente la Corte d’Appello, nel rilevare la impossibilità da parte della P.C. di mantenere un tenore di vita appena decente, ha fatto riferimento all’obbligo da parte della medesima di provvedere alle necessità del pronipote e della nipote affidatile dal Tribunale per i Minorenni nonchè del figlio A. malato ed ormai disoccupato, senza considerare che la presenza di tali persone è irrilevante ai fini in esame in quanto la modifica dell’assegno può riguardare il mantenimento dei figli e non degli ulteriori discendenti e senza tener conto che le condizioni del figlio A., resosi in precedenza autosufficiente, non possono più essere valutate.

Anche tale motivo di ricorso è inammissibile per le stesse ragioni di principio più volte sottolineate.

Peraltro, il riferimento contenuto nel decreto impugnato ai gravosi oneri a carico della P.C. in conseguenza dei rilevanti problemi di varia natura insorti nel contesto familiare (anche allargato) non ha costituito un elemento di valutazione a sostegno delle conclusioni cui lo stesso decreto è pervenuto, basato invece su circostanze obiettive riguardanti la rilevata discrepanza fra le due situazioni economiche anche in conseguenza del sensibile miglioramento di quelle del ricorrente, ma solo un richiamo ad elementi di contorno volti a meglio lumeggiare il quadro d’insieme della complessa vicenda.

Il ricorso va pertanto nel complesso rigettato.

Nulla va disposto in ordine alle spese, non avendo l’intimata svolto alcuna attività difensiva.

P.Q.M.

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso. Dispone che in caso di diffusione della presente sentenza vengano omessi le generalità e gli altri dati identificativi delle parti ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52.

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2010

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