Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6661 del 10/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 10/03/2021, (ud. 16/12/2020, dep. 10/03/2021), n.6661

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23586-2019 R.G. proposto da:

R.L., avvocato, in giudizio di persona, elettivamente

domiciliata presso il proprio studio legale, sito in Napoli, alla

via Aquileia, n. 49;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, ed AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE (C.F. (OMISSIS)), in

persona del Direttore pro tempore, rappresentate e difese

dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale sono

domiciliate in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 760/20/2019 della Commissione tributaria

regionale della CAMPANIA, depositata in data 01/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 16/12/2020 dal Consigliere LUCIOTTI Lucio.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte:

costituito il contraddittorio camerale ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., come integralmente sostituito dal D.L. n. 168 del 2016, art. 1-bis, comma 1, lett. e), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 197 del 2016, osserva quanto segue.

In controversia avente ad oggetto l’impugnazione di una cartella di pagamento relativa a tributi dovuti dall’avv. R.L. per l’anno d’imposta 2013, emessa ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-ter, la contribuente ricorre per cassazione con quattro motivi, cui replicano le intimate con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe indicata con cui la CTR della Campania rigettava l’appello proposto dalla contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado sostenendo che era regolare la notifica della cartella effettuata a mezzo pec e che comunque l’atto aveva raggiunto il suo scopo; che erano generiche le eccezioni relative alla notifica della comunicazione di irregolarità stando alle attestazioni riportate sull’avviso di ricevimento non oggetto di querela di falso; che la notifica di tale atto rendevano inammissibili le eccezioni relative al ruolo, da ritenersi tardive; che la comunicazione di irregolarità “costituisce proprio quell’avviso bonario di cui la contribuente lamenta l’assenza”; che la regolare notifica di tale comunicazione e della successiva cartella avevano impedito il verificarsi di qualsiasi prescrizione decadenza; che la cartella di pagamento era immune da vizi formali, non costituendo requisito di validità la sottoscrizione della stessa; che era infondata l’eccezione relativa al mancato deposito della cartella che risultava presente in atti; che gli interessi richiesti erano quelli già iscritti a ruolo e non quelli di mora.

Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. nonchè del D.Lgs. n. 82 del 2005, artt. 20 e 21 e art. 23, comma 1.

La censura, incentrata sull’omessa pronuncia dei giudici di appello sul motivo di impugnazione con cui aveva dedotto la nullità della notifica della cartella di pagamento in quanto priva di firma digitale e senza attestazione di conformità, è manifestamente infondata sia perchè la CTR ha esaminato il motivo e l’ha rigettato sostenendo che la “notifica a mezzo pec della cartella (…) è stata effettuata in maniera del tutto regolare e comunque l’atto ha raggiunto il suo scopo avendo la contribuente avuto piena cognizione del suo contenuto”, sia perchè “In caso di notifica a mezzo PEC, la copia su supporto informatico della cartella di pagamento, in origine cartacea, non deve necessariamente essere sottoscritta con firma digitale, in assenza di prescrizioni normative di segno diverso” (Cass. n. 30948 del 2019).

Con il secondo motivo di ricorso, dedotto sempre con riferimento alla violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., la ricorrente censura la sentenza impugnata per omessa pronuncia dei giudici di appello sul motivo di impugnazione con cui aveva dedotto l’inesistenza del credito erariale ed il difetto di motivazione della cartella di pagamento.

Il motivo è manifestamente infondato perchè è la stessa ricorrente a sostenere (pag. 4, p. 2 del ricorso) che la CTR “ha ritenuto di non decidere sui punti in quanto la ricorrente non (ha) impugnato l’atto di avviso”, ovvero la comunicazione di irregolarità. Trattasi, quindi, di statuizione di assorbimento che doveva essere censurata non come violazione dell’art. 112 c.p.c. ma come omessa motivazione (Cass. n. 28995 del 2018; Cass. n. 28663 del 2013; Cass. n. 16637 del 2019, non massimata) posto che “l’assorbimento non comporta un’omissione di pronuncia (se non in senso formale) in quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto oppure di accoglimento) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento, per cui, ove si escluda, rispetto ad una certa questione proposta, la correttezza della valutazione di assorbimento, avendo questa costituito l’unica motivazione della decisione assunta, ne risulta il vizio di motivazione del tutto omessa”.

L’infondatezza della censura di omessa pronuncia sull’inesistenza del credito erariale e sul difetto di motivazione della cartella di pagamento emerge chiaramente dalla statuizione impugnata in cui la CTR ha espressamente affermato, quanto alla prima questione, che la notifica della comunicazione di irregolarità “rende(va) inammissibili tutte le eccezioni relative al ruolo che devono ritenersi tardive” e, quanto alla seconda, che il contenuto della cartella corrispondeva a quello del modello legale. Statuizioni di merito, queste, che non sono state attinte da specifiche censure.

Con il terzo motivo viene dedotta la “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 nella parte in cui (la CTR) afferma che non essendo stato impugnato l’atto di liquidazione, quest’ultimo diventa definitivo”.

Il motivo è inammissibile sotto diversi profili.

Un primo profilo di inammissibilità della censura discende dal rilievo che nella sentenza impugnata non si fa mai menzione di un atto di liquidazione, quanto piuttosto di una comunicazione di irregolarità (invero, è la ricorrente a sostenere l’esistenza di un avviso di liquidazione che “non è un avviso bonario di composizione della controversia” – ricorso, pag. 6 – senza trascriverne però il contenuto). Se effettivamente si trattasse di un atto di liquidazione, quello precedentemente notificato alla ricorrente, allora il motivo sarebbe anche manifestamente infondato, posto che un prodromico atto impositivo, sia esso di accertamento o di liquidazione, ove non impugnato rende definitiva e quindi irretrattabile la pretesa fiscale ivi incardinata, sicchè non è impugnabile unitamente ad un successivo atto riscossivo (cfr., ex multis, Cass. n. 15207 del 2000, n. 17937 del 2004, n. 16641 del 2011, n. 8704 del 2013 e n. 4818 del 2015). Il motivo, anche a voler ritenere censurata l’affermazione della CTR secondo cui la notifica della comunicazione di irregolarità “rende inammissibili le eccezioni relative al ruolo, da ritenersi tardive”, non è stato idoneamente censurato, stante l’aspecificità della censura in cui neppure vengono indicate le disposizioni di legge che sarebbero state violate dai giudici di appello.

Nel motivo si prospetta inoltre la nullità della cartella di pagamento (emessa a seguito di controllo formale ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-ter) per omessa preventiva notifica del c.d. avviso bonario. Trattasi di censura infondata avendo la CTR accertato l’avvenuta notifica alla contribuente, in data 09/11/2015, della comunicazione di cui al comma 4 della citata disposizione.

Con il quarto motivo viene dedotta la “violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 nella parte in cui (la CTR) afferma che l’Agente della riscossione ha depositato la cartella di pagamento impugnata” ancorchè “agli atti non risulta alcun deposito” di tale documento. Il motivo è manifestamente inammissibile in quanto la ricorrente deduce un errore di fatto che avrebbe dovuto far valere ai sensi dell’art. 395 c.p.c. Invero “E’ inammissibile il ricorso per cassazione con cui si denunci l’errore del giudice di merito in relazione alla erronea percezione di documenti acquisiti agli atti del processo e menzionati dalle parti, non corrispondendo tale errore ad alcuno dei motivi di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., risolvendosi, piuttosto, in una inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento in contrasto con le risultanze degli atti del processo, suscettibile di essere denunciata con il mezzo della revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4” (Cass. n. 20240 del 2015).

In estrema sintesi, il ricorso va rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore delle controricorrenti, delle spese processuali che liquida in complessivi Euro 1.400,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2021

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