Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6660 del 01/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 01/03/2022, (ud. 23/02/2022, dep. 01/03/2022), n.6660

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 31882/2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

SOC. ROMA TPL, elettivamente domiciliata in Roma, Via Ovidio, n. 32,

presso lo studio Massimo Malena & Associati, rappresentata e

difesa dall’avvocato Michele Mescolo;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. LAZIO n. 2791/05/20,

depositata il 06/10/2020.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 23 febbraio 2022

D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, ex art. 23, comma 8-bis, convertito

dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, dal Consigliere Riccardo Guida.

Dato atto che il Sostituto Procuratore Generale Locatelli Giuseppe ha

concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Roma TPL Spa (in precedenza Roma TPL Scarl), svolgente attività di trasporto pubblico locale di persone, impugnò l’avviso di accertamento con il quale l’Amministrazione finanziaria recuperava a tassazione Irap, per il 2010, l’importo di Euro 207.834,00 per effetto del mancato riconoscimento della deduzione del cuneo fiscale dalla base imponibile dell’imposta regionale, quale beneficio non spettante (tra le altre) alle imprese operanti in “concessione” e a “tariffa” nel settore dei trasporti. L’atto impositivo era riferito al contratto concluso dalla contribuente con (OMISSIS), avente ad oggetto servizi di trasporto pubblico locale.

2. La Commissione tributaria provinciale di Roma accolse la domanda, con sentenza (n. 22796/46/2017) che è stata confermata dalla Commissione tributaria regionale (“C.T.R.”) del Lazio con la pronuncia menzionata in epigrafe che, in sintesi, ha negato la sussistenza della concessione traslativa e della tariffa remuneratoria, dovendosi piuttosto ravvisare un appalto di pubblico servizio, che prevede l’attribuzione alla società, da parte di (OMISSIS), di un “corrispettivo sinallagmatico” per la prestazione del servizio.

3. L’Agenzia ricorre per la cassazione con un motivo e la contribuente resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo di ricorso (“Violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2 e 4, nonché del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, artt. 112 e 113, del D.Lgs. 19 novembre 1997, n. 422, artt. 17,18 e 19, e degli artt. 1362 e 1363, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”), l’Agenzia censura la sentenza impugnata per l’erronea esegesi tanto della normativa in tema di deduzione del cuneo fiscale ai fini Irap che delle clausole negoziali ed avere quindi qualificato il contratto come appalto di servizi anziché come concessione.

1.1. Il motivo non è fondato.

1.2. Si discute dell’applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 1, lett. a), così come modificato dalla L. 27 dicembre 2006, n. 296, il quale esclude dal beneficio fiscale della deduzione, ai fini Irap, di alcune poste relative al costo del lavoro, le “imprese operanti in concessione e a tariffa nei settori dell’energia, dell’acqua, dei trasporti, delle infrastrutture, delle poste, delle telecomunicazioni, della raccolta e depurazione delle acque di scarico e della raccolta e smaltimento rifiuti”.

La Commissione Europea, con la decisione C(2007) n. 4133, del 12 ottobre 2007, ha ritenuto di non sollevare obiezioni relativamente alla misura di cui al D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2, 3 e 4, in ragione della neutralità dell’esclusione rispetto ai servizi operanti in concessione ed a tariffa.

Premesso che, ai fini dell’esclusione del beneficio, debbono concorrere ambedue i due presupposti di legge della “concessione” e della “tariffa”, in ordine al presupposto giuridico (“concessione”) questa Corte ha già avuto occasione di precisare che ” In tema di Irap, poiché le imprese che svolgono attività regolamentata (cd. “public utilities”), caratterizzate dall’operare in regime di concessione e a tariffa, sono escluse dal godimento degli sgravi sul costo del lavoro (cd. cuneo fiscale) previsti dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 1, lett. a), a fini agevolativi di riduzione della base imponibile rileva il regime in cui opera il contribuente, tenuto conto che nella concessione il corrispettivo è costituito dal diritto di gestire il servizio o i lavori oggetto del contratto con assunzione del rischio a carico del concessionario, mentre nel contratto di appalto esso consiste in un contributo economico erogato dalla stazione appaltante.” (Cass. 11/08/2020, n. 16889; in termini, Cass. n. 24977 del 2021).

A sostegno di tale indirizzo nomofilattico si è argomentato che, come già chiarito da questa Corte (Cass. 06/05/2015, n. 9139), anche la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato 09/09/2011, n. 5068) ha ritenuto che “le concessioni, nel quadro del diritto comunitario, si distinguono dagli appalti non per il titolo provvedimentale dell’attività, né per il fatto che ci si trovi di fronte ad una vicenda di trasferimento di pubblici poteri o di ampliamento della sfera giuridica del privato (che sarebbe un fenomeno tipico della concessione in una prospettiva coltivata da tradizionali orientamenti dottrinali), né per la loro natura autoritativa o provvedimentale rispetto alla natura contrattuale dell’appalto, ma per il fenomeno di traslazione dell’alea inerente a una certa attività in capo al soggetto privato”.

La concessione, ovvero l’autorizzazione a gestire o sfruttare un’opera o un servizio, implica sempre il trasferimento al concessionario del rischio operativo di natura economica di non riuscire a recuperare gli investimenti effettuati ed i costi sostenuti per realizzare i lavori o i servizi. Invero, “la qualificazione come concessione di servizio pubblico deriva dalla circostanza che il corrispettivo non è a carico dell’Amministrazione e che l’erogazione del servizio, accompagnata dalla corresponsione di un canone, è compensata dalla concessione del diritto di sfruttare economicamente, ed in esclusiva, il servizio” (Cons. Stato 12/05/2016, n. 1927).

Pertanto, si ravvisa una concessione se, in base al titolo, l’operatore assume i rischi economici della gestione del servizio, rifacendosi essenzialmente sull’utenza per mezzo della riscossione di un canone o di una tariffa; mentre si configura un contratto di appalto se l’onere del servizio stesso viene a gravare sostanzialmente sulla P.A..

Si è poi rimarcato (Cass. 11/08/2020, n. 16889, cit., in motivazione) che nello stesso senso si è espressa la giurisprudenza comunitaria, secondo la quale si è in presenza di una concessione di servizi allorquando le modalità di remunerazione pattuite consistono nel diritto del prestatore di sfruttare la propria prestazione ed implicano che quest’ultimo assuma il rischio legato alla gestione dei servizi (Corte Giust. CE, 15 ottobre 2009, in C- 196/08); mentre in caso di assenza di trasferimento al prestatore del rischio legato alla prestazione, l’operazione rappresenta un appalto di servizi (Corte Giust. CE, 10 settembre 2009, C-206/08, per la quale, nel caso di un contratto avente ad oggetto servizi, il fatto che la controparte contrattuale non sia direttamente remunerata dall’amministrazione aggiudicatrice, ma abbia il diritto di riscuotere un corrispettivo presso terzi, è sufficiente per qualificare quel contratto come “concessione di servizi” ai sensi della Dir. n. 2004/17/CE, art. 1, n. 3, lett. b), se il rischio di gestione nel quale incorre l’amministrazione aggiudicatrice, per quanto considerevolmente ridotto in conseguenza della configurazione giuspubblicistica dell’organizzazione del servizio, è assunto integralmente o in misura significativa dalla controparte contrattuale).

Infine, è stato rilevato (Cass. 11/08/2020, n. 16889, cit., in motivazione) che è concorde, sul punto, anche la Dir. comunitaria n. 2014/23/CE, art. 2, par. 1, lett. a) e b), (“direttiva concessioni”), che ha definito “concessione di servizi” il contratto, a titolo oneroso, stipulato per iscritto, in virtù del quale una o più amministrazioni aggiudicatrici o uno o più aggiudicatori affidano la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori ad uno o più operatori economici, ove il corrispettivo consista unicamente nel diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o in tale diritto accompagnato da un prezzo.

Ed anche secondo il D.Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, art. 3, comma 1, lett. vv) (codice dei contratti pubblici) è “”concessione di servizi” un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi diversi dall’esecuzione di lavori di cui alla lett. II), riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi;”.

Dunque, la distinzione tra concessione e appalto consiste nel fatto che nella concessione il corrispettivo derivante dall’erogazione del servizio è proprio il diritto di gestire il servizio o i lavori oggetto del contratto, diversamente da quanto accade nell’appalto, ove il corrispettivo che deriva dall’esecuzione di lavori o dalla gestione di servizi è l’erogazione di un contributo economico che viene pattuito con la stazione appaltante ed è erogato da quest’ultima.

Seguendo tale filo conduttore, le Sezioni Unite di questa Corte, sia pure nel contesto del riparto della giurisdizione, di recente hanno chiarito che “In tema di affidamento di servizi da parte della P.A. ad imprese private, la linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi risiede in ciò, che i primi, a differenza delle seconde, riguardano di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comportano il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione e non determinano, infine, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario; pertanto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione debba versare un canone al gestore dei servizi e questi non percepisca alcun provento dal pubblico indifferenziato degli utenti, il rapporto va qualificato in termini di appalto di servizi.”. (Cass. Sez. U., 28/05/2020, n. 10080).

1.3. Ricordato che, come sottolinea anche la Decisione della Commissione Europea, ai fini dell’esclusione dell’agevolazione il requisito della concessione deve concorrere con quello della “tariffa”, l’interpretazione corretta di tale ultimo elemento è stata enunciata, nei seguenti termini, da questa Corte, alla luce soprattutto della valutazione espressa dall’Alta Istituzione dell’UE: “In tema di Irap, il vantaggio fiscale della riduzione della base imponibile dichiarata, in applicazione delle deduzioni introdotte dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 266 (cd. riduzione del cuneo fiscale prevista dalla legge finanziaria 2007), che ha modificato il D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 11, comma 1, lett. a), nn. 2 e 4, non si applica alle imprese che svolgono attività regolamentata (cd. “public utilities”) in forza di una concessione traslativa e a tariffa remunerativa, ossia capace di generare un profitto, essendo tale interpretazione del concetto di tariffa coerente con la “ratio” giustificatrice del cd. cuneo fiscale.” (Cass. 12/12/2019, n. 32633). E ciò perché la Commissione Europea ha riconosciuto la legittimità dell’esclusione del beneficio fiscale, nei confronti delle public utilities, prendendo atto che: (p. 33.) “le autorità italiane hanno giustificato l’esclusione sostenendo che essa ha lo scopo di evitare la potenziale sovracompensazione generata dalla misura in quanto l’attuale livello delle tariffe è stato determinato tenendo conto dell’onere Irap prima della riforma, ossia senza le deduzioni dalla base imponibile introdotte dalla misura. In effetti i pubblici servizi interessati sono soltanto quelli operanti in settori nei quali si tiene già interamente conto dell’onere fiscale nella determinazione della tariffa. (p. 34.) Inoltre, per quanto riguarda il futuro, le autorità italiane si sono impegnate a far sì che l’esclusione non determini né vantaggi né svantaggi per i pubblici servizi in quanto i costi fiscali continueranno a essere presi in considerazione. Per questi motivi l’esclusione dei pubblici servizi operanti in concessione e a tariffa non determinerà un vantaggio o uno svantaggio selettivo.”. Proprio per la neutralità dell’esclusione del beneficio fiscale rispetto ai servizi pubblici operanti in concessione e a tariffa la Commissione Europea ha quindi negato che la misura costituisse aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune, ai sensi del trattato CE, art. 87, p. 1.

Infatti, consentire, indiscriminatamente, a tutte le imprese operanti nel settore dei pubblici servizi di fruire delle deduzioni Irap darebbe luogo a un utile insperato, generando una “sovracompensazione” capace di frustrare l’obiettivo perseguito dall’autorità di regolamentazione con la fissazione delle tariffe; per converso, escludere dal beneficio fiscale le imprese del settore che applicano una tariffa non remunerativa, causerebbe uno svantaggio selettivo, ossia un pregiudizio economico del tutto ingiustificato (così Cass. 12/12/2019, n. 32633).

1.4. Il nesso logico-funzionale tra i due presupposti (quello giuridico e quello economico), necessariamente concorrenti, preclusivi del beneficio fiscale, ne chiarisce la ratio, che è quella di scongiurare il vantaggio che ne trarrebbe l’impresa che, in regime concessorio, riceva già il corrispettivo rappresentato dalla tariffa corrisposta dall’utenza. Ove tale tariffa (di regola fissata dalla pubblica amministrazione e non dipendente dal mercato) fosse altresì remuneratoria e compensativa del servizio prestato, aggiungere ad essa anche la riduzione del cuneo fiscale darebbe luogo all’indicata “sovracompensazione”.

Pertanto, nel contesto del regime concessorio, la tariffa pagata dall’utenza costituisce una componente necessaria della remunerazione dell’impresa, giacché non avrebbe altrimenti senso imporre la verifica della sua remuneratività. In questa direzione, del resto, si muove la stessa prassi dell’Amministrazione finanziaria, quando rileva che è “concessione” “un’attività il cui corrispettivo è costituito da una tariffa: ossia da un prezzo fissato o regolamentato dalla pubblica amministrazione in misura tale da assicurare l’equilibrio economico-finanziario dell’investimento e della connessa gestione”.

Chiara, sul punto, è l’affermazione di questa Corte, secondo cui “La netta distinzione tra le due figure è stata recentemente ribadita dalla giurisprudenza di legittimità, la quale ha sancito che, in tema di affidamento di servizi da parte della pubblica amministrazione ad imprese private, la linea di demarcazione tra appalti pubblici di servizi e concessioni di servizi risiede in ciò, che i primi, a differenza delle seconde, riguardano di regola servizi resi alla pubblica amministrazione e non al pubblico degli utenti, non comportano il trasferimento del diritto di gestione quale controprestazione e non determinano, infine, in ragione delle modalità di remunerazione, l’assunzione del rischio di gestione da parte dell’affidatario; pertanto, nell’ipotesi in cui l’amministrazione debba versare un canone al gestore dei servizi e questi non percepisca alcun provento dal pubblico indifferenziato degli utenti, il rapporto va qualificato in termini di appalto di servizi (in senso conforme, Cass. Sez. Un., 28 maggio 2020, n. 10080)” (Cass. 15/09/2021, 24977).

1.5. Occorre altresì aggiungere che soltanto la tariffa remunerativa, nell’accezione fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità e dalla Decisione della Commissione Europea, vale ad escludere dal beneficio fiscale le imprese operanti in regime di concessione, senza che, al medesimo fine, possa tenersi conto di ulteriori corrispettivi (di natura latamente tariffaria, in quanto fissati dalle pubbliche amministrazioni) determinati genericamente in misura tale da assicurare l’equilibrio economico-finanziario dell’investimento e della connessa gestione del pubblico servizio. Infatti, la tesi di una “tariffa ampliata” non sarebbe coerente con la corretta esegesi dell’art. 11, che esclude l’agevolazione fiscale soltanto per le imprese operanti in determinati settori a tariffa, “remunerativa”, che tenga conto del costo fiscale dell’Irap, secondo i dettami della Commissione Europea e in aderenza a quanto era stato rappresentato dal Governo italiano nelle interlocuzioni presso la medesima Istituzione unionale (cfr., su questo specifico argomento, Cass. 22/12/2021, n. 41282, in materia di agevolazione Irap a favore di un’impresa di gestione di strutture ospedaliere e sociosanitarie).

1.6. Svolte queste premesse di carattere generale, tornando al motivo di ricorso, la C.T.R. ha espressamente escluso che il rapporto contrattuale sia una concessione di servizi poiché (cfr. pag. 3 della sentenza) “non sussiste un vero e proprio regime di tariffa, tale da garantire l’equilibrio finanziario; ma, piuttosto, la previsione di un corrispettivo sinallagmatico alla prestazione del servizio, restando fermo l’intervento del Comune al fine di ripianare le eventuali perdite di esercizio. Sicché il quadro complessivo delle risorse necessarie a coprire i costi di produzione del servizio provengono dai ricavi tariffari e dai contributi sia regionali che comunali.”.

Benché lo sviluppo argomentativo della sentenza non sia propriamente lineare, comunque esso esprime un accertamento di fatto – e cioè che la contribuente incassa un corrispettivo dalla controparte pubblica, correlato alla gestione del servizio – che sul piano giuridico consente di escludere che si sia in presenza di una concessione, nei termini anzidetti.

D’altra parte, il fatto che nella specie non sia configurabile una tariffa, secondo la definizione che è stata data in precedenza, è uno dei capisaldi del ricorso per cassazione dell’Agenzia, nel quale è trascritto il contenuto dell’avviso di accertamento qui contestato che, nella ricostruzione della disciplina contrattuale del rapporto tra il Comune di (OMISSIS) e Roma PTL (denominato ora “contratto di servizio” ora “appalto del servizio”), afferma testualmente (cfr. pag. 3 del ricorso per cassazione) che “Come previsto dal Contratto di Servizio, Roma TPL percepisce un rimborso chilometrico per il servizio svolto, mentre resta di competenza di (OMISSIS) la vendita dei biglietti, effettuata attraverso la rete di vendita Atac”.

Il giudice di merito ha dunque compiuto un accertamento di fatto, non contestato, e neppure sindacabile in sede di legittimità. In sostanza, nella fattispecie negoziale in esame non ricorre né l’uno né l’altro presupposto ostativo al beneficio fiscale, in quanto l’impresa non opera in regime di “concessione” e non vi è una “tariffa”, pagata dall’utenza, quale corrispettivo dell’attività di trasporto.

In conclusione, si evidenzia che alle pattuizioni sub iudice si applica il D.Lgs. 19 novembre 1997, n. 422, che in materia di trasporto pubblico locale, all’art. 19, prescrive la stipulazione di contratti di servizio quali appalti di servizi (Cass. 22/10/2014, n. 22425; Cass. 15/06/2021, n. 29504; Cons. Stato 21/06/ 2018, n. 3822 e 07/02/2012, n. 645), e spetta all’Amministrazione ricorrente (che non l’ha assolto) l’onere di provare la non conformità del contratto in esame al modello legale.

2. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

3. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater (Cass. 29/01/2016, n. 1778).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.300,00, a titolo di compenso, Euro 200,00, per esborsi, oltre al 15% sul compenso, a titolo di rimborso forfetario delle spese generali, e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2022

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