Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6652 del 06/04/2016


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 6652 Anno 2016
Presidente: DI AMATO SERGIO
Relatore: IANNELLO EMILIO

SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 10615/2012 R.G. proposto da
AGENZIA DELLE ENTRATE,
in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA
DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la
rappresenta e difende,
– ricorrente –

contro
FIGLIOLINI S.R.L.,
in persona del suo legale rappresentante pro tempore,
– intimata avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania
n. 259/47/2011, depositata il 21/11/2011.
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21 gennaio

Data pubblicazione: 06/04/2016

2016 dal Relatore Cons. Emilio Iannello;
udito l’Avvocato dello Stato Pietro Garofoli per la ricorrente;
udito il RM., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.ssa
Immacolata Zeno, la quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La società Figliolini S.r.l. proponeva ricorso avanti la C.T.P. di Napoli

ed IRAP dovute per l’arino 2004, a seguito di rettifica del reddito d’impresa e del
mancato riconoscimento della deducibilità di costi per operazioni commerciali
intrattenute con imprese estere residenti e/o domiciliate in Paesi con regime
fiscale agevolato compresi nella c.d. black list di cui al D.M. 23 gennaio 2002 (Si
trattava precisamente di costi per C 472.669,12 per l’acquisto di beni da imprese
residenti in Hong Kong). L’atto impositivo traeva origine da una verifica fiscale
che aveva accertato che, dei detti costi, la contribuente aveva omesso la
separata indicazione nel quadro RF della dichiarazione dei redditi prescritta
dall’art. 110, comma 11, T.U.I.R., applicabile ratione temporis.
L’adita C.T.P. rigettava il ricorso, osservando che, sebbene per effetto dello
ius superveniens l’omessa separata indicazione dei costi in dichiarazione non
potesse più di per sé considerarsi ostativa alla loro deducibilità, tuttavia, nel caso
di specie, la società ricorrente non aveva fornito la prova, articolo per articolo,
della convenienza economica a rifornirsi in Cina piuttosto che nel mercato
nazionale.
2. In accoglimento dell’appello proposto dalla società contribuente, la C.T.R.
della Campania, con la decisione in epigrafe, in riforma della sentenza
impugnata, dichiarava deducibili i costi sostenuti e applicava la sanzione di C
1.000, ai sensi dell’art. 8, comma 1, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.
Rilevava in sintesi che la prova, nel caso di specie ricavabile dalla copiosa
documentazione prodotta in giudizio, che le operazioni commerciali avevano
avuto concreta esecuzione ed erano state effettivamente realizzate con società

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avverso l’avviso di accertamento nei suoi confronti emesso per maggiori IRES

operanti in paesi c.d.

black list

era di per sé sufficiente a condurre

all’accoglimento del ricorso, non rilevando invece la mancata dimostrazione della
rispondenza delle operazioni poste in essere ad un effettivo interesse economico,
essendo questa prevista in alternativa a quella dello «svolgimento prevalente da
parte delle imprese estere di un’attività commerciale effettiva».

Soggiungeva che, in ogni caso, la sussistenza o meno di un effettivo

valutata tenendo conto di tutti gli elementi che caratterizzavano il caso concreto,
non potendo tale interesse identificarsi con la sola convenienza economica: nel
caso di specie la merce acquistata dalla società ricorrente (ceramiche, fiori e
piante artificiali, accessori per fioristi, articoli natalizi e articoli casalinghi
acquistati all’ingrosso) non risultava prodotta da aziende nazionali né europee
per l’elevato apporto di manodopera occorrente, con impossibilità di fornire una
prova contraria.
3. Avverso tale sentenza l’Agenzia delle entrate propone ricorso sulla base di
due motivi.
L’intimata non ha svolto difese nella presente sede.
MOTIVI DELLA DECISIONE
4. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate deduce violazione e
falsa applicazione – ex art. 360 comma primo n. 3 cod. proc. civ. – dell’art. 110,
commi 10 e 11, T.U.I.R. (come modificato dall’art. 1, comma 301, legge 27
dicembre 2006, n. 296), per avere la C.T.R. ritenuto che la natura commerciale
dell’attività posta in essere dalla società estera (presupposto alternativamente
richiesto dalla norma per la deducibilità dei costi) potesse nel caso di specie
ritenersi dimostrata dalla documentazione prodotta (fatture fornitori esteri e
bolle di accompagnamento) che la ricorrente assume essere invece idonea
soltanto a dimostrare l’esistenza formale della società, ma non anche il carattere
commerciale della sua attività e, inoltre, per aver ritenuto di poter prescindere
dalla prova del presupposto dell’interesse economico in base alla sola circostanza

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interesse economico sottostante alle operazioni commerciali in questione andava

- secondo l’Agenzia «semplicistica e non dimostrata, né dimostrabile» – che i
beni importati «non risultavano prodotti da aziende nazionali né europee per
l’elevato apporto di manodopera occorrente».

5. Con il secondo motivo l’Agenzia deduce violazione e falsa applicazione
dell’art. 8, comma 4 (recte: comma 3-bis), digs. 18 dicembre 1997, n. 471, in
relazione all’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ..

esame la sanzione prevista dal comma primo della succitata disposizione anziché
quella prevista dal comma quarto (recte: comma 3-bis), aggiunto dalla legge 27
dicembre 2006, n. 296, per il caso di omessa o incompleta indicazione delle
spese di cui all’art. 110, comma 11, T.U.I.R..
6. Il primo motivo di ricorso è inammissibile.
La censura omette di indicare specificamente l’affermazione in diritto
contenuta nella sentenza gravata che si assume in contrasto con le norme che si
pretendono violate.
Le contestazioni mosse dalla ricorrente afferiscono per vero più
propriamente alla giustificazione offerta in sentenza del convincimento positivo
espresso circa la sussistenza dei presupposti di deducibilità dei costi black list,
muovendo esse pertanto non già sul piano della interpretazione della norma e
della corretta ricognizione della fattispecie astratta da essa prevista, quanto
piuttosto su quello della ricognizione della fattispecie concreta quale emersa
dalle risultanze di causa e, dunque, impingendo il diverso tema della coerenza e
adeguatezza della motivazione.
7. è invece fondato il secondo motivo di ricorso.
La legge n. 296 del 2006, art. 1, comma 301, ha come noto degradato
l’omessa separata indicazione in dichiarazione dei costi c.d. black list da motivo
ostativo di per sé alla deducibilità dei costi medesimi a violazione formale
passibile esclusivamente di sanzione amministrativa, attraverso l’introduzione
(disposta dall’art. 1 comma 302) nel d.lgs. n. 471 del 1997, all’art. 8, dopo il

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Lamenta che i giudici d’appello hanno erroneamente applicato al caso in

comma 3, di un comma

3-bis,

il quale recita:

«Quando l’omissione o

incompletezza riguarda l’indicazione delle spese e degli altri componenti negativi
di cui all’art. 110, comma 11, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al
d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, si applica una sanzione amministrativa pari al
10 per cento dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non
indicati nella dichiarazione dei redditi, con un minimo di Euro 500 ed un massimo

Come già evidenziato da questa Corte tale innovazione ha carattere
retroattivo, e ciò principalmente in virtù della norma transitoria contenuta nel
comma 303 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, a tenore della quale:

«la

disposizione del comma 302 si applica anche per le violazioni commesse prima
della data di entrata in vigore della presente legge, sempre che il contribuente
fornisca la prova di cui all’art. 110, comma 11, primo periodo, citato testo unico
delle imposte sui redditi. Resta ferma in tal caso l’applicazione della sanzione di
cui al D.Lgs. 18 dicembre 1991, n. 471, art. 8, comma 1».
Si è in tal senso argomentato, da un lato, sulla ratio della innovazione
legislativa a regime (che è quella di trovare, in materia, un punto di equilibrio
meno gravoso per il contribuente e maggiormente aderente ai canoni
costituzionali della capacità contributiva e dell’uguaglianza tributaria, rispetto a
quello precedentemente definito), dall’altro, sull’ultima proposizione della
medesima norma transitoria di cui al comma 303 che – in esito all’affermazione
dell’efficacia retroattiva della sanzione di cui al d.lgs. n. 471 del 1997, art. 8,
comma 3-bis – recita: «Resta ferma in tal caso l’applicazione della sanzione di cui
al D.Lgs. 18 dicembre 1991, n. 411, art. 8, comma 1».
Si è osservato che tale norma prevede indubitabilmente, per le sole
violazioni dell’obbligo di separata indicazione riferibili a situazioni di diritto
transitorio, il cumulo della sanzione proporzionale del 10% (entro limiti
prescritti), disposta dal sopravvenuto comma 3-bis, con la sanzione, definita nel
minimo e nel massimo, di cui al d.lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1, e,

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di Euro 50.000».

trovando ragion d’essere solo sul presupposto dell’estensione della retroattività
anche all’abolizione del previgente regime d’indeducibilità, la legittima a sua
volta, finendo, così, con il costituire clausola di chiusura dell’intera disciplina (v.
ex multis Cass., nn. 4030/2015 e 6205/2015). Considerata infatti la maggior
gravità per il contribuente del previgente regime di radicale indeducibilità e,
altresì, della sanzione di cui al d.lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, ad esso

La sentenza impugnata, escludendo espressamente l’applicabilità della
sanzione di cui all’art. 8, comma 3 bis, n. 471 del 1997, quale introdotta, con

efficacia retroattiva per quanto detto, dall’art. 1, comma 302, legge 296 del
2006, non si conforma evidentemente a tale ricostruzione del quadro normativa
e va pertanto cassata.
8. Non essendo poi necessari ulteriori accertamenti di fatto e trattandosi di
sanzione univocamente determinata nel suo ammontare per legge, in misura
proporzionale (10%) all’ammontare dei costi, con un limite minimo di C 500 ed
uno massimo di C 50.000, nel caso di specie non superati, la causa va decisa nel
merito ex art. 384 c.p.c., nei termini di cui in dispositivo.
9.

In considerazione della complessità delle questioni trattate e delle

oscillazioni giurisprudenziali inizialmente registratesi in materia si reputa equo
compensare le spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso; accoglie il
secondo; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara dovuta
la sanzione proporzionale; spese compensate per l’intero giudizio.
Così deciso il 21/1/2016

ricollegabile, la norma non viola il principio di legalità.

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