Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6639 del 09/03/2020

Cassazione civile sez. lav., 09/03/2020, (ud. 14/11/2019, dep. 09/03/2020), n.6639

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. RAIMONDI Guido – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23026-2015 proposto da:

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA SAN

SATURNINO 5, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA NAPPI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato NICOLA MARIA ALIFANO;

– ricorrente –

contro

NALCO ITALIANA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PRINCIPESSA CLOTILDE

7, presso lo studio dell’avvocato ERNESTO IRACE, che la rappresenta

e difende;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 4473/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 23/09/2014, R. G. N. 8375/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

14/11/2019 dal Consigliere Dott. VALERIA PICCONE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato RAFFAELE NARDOIANNI per delega verbale avvocato

FRANCESCA NAPPI.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza in data 23 settembre 2014, la Corte d’Appello di Roma ha parzialmente accolto l’impugnazione proposta da C.A. avverso la sentenza di primo grado che aveva respinto la domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato al ricorrente e sottoposto alla condizione sospensiva della eventuale declaratoria di invalidità delle dimissioni da lui rassegnate.

1.1. Ha osservato in particolare il giudice di secondo grado che nel ricorso introduttivo, parte ricorrente, che pure ne aveva fatto richiesta in sede cautelare, non aveva proposto alcuna domanda di annullamento o invalidità delle dimissioni che asseriva essergli state estorte, essendosi limitata ad instare per la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato in via subordinata rispetto alla ritenuta invalidità delle dimissioni.

La Corte ha, quindi, ritenuto di condividere l’assunto del primo giudice circa l’insussistenza di una coartazione della volontà del C. le cui dimissioni ha reputato rassegnate consapevolmente quale frutto di volontà transattiva ma ha poi ritenuto la inefficacia della rinuncia al TFR e a tutte le spettanze retributive in quanto tempestivamente impugnate ex art. 2113 c.c., ed ha così determinato la complessiva somma di Euro 53.087,35 ritenendo provate e dovute le trattenute rispetto alla maggior somma richiesta dal ricorrente.

2. Avverso tale pronunzia propone ricorso, assistito da memoria, C.A. affidandolo a quattro motivi.

2.1 Resiste con controricorso la Nalco italiana S.r.l. e propone, altresì, ricorso incidentale affidato a due motivi.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.Con il primo motivo di ricorso si prospetta la violazione dell’art. 416 c.p.c., comma 3 e dell’art. 2697 c.c. per non aver la Corte riconosciuto le somme oggetto di allegazione e non contestazione da parte della società, con il secondo motivo si deduce la violazione della L. n. 218 del 1952, art. 19 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 23 per aver la Corte riconosciuto al ricorrente il TFR e le competenze di fine rapporto avendo riguardo alle sole “trattenute” risultanti dalla busta paga del dicembre 2001, mentre, con il terzo motivo, si deduce la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4.

1.1. Il primo motivo è infondato.

1.1.1. Con riguardo alla dedotta violazione del principio di non contestazione inerente le somme pretese dal ricorrente, va premessa l’assoluta genericità del motivo, che non consente allo stesso di rispettare i canoni di cui all’art. 366 c.p.c., attesa la mancata produzione di atti difensivi della parte controricorrente da cui possa evincersi la mancata contestazione ed alla luce, anzi, della compiuta ed articolata contestazione della Nalco s.r.l. riportata in ampi stralci nel controricorso.

Occorre, poi, rilevare che il principio di non contestazione opera rispetto ai fatti costitutivi, modificativi o estintivi del diritto azionato e non anche in relazione a fattispecie, come quella del diritto al riconoscimento di voci retributive peculiari, in ordine alle quali occorre la prova dei fatti costitutivi (per es., per le MPI, o le stock options quella del raggiungimento degli obiettivi), il cui accertamento, richiedendo un riscontro su aspetti ulteriori deve essere necessariamente ricondotto al “thema probandum” come disciplinato dall’art. 2697 c.c., la cui verificazione spetta al giudice.

1.1.2. Va poi rilevato che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni, (cfr., ex plurimis, sul punto, Cass. 23/10/2018 n. 26769).

2. Anche il secondo motivo è infondato.

2.1. Nessuna violazione delle disposizioni normative in tema di contribuzione previdenziale può dirsi perpetrata nel caso di specie mentre risulta evidente che parte ricorrente mira ad ottenere una diversa ricostruzione fattuale inammissibile in sede di legittimità.

Nè può dirsi che la Corte sia incorsa nella violazione del principio consolidato secondo cui l’accertamento e la liquidazione del credito spettante al lavoratore per differenze retributive devono essere effettuati al lordo sia delle ritenute fiscali, sia di quella parte delle ritenute previdenziali gravanti sul lavoratore. Quanto a queste ultime, al datore di lavoro è consentito procedere alle ritenute previdenziali a carico del lavoratore solo nel caso di tempestivo pagamento del relativo contributo (ai sensi della L. 4 aprile 1952, n. 218, art. 19); per quanto concerne, invece, le ritenute fiscali, esse non possono essere detratte dal debito per differenze retributive, giacchè la determinazione di esse attiene non al rapporto civilistico tra datore e lavoratore, ma a quello tributario tra contribuente ed erario, e dovranno essere pagate dal lavoratore soltanto dopo che il lavoratore abbia effettivamente percepito il pagamento delle differenze retributive dovutegli (Cass. n. 19790 del 2011; conformi successive: Cass. n. 21010 e 3525 del 2013, Cass. n. 18044 del 2015). Tale principio risulta perfettamente rispettato.

A guardar bene, invero, il giudice di secondo grado ha proceduto ad un accertamento di fatto conclusosi nel senso di ritenere “provate e dovute le sole trattenute di cui all’allegato 1…”.

Si tratta, come è evidente, di un accertamento fattuale in ordine al quale nessun elemento viene introdotto a scalfire l’iter decisorio talchè deve ritenersi che in base ad una valutazione di fatto, sottratta ove non incongrua al sindacato di legittimità, il giudice abbia ritenuto provate soltanto quelle somme rispetto alle quali sia stata offerta la prova in giudizio, somme corrispondenti, nel caso di specie, alle “trattenute” di cui all’allegato.

3. Il terzo motivo è infondato.

Va rilevato, al riguardo, che può ritenersi nulla, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, la sola motivazione apparente, quella, cioè che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, attraverso una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni svolte dal primo giudice, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame (sul punto, ex plurimis, Cass. n. 27112 del 25/10/2018).

Non può ritenersi che, nel caso di specie, ci si trovi di fronte ad una motivazione soltanto apparente, avendo dato conto il giudice di secondo grado delle ragioni che lo hanno indotto a ritenere non coartata la volontà dimissionaria del dipendente, non configurabile una ipotesi di licenziamento ed infine dovute le differenze retributive accertate alla luce della tempestiva impugnazione della rinuncia alle stesse, effettuata ex art. 2113 c.c.

4. Relativamente al quarto motivo, con cui si deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, va ancora una volta ribadita la genericità della deduzione cui va aggiunta l’infondatezza della stessa vertendosi in ipotesi di rigetto implicito della domanda alla luce della piana motivazione del giudice di secondo grado.

5. Il primo motivo del ricorso incidentale è infondato.

La società ricorrente lamenta una violazione di legge con riguardo agli artt. 1965,1362,1363,1364 e 2113 c.c. deducendo l’erronea interpretazione delle dichiarazioni rese dal dipendente nella comunicazione tesa a voler risolvere il rapporto e riconoscere la rifusione dei danni cagionati con rinuncia alle spettanze retributive.

La configurazione di tale dichiarazione come rinuncia è questione rientrante nel prudente apprezzamento del giudice di secondo grado e sottratta ad una diversa valutazione del giudice di legittimità.

D’altro canto, la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, e dovendo i rilievi contenuti nel ricorso essere accompagnati, in ossequio al principio di autosufficienza, dalla trascrizione delle clausole individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire alla Corte di verificare l’erronea applicazione della disciplina normativa (Cass. 15/11/2013, n. 25728).

5. Con il secondo motivo di ricorso incidentale si denunzia la violazione degli artt. 2934,2943 e 2948 c.c. nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti.

Per costante giurisprudenza di legittimità, (cfr., fra le più recenti, Cass. n. 20335 del 2017, con particolare riguardo alla duplice prospettazione del difetto di motivazione e della violazione di legge) il vizio relativo all’incongruità della motivazione di cui all’art. n. 360 c.p.c., n. 5, comporta un giudizio sulla ricostruzione del fatto giuridicamente rilevante e sussiste quando il percorso argomentativo adottato nella sentenza di merito presenti lacune ed incoerenze tali da impedire l’individuazione del criterio logico posto a fondamento della decisione, o comunque, qualora si addebiti alla ricostruzione di essere stata effettuata in un sistema la cui incongruità emerge appunto dall’insufficiente, contraddittoria o omessa motivazione della sentenza.

Invece, attiene alla violazione di legge la deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente una attività interpretativa della stessa.

Nella specie, la stessa piana lettura delle modalità di formulazione dei motivi considerati induce ad escludere, ictu oculi, la deduzione di una erronea sussunzione nelle disposizioni normative mentovate della fattispecie considerata, apparendo, invece, chiarissima l’istanza volta ad ottenere una inammissibile nuova valutazione del fatto.

La parte si sofferma, invero, sostanzialmente sulla ricostruzione in fatto della vicenda e delle sue conseguenze – deducendo l’omesso esame di circostanze rilevati – e mira ad ottenere una rivisitazione del merito in ordine all’interpretazione della maturazione della prescrizione, pacificamente rimessa al giudice di secondo grado.

Relativamente alla dedotta violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, va rilevato che, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134 è stata limitata la impugnazione delle sentenze in grado di appello o in unico grado per vizio di motivazione alla sola ipotesi di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, con la conseguenza che, al di fuori dell’indicata omissione, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte – formatasi in materia di ricorso straordinario – in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 23940 del 2017); non ricorrendo alcuna di dette ipotesi, la censura risulta inammissibile.

6. Alla luce delle suesposte argomentazioni, entrambi i ricorsi vanno respinti.

6.1. La reciproca soccombenza suggerisce di disporre l’integrale compensazione delle spese relative al giudizio di legittimità. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il relativo ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

PQM

La Corte respinge il ricorso principale e quello incidentale. Compensa integralmente le spese di lite. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale e incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale e incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 14 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020

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