Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6637 del 09/03/2020

Cassazione civile sez. lav., 09/03/2020, (ud. 12/11/2019, dep. 09/03/2020), n.6637

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23498-2014 proposto

IDEST S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

D.G. in proprio, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DI

MONTE FIORE 22, presso lo studio dell’avvocato STEFANO GATTAMELATA,

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato CARLO MERANI;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE

DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI

PORTOGHESI N. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 344/2014 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 19/02/2014 R.G.N. 1092/2011.

Fatto

RILEVATO

CHE:

l’Agenzia delle Entrate ha emesso, nei riguardi di Idest s.r.l. e dell’ing. D., ordinanza ingiunzione per il pagamento in solido della somma di Euro 40.788,00 ai sensi del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 ed a titolo di sanzione amministrativa per avere conferito, negli anni 2006 e 2007, al Dott. B.A., incarichi di consulenza, senza l’autorizzazione del datore di lavoro pubblico e per non avere dato comunicazione dei compensi corrisposti nell’anno 2007, con sanzione calcolata, come precisa la stessa Corte territoriale, in misura pari al doppio dei compensi elargiti;

il B. all’epoca era infatti dipendente della Regione Piemonte, già inquadrato nei ruoli della Direzione Risorse Umane e Patrimonio, ma poi collocato in aspettativa, per essere temporaneamente assunto, in forza della L. n. 285 del 2000, presso l’Agenzia per lo svolgimento dei XX giochi olimpici invernali “Torino 2006”;

l’opposizione avverso tale ordinanza ingiunzione, dapprima accolta dal Tribunale di Torino, è stata poi respinta dalla Corte d’Appello della stessa città, in accoglimento del gravame proposto dall’Agenzia delle Entrate;

la Corte territoriale riteneva infondato l’assunto, posto a base della pronuncia di prime cure, secondo cui l’Agenzia delle Entrate era decaduta dal potere di irrogare la sanzione per superamento del termine di novanta giorni tra l’accertamento dei fatti e la contestazione, stabilito dalla L. n. 689 del 1981, art. 14;

i giudici di secondo grado osservavano come il procedimento avesse fatto seguito, con i tempi riconnessi a verifiche “necessariamente riguardanti una pluralità di casi”, ad una nota della Presidenza del Consiglio del settembre 2008 e fosse stato attuato, nel maggio 2009, in concomitanza con la contestazione, sottolineando come il termine di decadenza andasse misurato non sull’epoca della commissione dei fatti perseguiti, ma su quella del loro accertamento;

nel merito la Corte torinese riteneva che il regime di aspettativa non escludesse la persistenza del rapporto di lavoro pubblico, nè l’applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53 laddove l’insussistenza dell’elemento soggettivo della colpa, addotto dagli opponenti, sarebbe stato da escludere in ragione delle pregresse autorizzazioni richieste dal medesimo dipendente per lavorare presso altri datori;

avverso la sentenza di appello Idest e il D. hanno proposto ricorso per cassazione con tre motivi, poi illustrati da memoria e resistiti da controricorso dell’Agenzia delle Entrate.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

con il primo motivo è denunciata la violazione e/o falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) della L. n. 689 del 1981, art. 14 sostenendosi che il tempo trascorso tra i fatti e la loro contestazione, tenuto anche conto che tutto risultava documentato oltre che certificato a fini reddituali e dunque necessariamente noto all’Agenzia delle Entrate, fosse eccessivo e violasse quindi il termine di novanta giorni stabilito dalla norma citata;

con il secondo motivo si afferma la violazione e/o falsa applicazione, ancora ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 53;

i ricorrenti sottolineano il fatto che il B., all’epoca degli incarichi ricevuti da Idest, era, rispetto al rapporto con la Regione Piemonte, in un regime di aspettativa diverso da quello delle forme tipiche di esso (aspettativa per motivi di studio, di famiglia o per malattia);

tale regime era in effetti appositamente impostato dalla legge al fine di consentire l’assunzione presso un altro ente pubblico (la predetta Agenzia Torino 2006), dal che si sarebbe dovuto desumere che non vi era incompatibilità con lo svolgimento di altre attività di lavoro, senza necessità di autorizzazioni e senza che potesse farsi applicazione delle regole di cui all’art. 53 cit.

doveva poi considerarsi – aggiungevano ancora i ricorrenti – come il fondamento delle previsioni di cui all’art. 53 cit. stesse nell’evitare il dispendio di energie lavorative a discapito della P.A. datrice di lavoro e nell’impedire il manifestarsi di possibili situazioni di conflitto tra l’interesse pubblico e l’interesse sotteso all’attività prestata a favore di terzi, come anche confermato dalla legislazione regionale (L. Regione Piemonte n. 10 del 1989 e in particolare l’art. 1, comma 3) la quale nel disciplinare le situazioni di incompatibilità rispetto allo stato di dipendente regionale prevedeva che a tal fine l’incarico conferito dall’ente privato ingenerasse una situazione di ostacolo rispetto alle mansioni del dipendente pubblico quanto al rispetto dell’orario o al determinarsi di confitti di interesse;

tali fondamenti erano, secondo i ricorrenti, del tutto carenti rispetto al caso di specie, proprio per il fatto che il B. si trovava all’epoca fuori dai ruoli della Regione, così non potendo nè sottrarre ad essa risorse lavorative, nè svolgere incarichi in conflitto con l’interesse della Regione stessa;

il terzo motivo afferma infine la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 sostenendo che l’esistenza di altre richieste di autorizzazione per prestazioni esterne alla P.A. da parte del B., non era nota alla Idest, nè essa era tenuta ad esserne al corrente, mentre il silenzio del B. in proposito era semmai conferma dell’assenza di colpa dei ricorrenti;

il motivo si profondeva poi in ulteriori argomentazioni prospettate al fine di ulteriormente suffragare tale assenza di colpa;

il primo motivo va disatteso;

non è neppure contestato il fatto, affermato dalla Corte territoriale, secondo cui la contestazione è stata svolta immediatamente all’atto dell’accertamento;

il motivo sostiene piuttosto che, risalendo i fatti agli anni 2006 e 2007 e risultando l’accaduto dalla documentazione fiscale oltre che dalla certificazione dei redditi e dalle trattenute operate, l’Agenzia non avrebbe potuto ignorare l’avvenuto conferimento di incarichi, non essendo necessari particolari studi ed approfondimenti per verificare quanto poi contestato;

in tal modo è tuttavia proposta una diversa valutazione di merito sulla tempistica del possibile accertamento, non consona al giudizio di legittimità (Cass. S.U. 25 ottobre 2013, n. 24148), anche perchè le affermazioni della Corte territoriale sono tutt’altro che implausibili nel sottolineare come i controlli fossero scaturiti da una nota della Presidenza del Consiglio del settembre 2008 rispetto alla quale, tenuto conto del fatto che essi imponevano necessariamente accertamenti rispetto ad una pluralità di casi, era ragionevole che l’accertamento presso Idest, con la immediata contestazione, si fosse poi avuto nel successivo mese di maggio 2009, non potendosi d’altra parte attribuire assolutezza al fatto che vi fossero state le denunce fiscali, in quanto l’accertamento oggetto di causa non può essere dedotto dalla mera comunicazione di dati effettuati ad altri fini (fiscali), ma presuppone un intreccio di elementi che solo l’attenzione ed approfondimenti specifici portati sui soggetti interessati può consentire di disvelare;

anche il secondo motivo è infondato, in quanto il fatto che il B. si trovasse, nel 2006 – 2007, in aspettativa presso uno dei suoi datori di lavoro pubblici (egli infatti stava lavorando presso l’Agenzia Torino 2006 che è pacificamente anch’essa ente pubblico) non ha rilievo;

l’aspettativa non fa cessare il rapporto di lavoro e la norma non contiene una distinzione a seconda dello stato del rapporto stesso, mentre l’appartenere comunque ancora del dipendente ad una pubblica amministrazione, in questo caso non solo l’Agenzia, ma anche la Regione, non fa cessare i rischi di conflitto di interessi o di possibile utilizzazione di entrature cui la norma, insieme ad altri interessi, è preposta a prevenire;

il terzo motivo fa infine leva su circostanze di fatto (sui rapporti tra Idest ed il B., con dettagli sui reciproci comportamenti: v. pag. 20 del ricorso), finalizzate a dimostrare l’assenza di colpa rispetto all’illecito;

di tali circostanze non vi è però menzione nella sentenza impugnata (la quale argomenta solo sul rilievo da attribuire alla pregressa richiesta di autorizzazioni da parte del B. per altre attività), nè i ricorrenti indicano – come era loro onere (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675) – come e quando i corrispondenti fatti fossero stati introdotti nel processo, sicchè non vi è dimostrazione che non si tratti di profili nuovi e come tali inammissibili;

pertanto, anche ove si volesse ritenere che l’argomento della Corte territoriale sul rilievo delle pregresse autorizzazioni sia non congruo, non potrebbe dirsi che il motivo dimostri la concreta sussistenza di profili anche solo ritualmente idonei ad assolvere all’onere probatorio gravante sugli opponenti;

essendo pacifico infatti che, in tema di sanzioni amministrative, la L. n. 689 del 1981, art. 3 pone una presunzione di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, gravando sul trasgressore l’onere di provare di aver agito senza colpa (da ultimo, v. Cass. 26 settembre 2019, n. 24081; Cass. 18 aprile 2018, n. 9546);

il ricorso va quindi rigettato, con regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.500,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 12 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020

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