Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6630 del 14/03/2017

Cassazione civile, sez. VI, 14/03/2017, (ud. 08/02/2017, dep.14/03/2017),  n. 6630

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4170/2014 proposto da:

MINESTRAIO DI C.M. & C. S.N.C., in persona del legale

rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NICOTERA 29,

presso lo studio dell’avvocato MARCO CATELLI, che la rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CLAUDIO SAVELLI, giusta procura in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALFREDO

CASELLA, 19, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO MANFREDI, che

lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MANUEL PIRAS giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 833/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 7/8/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata dell’8/2/2017 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

– la Corte di appello di Bologna, in riforma della decisione del Tribunale di Rimini, accoglieva il gravame di M.M. e respingeva l’opposizione proposta dalla Minestraio di C.M. & C. s.n.c. avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dal Martini per il pagamento della somma di Euro 5.526,09 a titolo di differenze retributive. Superava la Corte territoriale l’eccezione di inammissibilità dell’appello e riteneva che, a fronte delle buste paga prodotte dall’originario ricorrente a fondamento della richiesta di decreto ingiuntivo, avrebbe dovuto la società datrice provare l’avvenuto pagamento;

– avverso tale sentenza la Minestraio di C.M. & C. s.n.c. ricorre per cassazione con tre motivi;

– M.M. resiste con controricorso;

– la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;

– la società ricorrente ha depositato memoria;

– il Collegio ha deliberato di adottare una motivazione semplificata.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

– con il primo motivo la società deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c., in relazione alla ritenuta infondatezza dell’eccezione di inammissibilità dell’appello formulata dall’appellata;

– il motivo è inammissibile e comunque manifestamente infondato;

– la ricorrente non ha riprodotto nè allegato al ricorso per cassazione l’atto di appello in relazione al quale incentra le censure, limitandosi di questo ad evidenziare la lacunosità e l’assenza delle indicazioni delle parti del provvedimento appellate e le modifiche richieste;

– la suddetta carenza non è colmabile attraverso il richiamo al contenuto della sentenza impugnata ed alla parte in cui si legge che “il ricorso in appello col primo motivo denuncia la violazione dell’art. 2697 c.c.”;

– secondo la giurisprudenza di questa Corte, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. (ed analogamente quella dell’art. 434 c.p.c.) conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte – cfr. Cass. 10 gennaio 2012, n. 86; si veda anche Cass. 20 luglio 2012, n. 12664 che si è così espressa: “Anche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione errores in procedendo, in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di Cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali”. (In applicazione di questo principio, la S.C. ha affermato che il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all’atto medesimo); si veda in senso conforme anche la più recente Cass. 17 gennaio 2014, n. 896 -. Occorre quindi che l’atto di appello sia trascritto in modo completo (o quantomeno nelle parti salienti) nel ricorso, dovendosi ritenere, in mancanza, che la Corte non sia posta in grado di valutare la fondatezza e la decisività delle censure, in quanto non abilitata a procedere all’esame diretto degli atti del merito, con conseguente rigetto del relativo motivo di ricorso (cfr. Cass. 12 maggio 2010, n. 11477);

– peraltro, nella specie, come si evince dalla sentenza impugnata, con l’atto di appello la parte aveva inteso censurare la decisione di primo grado per erronea applicazione dell’onere della prova (la denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., si ricavava in modo inequivoco pur senza l’espressa indicazione di tale norma), per il valore attribuito alle firme sulle buste paga e per l’erronea ricostruzione del ruolo del sig. M.T., il che consente di ritenere che, contrariamente all’assunto della società, l’atto di gravame superasse il preliminare vaglio di ammissibilità;

– quanto alla asserita mancata esplicitazione dei “capi” della pronuncia che si intendeva appellare, sempre dalla sentenza impugnata si rileva che la decisione di primo grado conteneva un’unica statuizione di merito e cioè il rigetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo ed essa era stata appellata con la richiesta di riforma totale, sicchè nessun’altra indicazione poteva legittimamente pretendersi;

– la Corte bolognese ha verificato, inoltre, la sussistenza, in concreto, del rispetto dei requisiti di cui dell’art. 434 c.pc.., nn. 1 e 2, nella formulazione introdotta nel 2012, e tale statuizione non ha formato oggetto di specifico rilievo da parte della ricorrente;

– con il secondo motivo la società deduce la violazione dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 4 del 1953, art. 1, in relazione al valore attribuito ai prospetti paga allegati dal ricorrente a fondamento del ricorso per decreto ingiuntivo. Assume che la sottoscrizione di prospetti paga da parte del lavoratore attestava l’avvenuto pagamento delle somme ivi indicate;

– il motivo, oltre a presentare profili di inammissibilità, è manifestamente infondato;

– la ricorrente non allega al ricorso per cassazione i prospetti paga che assume integranti la prova dell’avvenuto pagamento nè di tali prospetti riproduce il contenuto, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso;

– in ogni caso, è stato da questa Corte più volte affermato che l’obbligo, previsto a carico del datore di lavoro dalla L. 5 gennaio 1953, n. 4, art. 1, di consegnare ai lavoratori dipendenti all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l’indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non attiene alla prova dell’avvenuto pagamento, per la quale non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso, ove il lavoratore ne contesti la corrispondenza alla retribuzione effettivamente erogata, l’onere dimostrativo di tale non corrispondenza può incombere sul lavoratore soltanto in caso di provata regolarità della documentazione liberatoria e del rilascio di quietanze da parte del dipendente, spettando in caso diverso al datore di lavoro la prova rigorosa dei pagamenti in effetti eseguiti – cfr. Cass. 4 febbraio 1994, n. 1150; Cass. 24 giugno 1998, n. 6267; Cass. 29 maggio 2001, n. 7310 -. E’ stato ulteriormente precisato che le buste paga, ancorchè sottoscritte dal lavoratore con la formula “per ricevuta”, costituiscono prova solo della loro avvenuta consegna ma non anche dell’effettivo pagamento, della cui dimostrazione è onerato il datore di lavoro, attesa l’assenza di una presunzione assoluta di corrispondenza tra quanto da esse risulta e la retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore – cfr. Cass. 24 giugno 2016, n. 13150; si veda anche in senso conforme Cass. 1 settembre 2015, n. 17413 -.

– la Corte territoriale ha fatto corretta applicazione degli indicati principi laddove ha affermato che dovesse gravare sulla società datrice di lavoro la prova dell’avvenuto pagamento;

– con il terzo motivo la società deduce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’incapacità a testimoniare di M.T., padre del ricorrente;

– il motivo è incoerente rispetto al decisum della Corte territoriale, incentrato sulle risultanze della documentazione in atti (prospetti paga e ricevute di versamenti bancari, rispetto ai quali non era stata fornita dalla società adeguata prova contraria) e privo del benchè minimo riferimento alla deposizione testimoniale del suddetto M.T.;

– in conclusione, la proposta va condivisa e il ricorso va rigettato;

– la regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

– va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2017.

Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2017

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