Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6627 del 09/03/2020

Cassazione civile sez. II, 09/03/2020, (ud. 05/12/2019, dep. 09/03/2020), n.6627

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15644-2016 proposto da:

N.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 114/B,

presso lo studio dell’avvocato GIOVAMBATTISTA FERRIOLO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FERDINANDO EMILIO

ABBATE giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il

14/12/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/12/2019 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

udito il Pubblico Ministero nella persona del Sostituto Procuratore

Generale, Dott. MISTRI CORRADO, che ha concluso per il rigetto del

ricorso;

udito l’Avvocato Giovambattista Ferriolo per la ricorrente.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE

1. N.P., con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Firenze in data 27.2.2015, chiese la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento dell’indennizzo, per la irragionevole durata di un precedente giudizio di equo indennizzo, intrapreso dinanzi alla Corte d’Appello di Perugia e che si era protratto per circa quattro anni, comprensivi della fase di merito dinanzi alla Corte d’Appello di Perugia, del successivo giudizio in cassazione e della fase di esecuzione dinanzi al Tribunale di Roma.

Il Consigliere delegato della Corte d’Appello, con decreto del 20 marzo 2015 rigettava il ricorso, ravvisando, a fronte di una durata ragionevole del processo, individuata in due anni e sei mesi, che la durata complessiva del procedimento, comprensivo della fase di esecuzione non avesse superato il detto termine in maniera eccedente i sei mesi, non potendosi tenere conto del periodo di tempo trascorso tra la definizione del processo in cassazione e la successiva notifica del pignoramento.

A seguito di opposizione della N., la Corte d’Appello, in composizione collegiale, con decreto n. 1957 del 14/12/2015, confermava il rigetto della domanda.

In primo luogo riteneva corretta la valutazione del consigliere delegato quanto all’impossibilità di poter prendere in considerazione ai fini del computo della durata del processo il lasso di tempo trascorso tra la definizione del processo di cognizione e la successiva notifica del pignoramento.

Inoltre, riteneva che fosse necessario in ogni caso tenere distinte la fase di cognizione da quella di esecuzione, con la conseguenza che in relazione al ritardo derivante dal processo di cognizione, la parte era decaduta per il decorso del termine semestrale di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 4.

Essendo quindi da esaminare la sola domanda correlata al processo esecutivo, la stessa era infondata, attesa la rapida definizione della procedura azionata dalla ricorrente, il che rendeva superfluo anche statuire sull’eccezione di incompetenza sollevata dalla difesa erariale.

Infine, la Corte distrettuale poneva le spese di lite a carico dell’originaria ricorrente, tenuto conto del valore della domanda.

2. Per la cassazione di tale decreto N.P. ha proposto ricorso, sulla base di due motivi illustrati da memorie.

Il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso.

3. Il primo motivo di ricorso principale lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, artt. 2,3 e 4 nella parte in cui i giudici di merito hanno escluso che potesse considerarsi ai fini della irragionevole durata del processo anche il periodo di tempo trascorso tra la data di pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione e la definizione del processo esecutivo.

Si evidenza che il decreto impugnato è pervenuto al rigetto della domanda anche in ragione della ravvisata decadenza della ricorrente per la mancata proposizione della domanda di equa riparazione nel termine di sei mesi dalla definizione del processo di cognizione, con argomentazione che secondo la Corte d’Appello costituisce un’autonoma ragione dirimente e convergente con quella ravvisata dal giudice opposto per respingere la domanda.

Quanto a quest’ultima affermazione si sostiene che la stessa sia erronea in quanto contrastante con la giurisprudenza di questa Corte che ha ritenuto che sia necessario valutare unitariamente la fase di cognizione e quella di esecuzione, ai fini della verifica del rispetto del termine di decadenza.

Quanto invece alla prima ratio decidendi si sostiene che è erronea l’affermazione secondo cui la fase di esecuzione, suscettibile di essere presa in esame ai fini della L. n. 896 del 2001 sia solo quella che inizia con la notifica del pignoramento, occorrendo invece valorizzare i principi affermati dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 6312/2014 in punto di unitarietà tra fase di cognizione e fase di esecuzione. Per tale ipotesi, pur tenendo conto del periodo di sei mesi e cinque giorni assegnato all’Amministrazione per provvedere al pagamento del debito scaturente dalla sentenza che accolga la domanda di equo indennizzo, la durata complessiva deve tenere conto come dies a quo del giorno a partire dal quale diviene esecutivo il provvedimento che accorda l’indennizzo.

Inoltre non deve trascurarsi che ai sensi del D.L. n. 669 del 1996, art. 14 è stato concesso alle Pubbliche Amministrazioni un termine di 120 giorni dalla notifica del titolo esecutivo che preclude prima del suo decorso la notifica del precetto, termine che deve essere preso in esame anche ai fini oggetto di causa.

3.1 Il motivo è infondato quanto alla censura che investe la necessità di computare anche il periodo di tempo che fa seguito alla definizione della fase di cognizione e precede l’inizio dell’esecuzione.

Ritiene il Collegio che debba darsi continuità al principio di recente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 19833/2019, secondo cui nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo L. n. 89 del 2001, ex art. 2, non va considerato come “tempo del processo” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo.

In tale sentenza Le Sezioni Unite, hanno fornito risposta all’ordinanza interlocutoria di questa Sezione (n. 802/2019), offrendo una ricostruzione del sistema che questo Collegio ritiene di dover condividere.

La Corte, dopo aver richiamato la ricostruzione dei precedenti di legittimità offerta dall’ordinanza interlocutoria, ha sottolineato come una valutazione diacronica di tali pronunzie consenta di affermare che le Sezioni Unite abbiano fin dall’inizio avuto come obiettivo la conformazione di un sistema di protezione del diritto alla ragionevole durata del processo destinato progressivamente ad armonizzarsi con la disciplina concretamente declinata dall’art. 6 CEDU e dal diritto vivente della Corte Edu.

In primo luogo, l’introduzione, all’interno della L. n. 89 del 2001, di un termine, previsto a pena di decadenza, di sei mesi per la proposizione dell’azione “Pinto”, decorrente secondo quanto previsto dall’art. 4 qui in rilievo nella formulazione modificata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 55, comma 1, lett. d), conv. nella L. n. 134 del 2012, pure oggetto di una pronunzia parzialmente caducatoria resa dalla Corte costituzionale (sent. n. 88/2018) – dalla definitività della decisione che conclude il procedimento, ha imposto alla Corte di delineare i rapporti fra fase di cognizione e fase di esecuzione ai fini della ragionevole durata del processo.

Quindi, percorso l’iter giurisprudenziale succedutosi nel tempo, le Sezioni Unite hanno richiamato le sette sentenze del 19 marzo 2014 (dalla n. 6312 alla 6318) delle stesse S.U. con le quali è stata riconosciuta l’unità funzionale fra fase di cognizione e fase esecutiva, e proprio con specifico riferimento ai giudizi di equo indennizzo, ritenuti essere degli ordinari processi di cognizione soggetti all’esigenza di una definizione in tempi ragionevoli, la quale è tanto più pressante in quanto finalizzata all’accertamento della violazione di un diritto fondamentale nel giudizio presupposto, la cui lesione genera di per sè una condizione di sofferenza e un patema d’animo che sarebbe ingiustificato non riconoscere anche per i procedimenti di cui alla L. n. 89 del 2001.

Con tali sentenze le Sezioni Unite affermarono che in un’ottica costituzionale e convenzionale – protesa a realizzare l’interesse della parte alla concreta e piena soddisfazione del diritto riconosciuto giudizialmente, i due processi (di merito e di esecuzione) non potevano che considerarsi avvinti all’interno di un unico procedimento “(…) che, cioè, ha inizio con l’accesso al giudice e fine con l’esecuzione della decisione, definitiva ed obbligatoria, dallo stesso pronunciata in favore del soggetto riconosciuto titolare della situazione giuridica soggettiva sostanziale di vantaggio fatta valere nel processo medesimo”.

Pertanto, laddove la decisione presa in sede di cognizione non sia stata spontaneamente ottemperata dall’obbligato ed il titolare abbia scelto di promuovere l’esecuzione del titolo così ottenuto (fase processuale dell’esecuzione forzata o dell’ottemperanza) – la garanzia costituzionale di effettività della tutela giurisdizionale e l’art. 6, par. 1, della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, impongono di considerare tale articolato e complesso procedimento come un unico processo scandito, appunto, da fasi consequenziali e complementari.

Quindi, le sentenze del 2014 hanno ritenuto che in caso di ritardo della P.A. nel pagamento delle somme riconosciute in forza di decreto di condanna “Pinto” definitivo, pronunciato ai sensi della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 3, l’interessato, ove il versamento delle somme spettanti non sia intervenuto entro il termine dilatorio di mesi sei e giorni cinque dalla data in cui il provvedimento è divenuto esecutivo, ha diritto – sia che abbia esperito azione esecutiva per il conseguimento delle somme a lui spettanti, sia che si sia limitato ad attendere l’adempimento spontaneo della P.A. – ad un ulteriore indennizzo commisurato al ritardo nel soddisfacimento della sua pretesa eccedente al suddetto termine nonchè, ove intrapresa, all’intervenuta promozione dell’azione esecutiva, che, tuttavia, può essere fatto valere esclusivamente con ricorso diretto alla CEDU (in relazione all’art. 41 della Convenzione EDU) e non con le forme e i termini della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 1, la cui portata non si estende alla tutela del diritto all’esecuzione delle decisioni interne esecutive.

E’ poi intervenuta la sentenza n. 9142/2016, sempre delle Sezioni Unite che ha temperato il principio dell’unitarietà delle fasi (di cognizione ed esecuzione), riconoscendolo unicamente nel caso in cui la parte di un processo civile concluso con il riconoscimento di un diritto avesse iniziato entro il termine di decadenza previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, la fase esecutiva.

In tal modo il termine per promuovere il giudizio Pinto poteva farsi coincidere con la definitività della fase esecutiva, decorrendo dalla piena soddisfazione del diritto stesso, purchè tale fase fosse iniziata prima della scadenza del termine semestrale per promuovere l’azione Pinto in seguito alla definitività della sentenza che accerta l’esistenza del diritto. In mancanza di attivazione della fase esecutiva nel termine di decadenza previsto dall’art. 4, non era quindi possibile sommare, ai fini dell’individuazione della ragionevole durata del processo, il tempo occorso per la definizione della fase di cognizione, potendosi invece profilare un’irragionevole durata del processo unicamente per la durata della fase esecutiva.

Tuttavia, successivamente è intervenuta la sentenza della Corte Edu nel caso Bozza c. Italia resa il 14 settembre 2017, la quale nel fornire risposta al problema circa l’incidenza della fase esecutiva ai fini del rispetto del termine decadenziale rapportato alla definizione della fase di cognizione, ha ricordato come la propria giurisprudenza riconosca l’esecuzione quale parte integrante del “processo” ai sensi dell’art. 6 CEDU affermando testualmente che “…. il diritto a un tribunale sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva e vincolante rimanesse inoperante a scapito di una delle parti. L’esecuzione di una sentenza, indipendentemente da quale giudice l’abbia pronunciata, deve essere dunque considerata come facente parte integrante del processo ai sensi dell’art. 6 (si veda anche Bourdov c. Russia (n. 2), ric. n. 33509/04, p. 65, CEDU 2009)”.

Tuttavia la Corte Edu individua una netta differenza tra debitore – privato e debitore-pubblica amministrazione, in quanto nel primo caso quando il privato o la persona sono inadempienti, spetta agli Stati contraenti garantire l’assistenza necessaria affinchè il diritto rivendicato trovi la sua effettiva realizzazione, potendo questi essere considerati responsabili per quanto riguarda l’esecuzione di una sentenza da parte di una persona di diritto privato soltanto se le autorità pubbliche implicate nelle procedure di esecuzione non danno prova della diligenza richiesta o se impediscono l’esecuzione.

Nel secondo, invece, “il privato che ha ottenuto una sentenza contro quest’ultimo non deve di norma avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata, essendo sufficiente che la sentenza sia regolarmente notificata all’autorità nazionale interessata o che siano espletati alcuni adempimenti processuali di natura formale.

Pertanto, avuto riguardo alla fattispecie sottoposta al suo esame, la Corte EDU ha ritenuto che, una volta divenuta definitiva la decisione del tribunale, in assenza di sua notifica, a partire da tale data, l’autorità convenuta sapeva o era tenuta a sapere che doveva versare alla ricorrente la somma dovuta, così che la ricorrente non era tenuta a intentare una qualsiasi azione di esecuzione, poichè si trattava, nella fattispecie, di una sentenza ottenuta contro lo Stato.

La Corte Edu ha altresì esaminato la sentenza delle Sezioni Unite n. 9142 del 2016, osservando che era stato “operato (…) un capovolgimento giurisprudenziale in materia(…)”. E benchè i fatti all’origine della sentenza n. 9142/2016 potessero ritenersi simili ai fatti esaminati dal giudice di Strasburgo, la Corte ha ritenuto che “pur non essendo perfettamente allineata ai principi fissati nella sua giurisprudenza, questa sentenza si prestava a una lettura globale secondo la quale “è possibile considerare il procedimento come un tutt’uno, ai fini del calcolo della durata (del procedimento stesso)”.

I principi della sentenza Bozza, possono essere quindi così riassunti:

a) la fase processuale di cognizione e quella di esecuzione hanno natura unitaria rispetto alla parte che abbia ottenuto il riconoscimento del diritto all’indennizzo nei confronti dello Stato per l’irragionevole durata del processo;

b) il privato che abbia ottenuto il riconoscimento di un credito da una sentenza emessa contro lo Stato-debitore non ha alcun onere, di norma, di avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata;

c) la tutela accordata dall’art. 6, par. 1, CEDU alla ragionevole durata del processo va riconosciuta in modo pieno ed integrale anche se la parte abbia attivato la domanda indennitaria considerando come epoca finale quella della decisione definitiva resa in sede esecutiva.

Alla luce della piena efficacia e vincolatività della decisione della Corte Edu, ricavabile dal successivo comportamento del Governo italiano in analoghe controversie dinanzi alla Corte EDU, le Sezioni Unite nella sentenza del 2019 hanno sostenuto che l’approdo al quale era giunta la sentenza n. 9142/2016 debba essere in parte rivisitato, così che il raccordo fra fase di cognizione ed esecutiva introdotta in quell’occasione attraverso il meccanismo della proposizione dell’azione esecutiva entro il termine semestrale dalla definitività del giudizio di cognizione non può trovare alcuna giustificazione se il soggetto debitore è lo Stato, essendo questi tenuto ad adempiere l’obbligazione pecuniaria senza che sia possibile individuare una condotta abusiva da parte del creditore che rimanga inerte, in attesa dell’adempimento spontaneo del debitore – Stato.

Quindi il concetto di “decisione definitiva” al quale si aggancia il termine di decadenza previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4, deve essere riferito alla definitività della decisione che conclude la fase di esecuzione eventualmente azionata dal creditore, senza che l’inerzia eventualmente protrattasi fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio di quella esecutiva possa ridondare in pregiudizio del creditore, impedendogli di ottenere l’indennizzo integrale per l’irragionevole durata anche del processo di merito a suo tempo definito.

L’unitarietà incondizionata fra le fasi di cognizione e di esecuzione ai fini della individuazione dell’irragionevole durata del processo affermata nel 2014 va circoscritta ai soli casi nei quali il soggetto debitore coincide con lo Stato.

Sebbene nella fattispecie oggetto del presente ricorso si controverta di un ricorso di equo indennizzo per il ritardo di una precedente procedura di cui alla L. n. 89 del 2001, il punto oggetto delle censure non attiene all’individuazione del termine di decadenza, ma all’incidenza sulla durata del processo anche del periodo di tempo in cui, in assenza di un’iniziativa esecutiva del creditore, lo Stato sia rimasto inerte nel soddisfare il proprio obbligo.

Ed invero le Sezioni Unite del 2019 hanno affermato che ai fini della verifica del termine di decadenza, l’inizio della fase esecutiva entro il termine di sei mesi dalla definitività della fase di cognizione per consentire la valutazione unitaria del ritardo, come affermato nella sentenza n. 9142/2016, deve avvenire nei soli casi in cui il soggetto debitore di un obbligo accertato giudizialmente non coincide con lo Stato.

Tuttavia la ricondotta unità fra le due fasi nel caso dello Stato – debitore dell’indennizzo Pinto non comprende, ai fini del riconoscimento del tempo processo, anche il tempo relativo all’inerzia che il creditore ha mantenuto fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio del procedimento esecutivo.

Invero come già chiarito dalle Sezioni Unite nelle sette sentenze del 2014, si tratta di un autonomo pregiudizio che, pur risultando protetto dall’art. 6, par. 1 CEDU, riguarda il ritardo nell’esecuzione della decisione favorevole eccedente lo spatium adimplendi di mesi sei e giorni 5 e che è estraneo alla tutela approntata dal rimedio interno introdotto dalla legge c.d. Pinto, indirizzata inequivocabilmente a riconoscere un indennizzo per i tempi del processo, siano essi collegati al protrarsi irragionevole della fase di cognizione che di quella esecutiva, ma non idoneo, in assenza di un apposito rimedio interno, ad offrire tutela per il diverso ed autonomo pregiudizio sofferto con riguardo al ritardo nell’esecuzione della decisione favorevole.

Trattasi di conclusione che trova il conforto anche della giurisprudenza convenzionale, come risulta dalla sentenza Gaglione e a. c. Italia – Corte dir. uomo, 21 dicembre 2010 che ne ha riconosciuto la ricorribilità immediata innanzi alla Corte di Strasburgo, senza dovere proporre un autonomo giudizio in ambito interno (cfr. anche sent. Simaldone c. Italia, p. 44) per ottenere il relativo indennizzo, riconoscendolo peraltro in modo forfetario e predeterminato nella misura di Euro 200,00, così dimostrando la diversa natura rispetto a quella relativa al pregiudizio connesso alla non ragionevole durata del processo.

A supporto di tale convincimento è stata apportata anche la circostanza che il pregiudizio correlato alla tutela apprestata dalla L. n. 89 del 2001, è quello relativo al processo svolto davanti ad un giudice, non quello che attiene ad un ritardo attribuibile allo Stato amministrazione, come si è detto autonomamente risarcibile (cfr. Cass. S.U. n. 4429/2014, con riferimento ad un procedimento amministrativo precedente all’instaurazione del processo).

Conforta tale conclusione anche la previsione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 quater, che esclude dalla somma delle due fasi (come già affermato dalle sentenze delle S.U. del 2014) i periodi intermedi.

Le Sezioni Unite hanno poi avuto modo di affrontare la questione attinente alla rilevanza del termine di 120 giorni di cui al D.L. n. 31 dicembre 1996, n. 669, art. 14, conv. dalla L. 28 febbraio 1997, n. 30, ai fini della durata ragionevole del processo, osservando che detto termine, pur ponendosi in una prospettiva diversa rispetto alla specificità della procedura liquidatoria degli indennizzi per equa riparazione della non ragionevole durata del processo rispetto alle procedure di pagamento degli altri debiti della p.a. (Corte Cost. n. 135/2018) laddove impedisce prima del suo decorso l’azione esecutiva, potrà eventualmente rilevare come ritardo nell’esecuzione, dando luogo all’indennizzo autonomamente richiedibile innanzi alla Corte Edu, non potendo in alcun modo produrre un effetto incidente sul tema della ragionevole durata del processo successivamente promosso nè sullo spatium adimplendi che la giurisprudenza nazionale, in modo coerente con quella della Corte Edu, ha riconosciuto allo Stato per l’esecuzione del pagamento dell’indennizzo.

Ancora, quanto alla questione dell’inizio del procedimento esecutivo, le Sezioni Unite hanno ribadito che non può che rilevare la data della notifica del pignoramento ai sensi dell’art. 491 c.p.c., come del resto già riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte – Cass. n. 12690/2017 – non potendo certo riconoscersi alcun valore alla data di notifica del titolo esecutivo e/o del precetto, proprio in relazione alla natura neutra di tali atti rispetto all’inizio della fase esecutiva che va invece collegata alla disposizione processuale presente nel codice di procedura civile appena richiamata.

Infine, quanto alla piena equiparabilità del giudizio di ottemperanza al procedimento esecutivo, è stata data risposta positiva al quesito, atteso che la pronunzia adottata in tema di indennizzo Pinto, pur non avendo la forma di sentenza, ha pienamente e sostanzialmente il contenuto di un provvedimento decisorio in materia di diritti soggettivi, idoneo ad assumere valore ed efficacia di giudicato, ai fini della ammissibilità del ricorso per ottemperanza (assumendosi altresì l’equiparabilità del giudizio di ottemperanza a quello esecutivo – cfr. Cass., S.U., nn. 27365 e 27364 del 2009).

Ne discende che, poichè nel computo della durata del processo di cognizione ed esecutivo, da considerare unitariamente ai fini del riconoscimento del diritto all’indennizzo L. n. 89 del 2001, ex art. 2, non va considerato come “tempo del processo” quello intercorso fra la definitività della fase di cognizione e l’inizio della fase esecutiva, quest’ultimo invece potendo eventualmente rilevare ai fini del ritardo nell’esecuzione come autonomo pregiudizio, allo stato indennizzabile in via diretta ed esclusiva, in assenza di rimedio interno, dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, il motivo si rivela come infondato, e deve quindi essere rigettato.

Ed invero, il giudice di appello, nel considerare unitariamente la fase di cognizione e quella di esecuzione, ai fini dell’individuazione del termine complessivo di durata del processo si è pienamente uniformato ai principi espressi in punto di unitarietà delle fasi sopra fissati, escludendo che la durata del processo ulteriore a quella indicata come ragionevole (in anni due mesi sei e giorni cinque) superasse la soglia minima prevista dalla L. n. 89 del 2001, art. 2 bis.

Parimenti coerente è la decisione gravata con la ricostruzione operata dalle Sezioni Unite, a proposito dell’irrilevanza del tempo d’inerzia protrattosi fra la definitività del giudizio di cognizione e quella dell’esecuzione, avendo la Corte di appello computato il tempo delle due fasi processuali, essendo tale conclusione ancora una volta in piena sintonia con il principio dell’irrilevanza, quale “tempo del processo”, del lasso temporale intercorso fra le due fasi, non potendo avere alcun rilievo il termine di 120 giorni di cui al D.L. n. 699 del 1996, art. 14, conv. dalla L. n. 30 del 1997.

Il rigetto della censura che investe la detta ratio rende poi inammissibile per difetto di interesse il motivo che investe l’altra ratio decidendi (rappresentata dalla decadenza del diritto all’indennizzo per la durata del processo di cognizione), posto che la decisione gravata rimarrebbe comunque supportata da una ratio non scalfita dalle critiche della ricorrente.

4. Con il secondo motivo di ricorso la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., e del D.M. n. 55 del 2014, censurando il decreto impugnato per non aver disposto la compensazione delle spese di giudizio dovendo tener conto del mutamento giurisprudenziale su questioni dirimenti.

Anche tale motivo di ricorso è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ritenere che in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione – cfr., da ultimo, Cass. n. 11329/2019.

Nè tale statuizione può determinare un vulnus rispetto ai principi espressi dalla Corte Edu che si è limitata a riconoscere il diritto della parte vittoriosa al rimborso delle spese processuali che si affrontano quando viene presentato un ricorso se il loro ricorso è considerato fondato (cfr. Corte Edu, Scordino c. Italia, cit., p. 201).

A tale principio si è attenuto il giudice di appello, addossando alla parte soccombente il peso delle spese processuali.

Quanto all’ulteriore deduzione secondo cui, la liquidazione sarebbe erronea in quanto effettuata in misura eccessiva, si rileva che non si contesta il superamento dei massimi tariffari, il che determina l’inammissibilità della censura, non essendo denunciabile la scelta che resti in ogni caso contenuta tra i minimi ed i massimi tariffari (cfr. da ultimo Cass. n. 12537/2019; Cass. n. 2386/2017).

Sulla base di tali considerazioni, il ricorso principale va rigettato.

5. Attesa la novità della questione di diritto sottesa ai rapporti tra giudizio di cognizione e giudizio di esecuzione, allorquando è debitrice un’amministrazione statale, che ha richiesto l’intervento delle Sezioni Unite, si ritiene che sussistano le condizioni per compensare le spese.

6. Non sussistono i presupposti di legge sul raddoppio del contributo unificato (Cass. n. 2273/2019) come si desume da D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso principale.

Compensa le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020

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