Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6626 del 06/04/2016


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 6626 Anno 2016
Presidente: PICCININNI CARLO
Relatore: VELLA PAOLA

SENTENZA

sul ricorso 2449-2010 proposto da:
IANNUCCI MARCO in proprio, IANNUCCI NICOLA MAURIZIO,
GRUPPO IANNUCCI SRL IN LIQUIDAZIONE in persona del
legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliati

in ROMA VIA TAGLIAMENTO 55, presso lo

studio dell’avvocato NICOLA DI PIERRO, che li
2015
3332

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIUSEPPE
SCHIUMA giusta delega a margine;

– ricorrenti contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro
tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI

Data pubblicazione: 06/04/2016

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende;

controricorrente

avverso la sentenza n. 52/2009 della
COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di PESCARA, depositata il

udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 10/11/2015 dal Consigliere Dott. PAOLA
VELLA;

udito per il ricorrente l’Avvocato DI PIERRO che ha
chiesto l’accoglimento del ricorso e della memoria
depositati;
udito per il controricorrente l’Avvocato TIDORE che ha
chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. SERGIO DEL CORE che ha concluso per il
rigetto del ricorso.

19/02/2009;

RITENUTO IN FATTO
Con avviso di rettifica notificato il 19.3.2005, l’Agenzia delle entrate,
nonostante l’adesione della società “GRUPPO IANNUCCI di Marco e Nicola
Iannucci s.n.c.” (ora “GRUPPO IANNUCCI s.r.l. in liquidazione”) al condono
tombale ex art. 9, L n. 289/02, recuperava a tassazione l’Iva da essa portata
indebitamente in detrazione nell’anno 2002 (per complessivi C 464.635,00) con
riguardo a due operazioni: a) l’acquisto di un immobile dalla “Mobili Apollo s.r.l.”
in data 5-17.12.2002, non utilizzato ma concesso in locazione ad una terza

la congruità del corrispettivo e l’effettività della cessione); b) l’affitto dell’azienda
della società “Fratelli Iannucci s.n.c.”, con contratto di durata ventennale poi
risolto (del quale si contestava la fittizietà).
La sentenza con cui la Commissione Tributaria Provinciale di Chieti aveva
accolto il ricorso della contribuente, limitatamente alla prima operazione, veniva
Impugnata tanto dall’Ufficio, con appello principale, quanto dalla contribuente,
con appello incidentale finalizzato all’annullamento dell’avviso anche con
riguardo alla seconda operazione.
La Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo accoglieva l’appello
principale dell’Ufficio, per difetto di inerenza dell’acquisto dell’immobile ai sensi
dell’art. 19, D.P.R. n. 633/72, in quanto: 1) la contribuente aveva come oggetto
sociale l’attività di “segheria, produzione di Imballaggi in legno, commercio
all’ingrasso di autoveicoli nuovi ed usati”; 2) il venditore “Mobili Apollo s.r.l.”
aveva la medesima compagine sociale dell’acquirente; 3) la contribuente non
aveva fornito una valida dimostrazione dell’asserito utilizzo dell’immobile come
deposito di auto usate e d’epoca, prima della sua concessione in locazione alla
società “Tiesse CO s.r.l.” (e peraltro nel contratto di locazione esso veniva
descritto come “ad oggi non utilizzato”); 4) l’immobile non poteva ritenersi
strumentale per natura, dovendosi necessariamente verificare, in concreto, la
sua “effettiva e funzionale utilizzazione nello svolgimento della tipica attività
dell’impresa”.
Respingeva invece l’appello incidentale della contribuente, confermando la
valutazione di inesistenza dell’operazione di affitto di azienda, in quanto: 1) il
contratto di affitto del 30.12.2002 prevedeva una durata ventennale, ma la
contribuente aveva versato in unica soluzione alla concedente “F.11i lannucci
s.n.c.” l’importo complessivo della locazione (C 960.609,60) su fattura anticipata
n. 158/02, portando in detrazione l’Iva di C 160.101,60 nell’anno 2002; 2)
tuttavia, già in data 30.6.2003 la concedente aveva emesso nota di credito per
lo storno dei canoni non ancora maturati e non pagati (per un totale di 234 su
240), e poi in data 31.12.2003 aveva emesso fattura relativa al periodo luglioud. 10 novembre 2015

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società in data 13.11.2003 (in relazione al quale venivano contestate l’inerenza,

dicembre 2003, ma alla fine del 2004 il contratto era stato consensualmente
risolto; 3) trattandosi di prestazioni di servizio ex art. 3, comma 2, n. 1), D.P.R.
n. 633/72, esse dovevano considerarsi effettuate all’atto del pagamento del
corrispettivo, ai sensi dell’art. 6, comma 3, dello stesso D.P.R.; 4) in ogni caso
non era applicabile il quarto comma dell’art. 6 cit., in quanto, trattandosi di
fatturazione per operazioni inesistenti, doveva applicarsi la regola di cui all’art.
21, comma 7, D.P.R. n. 633/72, per cui l’imposta era dovuta per l’intero
ammontare indicato o corrispondente alle Indicazioni della fattura; 5)

fattura n. 158/02, né ricorrevano i presupposti di cui all’art. 26, D.P.R. n.
633/72, per l’emissione della nota di credito, i quali peraltro dovevano ritenersi
esclusi ipso iure proprio per l’acclarata inesistenza dell’operazione.
Per la cassazione della sentenza d’appello n. 52/10/09 del 19.2.2009 la
contribuente ha proposto ricorso affidato a sei motivi (per il secondo dei quali
facendo istanza subordinata di rinvio pregiudiziale alla Corte Giustizia UE).
L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo di ricorso, formulato con riguardo all’operazione di
acquisto dell’opificio industriale, la società contribuente deduce la «violazione e
falsa applicazione dell’art. 9, comma 10, lett. a) Legge 289/2002 ai sensi dell’art.
360 comma 1 punto 3 c.p.c.».
1.1. Il correlato quesito di diritto invoca l’affermazione del principio per cui
«i crediti risultanti dalle dichiarazioni Iva presentate in relazione a periodi
d’imposta per i quali il contribuente si sia avvalso della definizione automatica di
cui all’art. 9 Legge 289/2002 (“condono tombale”) e non scaturenti dalla
contabilizzazione di fatture emesse a fronte di fatture per operazioni inesistenti
(…) non possono essere contestati dall’Amministrazione finanziaria essendo a
questa inibita l’azione accertatrice».
1.2. La censura va respinta.
1.3. Invero, in materia di tributi armonizzati, quale VIVA, il c.d. condono
tombale di cui all’art. 9 della legge n. 289 del 2002 è stato ritenuto incompatibile
con l’ordinamento comunitario, in quanto comporta una rinuncia generale ed
indiscriminata all’accertamento delle operazioni imponibili in materia di IVA, tale
da integrare un inadempimento agli obblighi che incombono sullo Stato italiano
in forza dell’art. 2, n. 1, lett. a), c) e d), e degli artt. 193 – 273 della successiva
direttiva del Consiglio 28 novembre 2006, 2006/112/CE, relativa al sistema
d’imposta sul valore aggiunto (Corte giustizia, 11 dicembre 2008, C-174/07).
Tale contrasto con l’ordinamento comunitario comporta l’obbligo del giudice e

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l’inesistenza derivava dal fatto che nessun pagamento era intervenuto per la

dell’amministrazione finanziaria italiani di non applicare le norme nazionali
relative al suddetto condono, con conseguente “riespansione del potere
accertativo dell’amministrazione finanziaria” (Corte cost. 247/2011; Cass. su.
nn. 3673-3677 del 2010; Cass. nn. 24586-24587 del 2010, n. 2915 del 2013, n.
4858 del 2015).
1.4. Inoltre, secondo il costante insegnamento di questa Corte, “le sanatorie
fiscali non modificano gli importi di rimborsi e crediti derivanti da dichiarazioni
presentate, il che comporta che nessuna modifica di tali importi può essere

contestare Il credito, atteso che il condono elide in tutto o in parte, per sua
natura, il debito fiscale, ma non opera sui crediti che il contribuente possa
vantare nei confronti del fisco, i quali restano soggetti all’eventuale
contestazione da parte dell’ufficio” (Cass. n. 375 del 2009, n. 5586 e n. 18942
del 2010, n. 13037 del 2015); di conseguenza, l’Amministrazione finanziaria può
procedere all’accertamento diretto a dimostrare l’inesistenza del diritto al
rimborso (Cass. nn. 20433 e 27314 del 2014, n. 11429 del 2015).
1.5. E’ stato altresì chiarito che il condono mira a risolvere le controversie
pendenti – o a prevenire eventuali vertenze future – a condizioni di particolare
favore per il contribuente, in relazione ai tributi non ancora pagati, restando
invece del tutto estranea alla ratio di detta disciplina la pretesa consolidazione di
crediti d’imposta dichiarati dal contribuente, ma non sottoposti al vaglio
dell’amministrazione finanziaria e che diventerebbero incontestabili, ancorchè in
tutto o in parte insussistenti, per il solo fatto che il contribuente abbia ritenuto di
usufruire del più favorevole trattamento, attivando la procedura di sanatoria,
pagando gli importi dovuti in base alle disposizioni della legge di sanatoria e così
definendo il rapporto per il periodo d’imposta cui la domanda stessa si riferisce
(Cass. n. 4858 del 2015 e n. 2597 del 2014; conf. Cass. n. 6429 dei 1996, n.
9646 del 1994; cfr. Corte cost. n. 340 del 2005 e n. 416 del 2000).
2. Identiche argomentazioni e conclusioni valgono – a maggior ragione – per
il quarto motivo, che riproponendo la medesima censura del primo, la riferisce
alla ulteriore operazione dell’affitto di azienda, con riguardo alla quale il Collegio
regionale ha ritenuto essersi al cospetto di una “fatturazione per operazioni
inesistenti, con conseguente applicazione della regola dell’art. 21, comma 7, DPR
633/72”.
3. Con il secondo mezzo si lamenta invece la «violazione e falsa applicazione
dell’art. 19 comma 1 DPR 633/72 ai sensi dell’art. 360 comma 1 punto 3 c.p.c.».
3.1. Nel correlato quesito di diritto si propugna il principio per cui «l’art. 19
DPR 633/72 comma 1 va interpretato, conformemente a quanto previsto dall’art.

ud. 10 novembre 2015

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determinata da tale definizione, che non sottrae all’amministrazione il potere di

17 direttiva UE 77/388/CEE del 17/05/1977 e dalla conseguente giurisprudenza
della Corte di Giustizia UE, nel senso che il diritto alla detrazione dell’Iva va
riconosciuto al soggetto passivo d’imposta su tutte le spese da questi sostenute
per l’acquisto di beni e servizi utilizzati per lo svolgimento di attività economiche
che danno luogo all’effettuazione di operazioni attive soggette all’imposta».
3.2. Il motivo è inammissibile.
3.3. Il corrispondente quesito infatti, oltre ad essere formulato in termini del
tutto astratti, segue un percorso logico che muove da un presupposto non

effettivamente “utilizzati” dalla contribuente per lo svolgimento di attività
economiche, quando invece – sulla scorta di un accertamento di fatto
insindacabile in questa sede – il giudice d’appello ha affermato che “la società
acquirente non ha fornito una valida dimostrazione dell’effettivo utilizzo
dell’immobile”.
3.4. Peraltro, essendo state invocate specificamente la normativa e la
giurisprudenza euro-unitaria, merita richiamare il consolidato orientamento della
Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale, anche di recente (Corte Giust. 22
ottobre 2015, C-126/14, Sveda UAB, in fattispecie di detrazione dell’IVA assolta
a monte per l’acquisto di beni d’investimento direttamente destinati ad un
utilizzo gratuito da parte del pubblico, in correlazione alla progettata attività
economica di turismo rurale o ricreativo), ha ribadito i seguenti principi: a) che
in base all’art. 168 della direttiva IVA “il soggetto passivo è autorizzato a
detrarre VIVA dovuta o versata per i beni acquistati quando, agendo in quanto
tale nel momento in cui acquista tali beni, li utilizzi ai fini delle proprie operazioni
imponibili (v., segnatamente, sentenza Klub, C-153/11, EU:C:2012:163, punto
36 e giurisprudenza ivi citata)”; b) che “la questione se il soggetto passivo abbia
agito in quanto tale ai fini della sua attività economica è una questione di fatto
che deve essere valutata tenendo conto di tutti i dati della fattispecie, tra i quali
figurano la natura del bene considerato e il periodo di tempo intercorso tra
l’acquisto dello stesso e il suo uso ai fini delle attività economiche del soggetto
passivo (v., in tal senso, in particolare, sentenza Klub, C-153/11,
E1J:C:2012:163, punti 40 e 41 e giurisprudenza ivi citata)”; c) che “secondo
costante giurisprudenza, la sussistenza di un nesso diretto e immediato tra una
specifica operazione a monte e una o più operazioni a valle che danno diritto a
detrazione è, in via di principio, necessaria affinché sia riconosciuto al soggetto
passivo un diritto a detrarre l’IVA assolta a monte e possa essere determinata la
portata di siffatto diritto. Il diritto a detrarre l’IVA gravante a monte sull’acquisto
di beni o servizi presuppone che le spese sostenute per acquistare questi ultimi

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riscontrato negli atti di causa, e cioè che si tratti dell’acquisto di beni e servizi

facciano parte degli elementi costitutivi del prezzo delle operazioni tassate a
valle che danno diritto a detrazione (v., in particolare, sentenza SKF, C-29/08,
EU:C:2009:665, punto 57)”; d) che “la Corte ha ammesso un diritto a detrazione
dell’IVA a beneficio del soggetto passivo anche qualora non possa essere
ricostruito un nesso immediato e diretto tra una specifica operazione a monte e
una o più operazioni a valle che danno diritto a detrazione, quando i costi
sostenuti fanno parte delle spese generali del soggetto passivo e rappresentano,
in quanto tali, elementi costitutivi del prezzo dei prodotti o dei servizi che esso

il complesso delle attività economiche del soggetto passivo (v., in tal senso,
sentenze Investrand, C-435/05, EU:C:2007:87, punto 24, e SKF, C-29/08,
EU:C:2009:665, punto 58)”; e) infine che, ai fini della “applicazione del criterio
del nesso diretto, la quale incombe alle amministrazioni finanziarie e ai giudici
nazionali, spetta a questi ultimi prendere in considerazione tutte le circostanze in
presenza delle quali si sono svolte le operazioni considerate e tenere conto
unicamente delle operazioni che sono oggettivamente connesse all’attività
imponibile del soggetto passivo. La sussistenza di un tale nesso deve essere
valutata alla luce del contenuto oggettivo dell’operazione in questione (v., in tal
senso, sentenza Becker, C-104/12, EU:C201399, punti 22, 23 e 33 e
giurisprudenza ivi citata)”.
3.5. A tale impostazione risulta pienamente conforme il consolidato
orientamento di questa Corte, di recente ribadito da Cass. n. 11425 del 2015,
per cui – alla luce della sesta direttiva dei Consiglio n. 77/388/CEE, come
interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (sent. 13 dicembre 1989
in causa C-342/87) – mentre le cessioni di beni e le prestazioni di servizi poste
in essere dai vari tipi di società indicate nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 4,
comma 2, n. 1, costituiscono sempre e ad ogni effetto – per presunzione iuris et
de iure e quale che sia la natura dell’attività svolta – operazioni effettuate
nell’esercizio di impresa (con conseguente applicazione dell’IVA sulle operazioni
attive compiute), in ordine invece agli acquisti di beni, ed in generale alle
operazioni passive, non è sufficiente – ai fini della detraibilità dell’imposta – la
qualità d’imprenditore societario, dovendosi altresì verificare in concreto
l’inerenza, cioè la stretta connessione con le finalità imprenditoriali, nonché la
strumentalità in concreto del bene acquistato rispetto alla specifica attività
imprenditoriale, sia essa compiuta o anche solo programmata (Cass. n. 16697
del 2013; n. 7344 del 2011; n. 1863 del 2004; n. 5599 del 2003).
3.6. In particolare, ai fini del riscontro della detraibilità dell’IVA in relazione
ai beni o ai servizi importati o acquistati nell’esercizio di impresa o di arti e

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fornisce. Costi di tal genere presentano, infatti, un nesso immediato e diretto con

professioni, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972 ! art. 19, si è precisato che la
compatibilità con l’oggetto sociale costituisce mero indizio della inerenza
all’effettivo esercizio dell’impresa, della cui dimostrazione è onerato

il

contribuente (Cass. n. 4157 dei 2013, in tema di spese relative alla
compravendita e/o alla ristrutturazione di immobili) e che dalla relativa
conformità può prescindersi nella misura in cui beni e servizi dell’impresa siano
impiegati a fini di operazioni soggette ad imposta (Cass. n. 5753 del 2010).
3.7. E’ stato altresì chiarito – sempre alla luce della sesta direttiva n.

compresa la sentenza 29.2.1996 in proc. C – 110/94) – che il D.P.R. n. 633 del
1972, art. 19, comma 1, laddove richiede, oltre alla qualità d’imprenditore
dell’acquirente, l’inerenza del bene acquistato all’attività imprenditoriale, intesa
come strumentalità del bene stesso rispetto a detta specifica attività, non
introduce una deroga ai comuni criteri in tema di onere della prova, lasciando la
dimostrazione di detta inerenza o strumentalità a carico dell’interessato (v. Cass.
n. 6200 del 2015, n. 25986 del 2014, n. 3706 del 2010, n. 16730 e n. 11765 del
2008; cfr. Cass. n. 3518 del 2006, n. 7418 del 2001, n. 4517 del 2000). Ed in
merito al contenuto del suddetto onere probatorio, la Corte di Lussemburgo ha
ripetutamente ribadito che, per stabilire se sia o meno detraibile un’attività di
acquisto o di ristrutturazione di un bene da adibire all’esercizio dell’impresa,
deve aversi riguardo all’intenzione del soggetto passivo di imposta – confermata
da elementi obiettivi – di utilizzare un bene o un servizio per fini aziendali; il che
consente di determinare se, nel momento in cui procede all’operazione a monte,
detto soggetto passivo agisca come tale, e possa dunque beneficiare del diritto a
detrazione dell’IVA dovuta o assolta per i detti beni e servizi (Corte giust. UE 11
luglio 1991, in C- 97/90, Lennartz; 8 giugno 2000, in C-400/98, Breitshol; 19
luglio 2012, in C-334/10).
4. Le ulteriori tre censure motivazionali contenute nei motivi terzo, quinto e
sesto sono parimenti inammissibili, per plurime ragioni.
4.1. In primo luogo, tali motivi mancano del c.d. momento di sintesi richiesto a pena di inammissibilità a corredo dei motivi riconducibili al n. 5)
dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ., in base alla disposizione di cui all’art.
366-bis cod. proc. civ. (applicabile ratione temporis ai sensi della disciplina
transitoria di cui alla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 58, comma 5) – ossia di un
“quesito di fatto”, consistente in un apposito passaggio espositivo, distinto ed
autonomo rispetto allo svolgimento del motivo ed integrante un quid pluris
rispetto all’illustrazione del mezzo (Cass. s.u. n. 12339 del 2010; Cass. n. 8897
e n. 4309 del 2008; nn. 21194 e 24313 del 2014), finalizzato ad individuare,

ud. 10 novembre 2015

2449/10 •.P,G,

77/388/CEE, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (ivi

chiaramente e sinteticamente, il fatto controverso e decisivo per il giudizio in
riferimento al quale la motivazione si assume omessa, ovvero insufficiente o
contraddittoria, con specifica segnalazione delle ragioni per le quali la
motivazione risulta inidonea a giustificare la decisione (ex plurimis, Cass. su. n.
20603 del 2007 e n. 11652 del 2008; Cass. n. 27680 del 2009).
4.2. Né alla rilevata carenza, anche grafica (cfr. Cass. n, 24313 del 2014),
potrebbe supplirsi attribuendo a questa Corte il potere di individuarne
autonomamente una possibile (larvata) stesura nell’ambito dello svolgimento del

prevedeva la redazione del motivo con l’indicazione della violazione denunciata la portata innovativa dell’art. 366-bis cod. proc. civ., consistente proprio
nell’imposizione della formulazione di motivi contenenti una sintesi
autosufficiente della censura, funzionale al miglior esercizio della funzione
nomofilattica del Giudice di legittimità (cfr., ex muitis, Cass. n. 16481 del 2014,
n. 22591 del 2013 e n. 20409 del 2008).
5. In secondo luogo, i motivi in esame presentano una inammissibile
formulazione “multipla”.
5.1. Nel ricorso per cessazione non è infatti consentito mescolare e
sovrapporre mezzi d’impugnazione eterogenei, riferiti ai diversi casi disciplinati
dal codice di rito (segnatamente come nella specie – ai nn. 3) e 5) dell’art. 360,
primo comma, cod. proc. civ.), mediante la formulazione di quesiti “cumulativi”
(ex muitis, Cass. n. 25982 del 2014), poichè una simile tecnica espositiva finisce
per rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure
teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione
enunciati dalla norma, per poi ricercare quale – o quali – sarebbero utilizzabili allo
scopo, così attribuendo alla Corte un compito che non le compete, cioè quello di
dare forma e contenuto alle doglianze della parte ricorrente, in vista della
decisione su di esse (Cass. n, 9470 del 2008, n. 19443 del 2011, n. 21611 del
2013).
5.2. Di conseguenza, i motivi di ricorso fondati sulla violazione di norme di
diritto e quelli fondati su difetti motivazionali devono rimanere distinti ed essere
sorretti da quesiti separati (Cass. n. 5471 del 2008) – quand’anche si denunzino
con un unico articolato motivo d’impugnazione i corrispondenti vizi di violazione
di legge e di motivazione in fatto (Cass. su. n. 7770 del 2009) – poiché il
giudizio di cessazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato da quegli stessi
motivi di ricorso, i quali svolgono una funzione identificativa e devono perciò
possedere necessariamente i caratteri di tassatività e specificità, non potendosi
risolvere in una critica generica, che accorpi indistintamente sotto un unico

od. 10 novembre 2015

2149/10 N.R.G.

motivo, poiché ne resterebbe svilita – rispetto ad un sistema processuale che già

motivo, come è nella fattispecie in esame, una pluralità di profili (Cass. n. 5964
del 2015, n. 19959 e n. 26018 del 2014).
5.3. In terzo luogo, i mezzi in esame mancano anche del “quesito di diritto”
correlato alle violazioni di legge contestualmente dedotte, in contrasto con la
consolidata lettura di questa Corte, per cui i vizi riconducibili ai numeri 3) e 4)
dell’art. 360, primo comma, cod. proc. civ. debbono essere corredati a pena di
inammissibilità da un “quesito di diritto” che contenga: a) la sintesi degli
elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) l’indicazione della regola di

tutto in modo tale che il giudice di legittimità, nel rispondere al quesito, possa
formulare una regula iuris suscettibile di applicazione anche in diversi casi (Cass.
s.u., nn. 2658 e 28536 del 2008, n. 18759 del 2009; Cass. n. 22704 del 2010,
n. 21164 del 2013, nn. 11177 e 17958 del 2014).
6. Inammissibile, perché tardivo, è anche il “motivo aggiunto” – formulato
da parte ricorrente con la memoria difensiva ex art. 378 cod. proc. civ. datata
01/10/2015 – con il quale si deduce la nullità dell’atto impositivo, in quanto
sottoscritto da soggetto che «non rivestiva la qualifica di dirigente dell’agenzia
delle entrate, rientrando il suo nome tra quelli dei dirigenti “decaduti” per gli
effetti (ex num) della Sentenza della Corte Costituzionale».
6.1. Invero, questa Corte ha di recente chiarito (Cass. n. 22810 del 9
novembre 2015) che per qualsiasi ipotesi di nullità dell’atto tributario – ivi
compresa, dunque, quella di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3 opera il principio generale di conversione in mezzi di gravame, che a sua volta
discende dalla struttura impugnatoria del processo tributario, nel quale la
contestazione della pretesa fiscale può essere veicolata solo attraverso specifici
motivi di impugnazione, diretti alla verifica della legittimità della pretesa
avanzata con l’atto dell’amministrazione finanziaria, con la conseguenza che
l’oggetto del giudizio resta rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal
contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo di primo
grado (cfr, per tutte Cass. n. 25756 del 2014).
6.2. Pertanto, le forme di invalidità dell’atto tributario, quand’anche indicate
dal legislatore con il nomen della nullità, non sono rilevabili d’ufficio, nè possono
essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di cessazione (tra le altre, si
veda Cass. n. 18448 del 2015).
6.3. Nel caso di specie, essendo pacifico che la nullità prospettata dalla parte
ricorrente non era stata eccepita quale motivo di ricorso avverso l’avviso di
accertamento, deve ritenersi preclusa ogni indagine sul punto.

ud. 10 novembre 2015

2449/10 N.R.G.

diritto da questi applicata; c) la diversa regola di diritto ritenuta da applicare; il

7. Da ultimo, va dichiarata l’inammissibilità del controricorso proposto (sia
pure unitamente all’Agenzia delle entrate) dal Ministero dell’Economia e delle
Finanze, poiché l’art. 57, primo comma, D.Lgs. n. 300 del 1999 ha trasferito alle
agenzie fiscali tutti i “rapporti giuridici”, i “poteri” e le “competenze” già facenti
capo al predetto Ministero, con la conseguenza che, a far data dal 1 gennaio
2001 (giorno di inizio di operatività delle Agenzie fiscali in forza del D.M. 28
dicembre 2000, art. 1) la legittimazione sia attiva che passiva spetta
esclusivamente all’Agenzia delle Entrate (ex plurimis, Cass. nn. 27182, 23551,

del 2009; n. 6591 del 2008; nn. 3116 e 3118 del 2006; n. 15021 del 2005; nn.
24245 e 15643 del 2004; n. 9538 del 2001).
8. In conclusione, il ricorso va respinto e parte ricorrente va condannata a
rifondere alla (sola) controricorrente Agenzia delle Entrate le spese del giudizio
di legittimità, liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il controricorso del Ministero dell’economia e
delle finanze. Dichiara inammissibili tutti i motivi di ricorso e condanna parte

I

ricorrente alla rifusione, in favore dell’Agenzia delle entrate, delle spese del
giudizio di legittimità, che liquida in C 10.260,00 oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella c•lera di consiglio del 10 novembre 2015.
Il Co

er est.

Il Presidente

7300 e 6394 del 2014; n. 6929 del 2013; nn. 22992 e 26321 del 2010; n. 1123

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