Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6625 del 18/03/2010

Cassazione civile sez. I, 18/03/2010, (ud. 02/02/2010, dep. 18/03/2010), n.6625

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARNEVALE Corrado – Presidente –

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –

Dott. RORDORF Renato – rel. Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 27417-2007 proposto da:

B.E. (c.f. (OMISSIS)), domiciliata in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE DI CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dagli avvocati RESTUCCIA PATRIZIA, CARROZZA

PAOLO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositato il

19/04/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

02/02/2010 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con decreto emesso il 19 aprile 2006 la Corte d’appello di Torino ha condannato il Ministero della Giustizia a corrispondere alla sig.ra B.E. la somma di Euro 2.000,00 a titolo di equo indennizzo per l’eccessiva durata di un procedimento concorsuale di fallimento, nel cui ambito la sig.ra B. aveva insinuato sin dal 21 marzo 1986 un proprio credito privilegiato derivante da rapporto di lavoro;

procedimento che, all’epoca del ricorso, risultava ancora pendente senza che fosse stato disposto il riparto finale.

Avverso tale decreto la sig.ra B. propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi ed illustrato poi anche da memoria, lamentando che la corte torinese abbia liquidato l’indennizzo per il danno non patrimoniale da lei sofferto facendo riferimento al solo periodo in cui la durata del procedimento ha ecceduto la misura del ragionevole, anzichè all’intero arco di tempo in cui il procedimento medesimo si è svolto, che siano stati utilizzati parametri di liquidazione insufficienti ed inferiori a quelli indicati dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo e che ingiustificatamente non sia stato indennizzato anche il danno patrimoniale conseguente al ritardo nella riscossione del credito insinuato al passivo.

Il Ministero intimato ha resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La corte d’appello ha accertato che il credito privilegiato della sig.ra B., in origine ammontante a L. 5.710.273, fu insinuato al passivo del fallimento con domanda depositata il 13 dicembre 1986, fu definitivamente ammesso con la declaratoria di esecutività dello stato passivo intervenuta il 5 gennaio 1987 e fu soddisfatto nella misura del 51,77%, in virtù di un riparto parziale e grazie ad un’anticipazione operata dal Fondo di Garanzia, entro il luglio del 1989.

Su tale premessa, la medesima corte è prevenuta alla ragionevole conclusione – non specificamente contestata dalla ricorrente – che nessun ritardo sia ravvisabile in questa prima fase della procedura concorsuale.

E’ nella fase successiva che il procedimento concorsuale ha assunto invece un andamento eccessivamente lento, onde la corte torinese ha stimato che esso abbia ecceduto di poco più di tredici anni il termine di durata ragionevole.

L’indennizzo per il danno non patrimoniale è stato perciò riferito al periodo temporale da ultimo indicato ed è stato equitativamente liquidato in Euro 2.000,00. Somma che la stessa corte piemontese ha rilevato essere inferiore a quanto normalmente viene liquidato a titolo d’indennizzo del danno non patrimoniale in rapporto a ciascun anno di ritardo nella definizione di un procedimento giurisdizionale, ma che è stata in questo caso così determinata in considerazione del fatto che il residuo credito effettivamente riscuotibile dalla sig.ra B., in base al prossimo riparto finale della procedura, è apparso di minima entità (circa 293,00 Euro): donde la conseguenza che, per la ricorrente, anche il patimento connesso all’attesa può presumersi essere stato assai modesto, avendo ella avuto già da gran tempo contezza dell’impossibilità di recuperare il proprio credito in misura maggiormente significativa.

L’estrema esiguità del credito recuperabile ha poi anche indotto la corte torinese ad escludere che un più tempestivo incasso avrebbe consentito alla creditrice di investire fruttuosamente la somma ricevuta. Il che ha portato al rigetto della domanda volta a conseguire la riparazione del danno patrimoniale.

2. La censura contenuta nel primo motivo di ricorso, volta a far computare ai fini dell’equo indennizzo l’intera durata del procedimento svoltosi è manifestamente infondata, alla luce dell’ormai ben consolidata giurisprudenza di questa corte, che impone di tener conto unicamente del periodo di tempo in cui la durata del giudizio medesimo ha ecceduto il termine ragionevole (cfr., per tutte, Cass. n. 10415 del 2009, che ha anche escluso ogni possibile profilo d’illegittimità costituzionale della L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 3, lett. a), per asserito contrasto con la normativa europea).

3. E’ del pari infondata, e per certi versi inammissibile, la censura formulata nel secondo motivo.

Se è vero, infatti, che – come già notato – il giudice di merito si è discostato nel caso in esame dai parametri di liquidazione dell’indennizzo usualmente applicati per ogni anno di ritardo in conformità alle indicazioni della Corte europea, è vero altresì che lo ha fatto motivatamente, tenendo conto della estrema esiguità della posta in gioco e delle ben chiarite peculiarità del caso sottoposto al suo esame. Ed, in presenza di situazioni peculiari, nonchè di poste in gioco particolarmente modeste, la stessa citata giurisprudenza europea ha sempre pienamente riconosciuto la possibilità di derogare ai parametri di valutazione adoperati nei casi ordinari (ferma, ovviamente, la necessità che il giudice ne dia adeguatamente conto nella motivazione del provvedimento).

Quanto, poi, al merito delle valutazioni sulle quali siffatto giudizio della corte territoriale si è fondato, trattasi di profili che fuoriescono dai limiti entro i quali la Corte di cassazione è chiamata a pronunciarsi, tanto più che la doglianza prospettata nel motivo di ricorso ora in esame è riferita, nell’epigrafe, unicamente ad un preteso error in iudicando e che, ove invece la si volesse considerare per alcuni profili come estesa anche ad eventuali vizi di motivazione del provvedimento impugnato, osterebbe alla sua ammissibilità il mancato rispetto dell’art. 366-bis c.p.c., nei medesimi termini in cui si dirà a proposito del terzo motivo di ricorso.

3.1. Non sfugge a questa corte la circostanza che un analogo ricorso, proposto da altro creditore insinuato al passivo del medesimo fallimento e per il quale la Corte d’appello di Torino aveva liquidato l’equo indennizzo in ugual misura, ha avuto sorte diversa, essendo stato quel ricorso accolto con conseguente liquidazione di una maggior somma, a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 1 (si veda Cass. 24 aprile 2009, n. 9877).

Occorre tuttavia rilevare che, in quel caso, come emerge dalla motivazione della citata sentenza n. 9877/09 di questa corte, la cassazione del provvedimento impugnato è dipesa dal non avere il giudice di merito indicato alcuna ragione dello scostamento dagli indicati usuali parametri di liquidazione dell’indennizzo.

Lo stesso, come già sottolineato, non può dirsi nel caso ora in esame. Il che qui preclude ogni possibilità di procedere ad una nuova e diversa valutazione di merito ad opera di questa corte.

4. Inammissibile è, infine, il terzo motivo del ricorso, riguardante il mancato riconoscimento del danno patrimoniale e volto unicamente a lamentare vizi di motivazione in cui si assume sarebbe incorsa la corte d’appello.

Occorre rilevare che quello in esame è un ricorso proposto avverso un provvedimento emesso il 19 aprile 2006, sicchè ad esso risulta applicabile, ratione temporis, il disposto dell’art. 366-bis c.p.c. (introdotto con il D.Lgs. n. 40 del 2006 ed abrogato con L. n. 69 del 2009).

Ne consegue che, a pena d’inammissibilità, le censure riguardanti eventuali vizi di motivazione avrebbero dovuto contenere la chiara indicazione del fatto controverso, in ordine al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero delle ragioni per le quali la si debba ritenere insufficiente; indicazione, quest’ultima, da tradursi in un’autonoma e specifica sintesi, che circoscriva puntualmente i limiti del fatto su cui verte la dedotta censura, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr. tra le altre, in proposito, Sez. un., 1 ottobre 2007, n. 20603).

Nella specie, viceversa, le doglianze concernenti vizi di motivazione del decreto impugnato appaiono assolutamente prive di qualsiasi separata e specifica indicazione del fatto controverso in ordine al quale la motivazione risulterebbe difettosa. Donde l’inammissibilità del terzo motivo di ricorso.

5. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. Le già rimarcate peculiarità del caso sottoposto all’esame della corte giustificano la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2010

 

 

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