Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6623 del 10/03/2021

Cassazione civile sez. trib., 10/03/2021, (ud. 11/12/2020, dep. 10/03/2021), n.6623

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10769/2014 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n. 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

ARENZANO AUTO Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale a margine del

controricorso, dagli avv.ti Claudio Berliri e Alessandro Cogliati

Dezza, presso gli stessi elettivamente domiciliata in Roma, nella

via Alessandro Farnese n. 7;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8/03/2013 della Commissione Tributaria

Regionale della Liguria, depositata in data 6 marzo 2013;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del’11 dicembre

2020 dal Consigliere Dott. Grazia Corradini.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

A seguito di una verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza di Genova a carico della Srl Arenzano Auto, svolgente l’attività di commercio di auto, conclusasi con verbale di constatazione del 14.9.2007 – che aveva posto in luce come la detta società aveva intrattenuto rapporti, in particolare, con sei fornitori che risultavano essere coinvolti in frodi intracomunitarie IVA nel settore del commercio delle autovetture provenienti da paesi UE o acquisite, in esenzione IVA, avvalendosi di false dichiarazioni di intenti da soggetti nazionali già identificati per il loro ruolo di soggetti fittizi nell’ambito di “frodi carosello”, in quanto privi, in base a verifiche effettuate, di qualsiasi organizzazione di mezzi, di capitali e di strutture per l’esercizio di attività commerciali ed evasori totali nella annualità oggetto di controllo, nel corso della quale avevano posto in essere operazioni cartolari, soggettivamente fittizie, risultate antieconomiche ed avevano effettuato pagamenti anticipati rispetto alla consegna del bene al fine di precostituire la necessaria provvista per fare fronte agli acquisti, omettendo altresì di esibire qualsiasi documentazione a sostegno della effettuazione delle operazioni commerciali relative – l’Agenzia delle Entrate emise l’avviso di accertamento n. R4D0301014252/2007 per l’anno di imposta 2003, con cui rettificò le dichiarazioni IRPEG, IRAP ed IVA presentate dalla società Arenzano, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), artt. 40, 41,42 e 43, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 5, artt. 56 e 57 e del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25 e contestò, ai fini IRPEG ed IRAP, l’indebita deduzione di costi per Euro 621.838,33, in quanto afferenti ad operazioni soggettivamente inesistenti concluse con le società “cartiere” Classic Motors, GB Diffusion, AMS e Kit Car e, ai fini IVA, l’indebita detrazione di IVA indicata sulle fatture di acquisto dei suddetti fornitori fittizi per Euro 93.616,60, l’effettuazione di cessione di veicoli fatturate in regime di sospensione di imposta a seguito di lettere di intento false emesse dal fittizio B.E. per l’imponibile di Euro 101.817,00, l’omessa regolarizzazione di fatture d’acquisto irregolari emesse dalla GB Diffusion con indebito utilizzo del regime del margine per l’imponibile acquisti di Euro 51.938,00 e la mancata regolarizzazione di acquisti intracomunitari di fatto effettuati ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, ex art. 46, comma 5, con conseguente emersione del debito IVA che sarebbe derivato dalla corretta annotazione sul registro vendite per un totale imponibile di acquisti di Euro 621.838,33 ed IVA relativa per Euro 124.366,00.

La Srl Arenzano Auto propose ricorso contro l’accertamento contestando la fondatezza dei singoli recuperi e sostenendo la mancanza di prova degli stessi. Il ricorso fu accolto dalla Commissione Provinciale di Genova con sentenza n. 86/5/2010 che ritenne non esistenti riscontri tali da assumere rango di prove e neppure presunzioni gravi, precise e concordanti a sostegno della tesi dell’Ufficio.

Il successivo appello proposto dalla Agenzia delle Entrate – con cui fu dedotta la piena legittimità dei recuperi a tassazione operati, in quanto basati su una corretta ricostruzione presuntiva dei fatti che avevano indotto i verificatori a qualificare le fatture contestate come emesse a fronte di operazioni soggettivamente inesistenti e sulla mancata estraneità da parte della contribuente alla frode – fu respinto dalla Commissione Tributaria Regionale della Liguria con sentenza n. 8/3/2013, depositata in data 6 marzo 2013. La CTR rilevò che l’Ufficio non aveva offerto prove sufficienti, suffragate da elementi gravi, precisi e concordanti per dimostrare il coinvolgimento della società contribuente nella frode fiscale ed in particolare prove di eventuali accordi con i fornitori per attuare la frode fiscale, mentre la società contribuente aveva ricostruito alcune singole vendite al fine di dimostrare che il prezzo praticato al momento della vendita non aveva carattere di antieconomicità e la stessa CTR, con le sentenze n. 4 e 5/2013, aveva confermato quelle di primo grado che avevano annullato gli accertamenti relativi alle annualità 2004 e 2005 emessi nei confronti della stessa contribuente.

La Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, con atto notificato il 17 – 23 aprile 2014, affidato a sette motivi.

Ha resistito con controricorso la società Arenzano Auto che ha altresì presentato successiva memoria.

Il Procuratore Generale, con memoria in data 20 ottobre 2020, ha chiesto l’accoglimento del ricorso rilevando che la sentenza impugnata si poneva in contrasto con i principi consolidati espressi dalla Corte di Cassazione in tema di prova e di onere della prova nelle cd. “frodi carosello”.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente lamenta violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, dell’art. 118 disp. att. c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4 e art. 61, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per avere la sentenza impugnata respinto l’appello dell’Ufficio limitandosi a richiamare, per relationem, il contenuto della sentenza di primo grado, oggetto del gravame e le due separate sentenze nn. 4 e 5 del 2013 della stessa Commissione Tributaria Regionale, senza neppure citare i contenuti o riportare i passaggi fondamentali delle sentenze richiamate per relationem, così determinando la nullità della sentenza per motivazione solo apparente, non idonea a rivelare la ratio decidendi.

2. Con il secondo motivo si duole di violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), art. 41 bis, degli artt. 2697, 2727 e 2729, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, convertito dalla L. n. 44 del 2012, del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 5 e 25, del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 54, della Dir. CEE 17 maggio 1977, n. 77/388/CE, art. 17 e della Dir. CEE 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, art. 167, come interpretati dalla giurisprudenza comunitaria, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la sentenza impugnata: 1) erroneamente applicato la regola sulla divisione dell’onere probatorio con riferimento alla fattispecie riconducibile alle cd. frodi carosello, poichè, una volta fornita dalla Amministrazione finanziaria, come nel caso in esame, la prova della interposizione fittizia della società “cartiera” o “fantasma” nella operazione commerciale effettivamente posta in essere dal cessionario /committente con un diverso soggetto – cedente/prestatore -, anche attraverso presunzioni semplici, purchè dotate dei requisiti dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (tali da porre sull’avviso dell’inesistenza sostanziale del contraente qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto), con riguardo alla inesistenza della struttura operativa dell’interposto, al mancato pagamento dell’IVA ed alla connivenza nella frode da parte del cessionario, spettava al cessionario/committente, che aveva portato in detrazione l’IVA, fornire la prova contraria che l’apparente cedente/prestatore non era un mero soggetto fittiziamente interposto e che la operazione era stata realmente conclusa con esso, non essendo a tale scopo sufficiente la regolarità della documentazione contabile e la mera dimostrazione che la merce era stata fornita ovvero che il corrispettivo era stato versato; 2) eluso la applicazione della regola di imputazione alla base imponibile IRES ed IRAP dei costi relativi alle operazioni inesistenti effettuati nell’ambito delle frodi carosello, in base alla quale sono deducibili per l’acquirente i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti anche per l’ipotesi che l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento dell’operazione, salvo che si tratti di costi che, a norma del TUIR, siano in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, per cui sarebbe spettato alla parte dimostrare la effettività dei costi ed al giudice verificare la sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 109 TUIR; 3) erroneamente operato l’esame della prova indiziaria che richiede prima la considerazione dei singoli indizi e quindi dell’insieme degli indizi, sicchè ciascun elemento della serie ben può essere compatibile con una verità diversa, ma è la serie nel suo complesso che deve essere univocamente dimostrativa.

3) Con il terzo motivo ha dedotto la violazione dell’art. 2909 c.c., degli artt. 324 e 327c.p.c., dell’art. 124 disp. att. c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 49 e 51, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per essere la sentenza impugnata incorsa in error in procedendo, avendo ritenuto la sussistenza di un giudicato derivante dalle sentenze nn. 4 e 5/2013 della stessa CTR che avevano statuito sugli accertamenti relativi ad altre annualità di imposta, pur essendo evidente che le sentenze non erano passate in giudicato.

4. Con il quarto motivo ha dedotto lo stesso vizio in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riguardo ad un error in iudicando.

5. Con il quinto motivo ha lamentato violazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), art. 41 bis, del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, convertito dalla L. n. 44 del 2012, del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 5 e 25, del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 54, della Dir. CEE 17 maggio 1977, n. 77/388/CE, art. 17 e della Dir. CEE 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, art. 167, come interpretati dalla giurisprudenza comunitaria, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poichè, pur non essendo pacificamente passate in giudicato le sentenze n. 4 e 5/2013 della stessa Commissione Tributaria Regionale, il giudice di appello aveva aderito alla valutazione delle prove ed alla ricostruzione dei fatti operata da tali sentenze, anche se ciò non sarebbe stato consentito neppure se fossero passate in giudicato, alla luce del principio per cui il giudicato relativo ad un singolo periodo di imposta non è idoneo a fare stato per i successivi o i precedenti in via generalizzata ed aspecifica, posto che la efficacia di giudicato va riconosciuta solo a quelle situazioni relative alle qualificazioni giuridiche o ad altri eventuali elementi preliminari rispetto ai quali possa dirsi sussistente un interesse protetto avente carattere di durevolezza nel tempo, non estendendosi a tutti i punti che costituiscono antecedente logico della decisione ed in particolare alla valutazione delle prove ed alla ricostruzione dei fatti.

6. Con il sesto motivo si duole di omessa pronuncia, da parte del giudice di appello, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sullo specifico motivo di appello della Agenzia delle Entrate che aveva impugnato il capo con cui la sentenza di primo grado aveva annullato l’avviso di accertamento anche con riguardo alla indebita applicazione del regime di non imponibilità dell’IVA del D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 8, comma 2, alle cessioni di beni effettuate nei confronti del sig. B.E. a fronte delle false dichiarazioni di intenti. A tale proposito con l’appello la Agenzia delle Entrate aveva sostenuto che il recupero dell’IVA dovuta a fronte di cessione di autoveicoli fatturate in regime di sospensione di imposta emesse da un fittizio esportatore era nel caso in esame legittimo a fronte di una situazione patologica di forzatura della normativa IVA relativa alle cessioni intracomunitarie e ad una strumentalizzazione della stessa al fine di ottenere l’indebita formazione di un credito IVA, ma su tale motivo non vi era stata alcuna pronuncia da parte della sentenza di appello.

7. Con il settimo motivo, in via subordinata rispetto al sesto motivo e per il caso in cui si volesse ritenere che vi era stata una pronuncia implicita di rigetto del motivo di appello da parte della sentenza impugnata, la Agenzia delle Entrate si duole, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione degli artt. 2697,2727 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 8, commi 1 e 2 e art. 54, comma 2, per avere la sentenza impugnata erroneamente respinto l’appello benchè la dichiarazione di intenti ideologicamente falsa e la assenza della prova da parte del contribuente circa l’avvenuta adozione di tutte le misure ragionevoli in suo potere al fine di assicurarsi che la cessione effettuata non lo conducesse a partecipare ad una frode, ponesse a suo carico l’obbligo di versare l’IVA.

8. Il primo motivo di ricorso è infondato.

8.1. La ricorrente deduce la ravvisabilità della fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e cioè per error in procedendo consistente nella sostanziale inesistenza di una motivazione della sentenza impugnata che sarebbe esplicitata solo per relationem a quella di primo grado ed a due sentenze di appello relative ad altre annualità di imposta, in assenza di qualsiasi motivazione del ragionamento decisorio. La ricorrente ha trascurato però che si è in presenza di una sentenza di appello completamente confermativa della motivazione di quella di primo grado, in parte trascritta in quella di appello (come si può verificare attraverso il confronto fra le motivazioni delle due sentenze, essendo stata la motivazione della sentenza di primo grado integralmente trascritta nell’atto di ricorso a pagine 5 e 6), con la quale la motivazione di appello andava quindi a saldarsi, considerato anche l’espresso richiamo da parte della sentenza di appello, a pagina 2, alla decisione ed alla motivazione della sentenza di primo grado, nonchè al contenuto dei motivi di appello e delle controdeduzioni e memorie della contribuente. Inoltre l’esame della sentenza di appello consente di rilevare che essa prende in considerazione le principali doglianze dell’Ufficio e le eccezioni della contribuente, dando atto delle tesi alle quali ha aderito, per cui non si può parlare di inesistenza della motivazione o di motivazione meramente apparente.

8.2. Premesso che la sentenza d’appello può essere motivata anche “per relationem”, purchè il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicchè dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente (v., da ultimo, Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 20883 del 05/08/2019 Rv. 654951 -01), come è avvenuto nel caso in esame, in cui la sentenza di appello – i cui passaggi fondamentali sono stati già riportati nella parte espositiva della presente sentenza – ha preso in esame i motivi di gravame, sia pure solo in parte ed attraverso una disamina del tutto sommaria e li ha rigettati, occorre ancora rilevare che non è comunque vero che la sentenza impugnata sia stata motivata esclusivamente per relationem ad altre sentenze. Sono invero in essa indicate altre sentenze emesse in relazione a diverse annualità di imposta, cui ha aderito il giudice di appello, ma esiste anche una motivazione autonoma, sia pure assai modesta, con riguardo agli elementi addotti dall’Ufficio a sostegno della tesi della inesistenza soggettiva delle operazioni attraverso operatori fittizi coinvolti in una frode IVA ed alla prova contraria che è stata ritenuta offerta dalla contribuente attraverso le fatture e le prove del pagamento di alcune operazioni; per cui si è al di fuori dalla ipotesi della motivazione meramente apparente che determina la nullità perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., Sez. Un., Sentenza n. 22232 del 2016, Rv. 641526-01; conf. Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 14927 del 2017), il che francamente non può dirsi sussistente nel caso in esame.

9. Il terzo ed il quarto motivo di ricorso, che possono essere esaminati preliminarmente, sono inammissibili poichè con essi si attribuisce alla sentenza impugnata di avere violato le regole sul giudicato, ritenendo passate in giudicato due diverse sentenze di appello relative a due successive annualità di imposta prodotte dalla contribuente che sarebbero state quindi applicate come giudicato esterno nel presente giudizio, mentre, al contrario, sono citate dalla sentenza impugnata esclusivamente come argomenti di “sostegno” o di “conferma” delle valutazioni poste a fondamento della decisione assunta nel presente giudizio, con riguardo alla asserita mancanza di prove idonee a dimostrare il coinvolgimento della contribuente nella frode fiscale, senza alcun riferimento ad un giudicato da esse derivante, di cui non vi è alcuna menzione nella sentenza impugnata, essendo per converso pacifico che le sentenze n. 4 e 5/2013 della CTR della Liguria non erano in giudicato.

10. Sono invece fondati il secondo ed il quinto motivo di ricorso che aggrediscono le rationes decidendi della sentenza impugnata con riguardo alla violazione di legge in relazione alle regole che attengono alla valutazione delle prove ed all’onere della prova.

10.1. Appare in primo luogo corretta la deduzione del vizio per violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè, in tema di ricorso per cassazione, tale vizio consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 24054 del 12/10/2017 Rv. 646811 – 01; Sez. L, Sentenza n. 16698 del 16/07/2010 Rv. 614588 – 01), come avvenuto nella specie, considerato che, in particolare, il secondo motivo di ricorso pone proprio una questione di erronea ricognizione della fattispecie normativa astratta, relativa alle operazioni ritenute inesistenti dall’Ufficio ai fini fiscali e della interpretazione della regola che ne disciplina la prova, ancor prima ed indipendentemente dalla ricostruzione della fattispecie concreta che spetta esclusivamente al giudice di merito e su cui comunque la Agenzia ricorrente si è soffermata solo ai fini della ricognizione dei fatti della causa strumentali rispetto alle doglianze relative alla erroneità dei principi giuridici applicati dalla sentenza impugnata, in assenza, quindi, della mediazione derivante dalla valutazione delle risultanze di causa.

10.2. A tale stregua, il vizio di violazione di legge è stato quindi correttamente posto dalla Agenzia ricorrente con riguardo, in particolare, alla violazione degli artt. 2727 e 2697 c.c. che si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia erroneamente disconosciuto la prova presuntiva ed attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (v., da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018; Rv. 650892 – 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/05/2018; Rv. 649038 – 01), poichè, trattandosi della prova della inesistenza soggettiva della operazione, l’onere di dimostrare la inesistenza della operazione e che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente spettava certamente all’Ufficio, come dallo stesso riconosciuto; però, alla stregua dei criteri indicati dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 comma 2, propri della tipologia di accertamento adottato nel caso in esame, che sono quelli presuntivi, incombeva, per converso, al contribuente, ex art. 2697 c.c., fornire la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi. Ed alla luce di tali principi il giudice di merito ha nella sostanza operato una inversione di tale onere laddove ha ritenuto che spettasse all’Ufficio provare – pienamente, addirittura con prova di rango superiore a quella indiziaria – non tanto il fatto che le operazioni non erano state poste in essere con il fornitore dichiarato (il che pare ritenuto come dimostrato dalla sentenza impugnata, che non si sofferma su tale aspetto), bensì la partecipazione attiva della società Arenzano alla frode attraverso la dimostrazione di “accordi i con fornitori per attuare la frode fiscale”, nell’ambito addirittura di una sorta di prova vincolata di cui non vi è traccia nella normativa in esame.

10.3. Questa Corte si è già occupata numerose volte di fattispecie analoghe a quella in esame e precisamente di situazioni in cui il fatturante era, quanto meno formalmente, il fornitore effettivo ma l’operazione si iscriveva – per quanto riguardava quel trasferimento o i passaggi precedenti – in una combinazione negoziale fraudolenta di cui l’acquirente era o partecipe o consapevole e che contemplava la consapevolezza in vario modo da parte dei cessionari successivi del non versamento dell’IVA da parte di un cedente. In siffatte situazioni questa Corte ha rilevato come l’iva che figura pagata al cedente in via di rivalsa non è detraibile dato che ad essa – con la consapevolezza o la partecipazione del cessionario – non solo non corrisponde un versamento all’erario ma non corrisponde neppure un’attività economica effettiva ed il trasferimento all’intermediario formale ha il solo scopo abusivo di avvantaggiarsi della detrazione. In tale ipotesi è peraltro il fisco ad avere l’onere di provare – anche mediante presunzioni – gli elementi di fatto che concretizzano la frode e la partecipazione ad essa o la consapevolezza di essa da parte del contribuente e tale prova può essere data anche mediante presunzioni, dotate di gravità, precisione e concordanza, consistenti in elementi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore onesto e mediamente esperto (v., per tutte, Cass. 5 sezione n. 15741 21/2/2012 e successive conformi).

10.4. In siffatte ipotesi, in tema di IVA, ma analogamente in tema di imposte sui redditi, nelle c.d. “frodi carosello” – fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società “cartiere” a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro (“buffers”) – il meccanismo dell’operazione e gli scopi che la stessa si propone (acquisizione di materiali a prezzi più contenuti al fine di praticare prezzi di vendita più bassi, con alterazione a proprio favore del libero mercato), fanno infatti presumere la piena conoscenza della frode e la consapevole partecipazione all’accordo simulatorio del beneficiario finale, con la conseguenza che, in applicazione del relativo principio sancito dalla Dir. 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, art. 17, l’IVA assolta dal medesimo beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari trattandosi di mezzi normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia. (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 867 del 20/01/2010 Rv. 611768 – 01; v. ancora, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018 Rv. 647837 – 01; Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018 Rv. 651269, e, da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 5339 del 27/02/2020 Rv. 657341 – 01).

10.5. Anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte giustizia 22 ottobre 2015, C-277/14) è consolidato il principio per cui, in tema di detrazione dell’IVA correlata ad operazioni inesistenti, la prova che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione dei beni si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, può essere fornita dall’Amministrazione mediante presunzioni – come espressamente prevede il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2, – valorizzando, nel quadro indiziario, quali elementi sintomatici della mancata esecuzione della prestazione dal fatturante, l’assenza della minima dotazione personale e strumentale adeguata alla predetta esecuzione, l’immediatezza dei rapporti (cedente/prestatore fatturante interposto e cessionario/committente), una conclamata inidoneità allo svolgimento dell’attività economica e la non corrispondenza tra i cedenti e la società coinvolta nell’operazione. E pure con la sentenza C-439/04 par. 59 Axel Kittel la Corte di Giustizia ha ritenuto che deve essere negata la detraibilità se l’operatore “sapeva o avrebbe dovuto sapere di partecipare con il proprio acquisto ad un’operazione che si iscriveva in una frode all’IVA”.

10.6. Alla luce di tali consolidati principi, cui si ritiene di dare continuità in questa sede, spettava quindi all’Ufficio dimostrare che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione dei beni si iscriveva in un’evasione dell’imposta posta in essere con operazioni commerciali esclusivamente preordinate, anche se vere, ad eludere l’imposizione fiscale, sulla base di elementi presuntivi sufficienti ed adeguati a ritenere provato lo scopo fraudolento, quali, ad esempio, il carattere fittizio delle operazioni commerciali effettuate (indipendentemente dalla loro effettiva realizzazione) destinate a concludere un piano illecito di sfruttamento di evasione IVA e la mancanza di una effettiva organizzazione aziendale delle società fornitrici, ma tale prova, come risulta dalla sentenza impugnata, era stata offerta, nella specie, dall’Ufficio. La sentenza impugnata, a pagina 2, nella parte relativa allo svolgimento del processo ha infatti dato atto delle prove che aveva offerto l’Ufficio con riguardo al contenuto del pvc, attraverso il quale era risultato, a seguito di indagine della Guardia di Finanza di Genova, che “nel corso delle operazioni di controllo alcuni dei fornitori della società contribuente risultavano essere delle scatole vuote, cioè soggetti la cui attività si concretizzava nella sola interposizione fittizia soggettiva nell’acquisto di auto dei paesi UE a favore di autosaloni italiani che erano i veri acquirenti di beni provenienti dall’ambito comunitario, ritenendo i verificatori che la società contribuente abbia effettuato acquisti dai suddetti fornitori con lo stesso meccanismo, beneficiando di un’IVA a credito solo fittiziamente versata dall’interposto”, ma ha poi, in modo tranciante, escluso che tali elementi fossero prove sufficienti non tanto della inesistenza soggettiva delle operazioni (che pare riconosciuta nella motivazione della sentenza) bensì soltanto del coinvolgimento della società Arenzano nella frode fiscale ed addirittura della partecipazione attiva della società Arenzano alla frode fiscale (evidentemente ritenuta, come frode, esistente dalla stessa sentenza impugnata); partecipazione che, secondo la sentenza impugnata avrebbe dovuto essere dimostrata attraverso la prova di accordi fra il contribuente ed i fornitori per attuare la frode fiscale, senza però indicare la regola iuris applicata e nel contempo indicando, quali prove contrarie che sarebbero stati prodotte dalla contribuente, le fatture ed i mezzi di pagamento per alcune vendite e cioè proprio uno di quegli elementi che, secondo la giurisprudenza consolidata non possono costituire una prova contraria, costituendo invece l’ordinario mezzo attraverso sui viene attuata tale tipologia di frode. E, in tal modo, la sentenza impugnata, in contrasto con la interpretazione della normativa offerta da questa Corte e dalla Corte di Giustizia, per cui gli elementi indiziari convergenti indicati nel pcv e nell’accertamento e trascritti nella sentenza impugnata erano astrattamente idonei ad assolvere alla prova richiesta all’Ufficio, non ha correttamente applicato le regole che disciplinano la prova presuntiva e l’onere della prova.

10.7. Appare opportuno aggiungere che la sentenza impugnata si pone in contrasto con i principi giuridici sopra richiamati anche laddove ha ritenuto che la Agenzia dovesse dare la prova certa del coinvolgimento della Arenzano Auto nella frode e che tale prova non potesse consistere negli elementi indiziari offerti dall’Ufficio, poichè, a parte il rilievo che non appare consentita la distinzione fra la prova indiziaria ed un’altra tipologia di prova, come se quella indiziaria non fosse una prova, incombeva alla Amministrazione dimostrare, anche in via presuntiva, che si trattava di società cartiere (e ciò era quanto emergente dalla ricostruzione dei fatti trascritta in sentenza) e che il contribuente era consapevole (o avrebbe dovuto esserlo usando la ordinaria diligenza) che la operazione si inseriva in una evasione di imposta, senza necessità di ulteriori prove e tanto meno della prova, pretesa dalla sentenza impugnata, di una partecipazione attiva alla frode da parte della società appellata, da fornire attraverso la dimostrazione di previ accordi con i fornitori finalizzati alla frode fiscale.

10.8. La violazione delle regole sulla divisione dell’onere della prova è stata correttamente posta anche con riguardo al quinto motivo di ricorso in relazione alla utilizzazione, da parte della sentenza impugnata, sia pure come elemento di conferma e di sostegno alla decisione assunta nel presente giudizio, delle sentenze nn. 4 e n. 5 del 2013 che aveva prodotto in causa la contribuente e che nella sentenza impugnata il giudice da atto di avere esaminato per trarne il supposto al convincimento che l’Ufficio non aveva fornito prove sufficienti suffragate da elementi gravi precisi e concordanti per dimostrare il coinvolgimento della società contribuente nella frode fiscale. Infatti si tratta di sentenze che, seppure fossero passate in giudicato (ma non lo erano), in base ai principi propri del giudicato esterno non avrebbero avuto alcun effetto vincolante nel presente giudizio, considerato che “nelle imposte periodiche l’effetto vincolante del giudicato esterno intervenuto su altre annualità, fa stato solo in relazione a quei fatti che, per legge, hanno efficacia tendenzialmente permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi d’imposta o nei quali l’accertamento concerne la qualificazione di un rapporto ad esecuzione prolungata” (v., per tutte, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 32254 del 13/12/2018; Rv. N. 651786 – 01), cosicchè nel caso in esame le valutazioni esposte con le suddette sentenze non potevano avere alcun rilievo.

10.9. Sul punto non si tratta, come sostiene la contribuente nel controricorso e nella successiva memoria, di un erroneo apprezzamento delle acquisizioni istruttorie che integrerebbe un vizio sindacabile in sede di legittimità soltanto come vizio della motivazione, bensì proprio, come correttamente rilevato dalla Agenzia delle Entrate, di violazione dell’art. 2697 c.c., sotto il profilo della erronea affermazione per cui sarebbe spettata alla Agenzia delle Entrate una prova vincolata della partecipazione attiva della società Arenzano alla frode fiscale, da fornire attraverso la dimostrazione di specifiche tracce di accordi con i fornitori per attuare la frode fiscale.

11. I motivi nn. 6 e 7 restano invece assorbiti così come la questione posta con la memoria difensiva dalla controricorrente con riguardo alla applicabilità, quale ius superveniens, del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 1, convertito dalla L. n. 44 del 2012, che sarebbe entrato in vigore nelle more della presentazione del giudizio di cassazione, con riguardo alla deducibilità dei costi relativi ad operazioni soggettivamente inesistenti, che saranno esaminati dal giudice del rinvio consequenzialmente alla decisione che adotterà.

11. In conclusione, rigettato il primo motivo e ritenuti inammissibili il terzo ed il quinto, assorbiti il sesto ed il settimo, la sentenza impugnata deve essere annullata in relazione al secondo ed al quinto motivo per non essersi la sentenza impugnata attenuta ai principi di diritto sopra indicati, discendenti da una giurisprudenza consolidata di questa Corte oltre che dai principi comunitari ugualmente sopra richiamati, con rinvio della causa per nuovo esame, in relazione ai motivi accolti, a diversa sezione della CTR della Liguria, che dovrà pronunciare sui motivi di appello posti dalla Agenzia delle Entrate sulla base dei principi di diritto sopra indicati. Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio.

PQM

La Corte, rigetta il primo motivo, dichiara inammissibili il terzo ed il quarto, accoglie il secondo ed il quinto, assorbiti il sesto ed il settimo, e, in relazione ai motivi accolti, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della Commissione Tributaria Regionale della Liguria, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2021

 

 

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