Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6619 del 16/03/2018

Cassazione civile, sez. VI, 16/03/2018, (ud. 14/12/2017, dep.16/03/2018),  n. 6619

Fatto

1. Nel 2010 Me.En. e M.F. (quest’ultimo, all’epoca dei fatti, minorenne e rappresentato ex art. 320 c.c., dalla madre Me.En.) convennero dinanzi al Tribunale di Como la società F. Edilizia Meccanica di F.G. & c. s.a.s. (d’ora innanzi, per brevità, “la F.”) e la società Vittoria Assicurazioni s.p.a. (d’ora innanzi, per brevità, “la Vittoria”), esponendo che:

-) erano, rispettivamente, la moglie e il figlio di M.R.;

-) M.R. perse la vita in conseguenza di un sinistro stradale avvenuto il (OMISSIS), allorchè il motociclo da lui condotto si scontrò con un autocarro di proprietà della F., condotto da T.E. ed assicurato contro i rischi della responsabilità civile dalla Vittoria;

-) T.E. venne condannato per omicidio colposo in primo grado ed assolto in grado di appello; la sentenza d’appello venne tuttavia cassata dalla quarta sezione penale di questa Corte con rinvio, ai soli effetti civili, alla Corte d’appello di Milano.

Conclusero, pertanto, chiedendo la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni rispettivamente patiti in conseguenza dei fatti sopra descritti.

2. Nel corso del giudizio intervennero volontariamente i genitori ( M.F. e D.C.) ed i fratelli della vittima ( M.A. e M.D.), anch’essi chiedendo la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni rispettivamente patiti in conseguenza della morte di M.R..

3. Con sentenza 28 dicembre 2011 n. 134, il Tribunale di Como accolse la domanda, ma attribuì alla vittima un concorso di colpa del 50 per cento.

4. La sentenza venne appellata dalla Vittoria in via principale, e dai congiunti di M.R. in via incidentale.

La prima lamentò che il Tribunale avesse sovrastimato il danno; i secondi si dolsero dell’attribuzione al proprio congiunto della percentuale di colpa determinata dal primo giudice.

5. Con sentenza 21 agosto 2015 n. 3435, la Corte d’appello di Milano accolse tutti e due gli appelli. Ritenne, in particolare:

-) che il danno non patrimoniale liquidato dal Tribunale ad Me.En. fosse eccessivo, per non aver il primo giudice tenuto conto del fatto che la giovane vedova, poco tempo dopo la morte del marito, contrasse un secondo matrimonio;

-) che il danno non patrimoniale liquidato dal Tribunale a M.F. (junior) fosse eccessivo, per non aver il primo giudice tenuto conto del fatto che il minore aveva solo otto mesi all’epoca della morte del padre; che pertanto non avrebbe potuto conservare un ricordo della figura paterna; che la madre aveva costituito un nuovo nucleo familiare con un secondo marito;

-) che erroneamente il Tribunale ritenne che, in conseguenza dell’illecito, Me.En. patì un danno alla salute di natura psichica;

-) che erroneamente il Tribunale avesse negato ad Me.En. e M.F. (junior) il risarcimento del danno patrimoniale da lucro cessante, consistito nella perdita del sostegno economico loro elargito dal defunto.

6. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione in via principale dai congiunti della vittima, con ricorso fondato su tre motivi; e dalla Vittoria in via incidentale, con ricorso fondato su due motivi (uno dei quali condizionato all’accoglimento del ricorso principale) ed illustrato da memoria.

Al ricorso incidentale proposto dalla Vittoria i ricorrenti principali hanno resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo del ricorso principale.

1.1. Col primo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 651 c.p.p..

Deducono, al riguardo, che il procedimento penale a carico di T.E. (come s’è detto, conducente dell’autocarro assicurato dalla Vittoria) si concluse in sede di legittimità con l’affermazione della responsabilità – ai fini civili – dell’imputato, e la speculare negazione della possibilità di manovre salvifiche da parte della vittima.

Pertanto la sentenza impugnata, attribuendo alla vittima una colpa pari a quella del conducente antagonista, avrebbe “violato il giudicato penale”, dal momento che, dopo la pronuncia della sentenza di legittimità, il giudice civile avrebbe dovuto condannare i convenuti “al risarcimento integrale o comunque maggiore dei danni” patiti dagli attori.

1.2. Il motivo è manifestamente infondato per plurime ragioni.

1.2.1. La prima ragione è che non risulta nè dal ricorso, nè dalla sentenza impugnata, nè dalla motivazione della sentenza della Quarta Sezione Penale di questa Corte 23.12.2004 n. 49303, che la Vittoria e la F. (ovvero le parti convenute nel presente giudizio civile) siano state citate come responsabili civili nel processo penale, ovvero vi abbiano preso parte.

In mancanza di tale partecipazione la sentenza penale di condanna è inopponibile al responsabile civile, secondo quanto chiaramente stabilisce l’art. 651 c.p.p. (“la sentenza penale (…) ha efficacia di giudicato (…) nel giudizio civile (…) per (…) il risarcimento del danno promosso nei confronti (…) del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”).

Nei confronti della Vittoria e della F., pertanto, la Corte d’appello non può aver violato l’art. 651 c.p.p., per la semplice ragione che quella norma non doveva essere applicata, e correttamente non lo fu.

1.2.2. La seconda ragione è che (come si rileva dalla motivazione della sentenza della quarta sezione penale di questa Corte, 23.12.2004 n. 49303), il giudice penale d’appello assolse l’imputato per insufficienza di prove, ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2.

Questa Corte in sede penale cassò tale decisione (ai soli fini civili), ritenendo che l’istruttoria compiuta in sede penale avesse fornito elementi certi dai quali desumere la colpa dell’imputato.

L’oggetto del decisum fu dunque l’esistenza o meno della penale responsabilità dell’imputato, e non l’esistenza o meno della colpa concorrente della vittima.

Il passo della motivazione sul quale tanto hanno insistito gli odierni ricorrenti (“alcuna possibilità di evitare l’impatto era offerta al motociclista”) costituiva dunque, nella struttura della sentenza penale di legittimità, un mero obiter dictum.

1.2.3. La terza ragione è che, anche se in ipotesi il giudice penale avesse voluto estendere la propria indagine sino a sindacare la condotta della vittima, tale statuizione non sarebbe vincolante per il giudice civile.

Questa Corte, infatti, ha già ripetutamente stabilito che l’art. 651 c.p.p., attribuisce efficacia vincolante, in sede civile, alla sentenza penale irrevocabile solo per quanto attiene:

(a) all’accertamento della sussistenza del fatto illecito;

(b) all’accertamento della sua illiceità penale;

(c) all’affermazione che l’imputato lo ha commesso. Qualsiasi altra statuizione che dovesse essere contenuta nella sentenza penale (ad esempio, sul concorso di colpa della vittima, sulla sua gravità, sulla sua efficienza causale rispetto al danno) non vincola il giudice civile, perchè non esiste una norma che attribuisca efficacia vincolante a tali statuizioni.

Tali principi, come si accennava, sono già stati affermati varie volte da questa Corte: ed in special modo da Sez. 3, Sentenza n. 1665 del 29/01/2016, la quale ha negato l’effetto di vincolo alla statuizione, contenuta in una sentenza penale irrevocabile, con cui il giudice penale ritenne legittima la condotta della parte offesa dal reato (che a sua volta aveva causato danno al reo), perchè compiuta per legittima difesa; e da Sez. 3, Sentenza n. 27723 del 16/12/2005, la quale ha ritenuto che la condanna generica al risarcimento del danno in favore della parte civile, contenuta nella sentenza penale, non impedisca al giudice civile ritenere sussistente un concorso causale della vittima nella produzione dell’evento dannoso.

2. Il secondo motivo del ricorso principale.

2.1. Col secondo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, (è denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 111 Cost., comma 6), sia dal vizio di omesse esame d’un fatto decisivo.

Deducono, al riguardo, che la sentenza sarebbe “immotivata in quanto omissiva di un fatto decisivo per il giudizio”. Spiegano tale affermazione deducendo che la Corte d’appello, nell’attribuire alla vittima una colpa concorrente, non avrebbe considerato che M.R. impattò contro la fiancata d’un autocarro che si pose trasversalmente rispetto alla strada, e che in ragione della sua lunghezza (pari a 7,78 metri), la vittima non avrebbe potuto evitarlo.

2.2. Nella parte in cui lamenta “l’omessa motivazione” il motivo – al di là della correttezza del riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, – è infondato: la Corte d’appello, infatti, ha indicato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistere la colpa concorrente della vittima alla pag. 8, terzo e quarto capoverso, della propria sentenza.

2.3. Nella parte in cui lamenta l’omesso esame d’un fatto decisivo il motivo è del pari infondato.

La Corte d’appello, infatti, ha ritenuto che la vittima fosse in colpa per avere violato il limite velocità esistente sul luogo del sinistro, procedendo a 78 km/h in un punto in cui la velocità massima consentita era di soli 50 km/h: evidentemente ritenendo che una velocità più moderata avrebbe consentito al motociclista di arrestare per tempo il proprio mezzo ed evitare l’impatto.

Il fatto che i ricorrenti assumono non essere stato considerato è dunque privo di decisività, perchè anche se fosse stato espressamente considerato, la decisione non sarebbe potuta essere differente. Da ciò discende l’infondatezza del motivo.

3. Il terzo motivo del ricorso principale:

3.1. Col terzo motivo di ricorso i ricorrenti sostengono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione dell’art. 111 Cost., comma 6; artt. 1223,1226,1227 e 2056 c.c..

Deducono, al riguardo, che la Corte d’appello, nel liquidare il danno patrimoniale da lucro cessante (consistente nella perdita delle elargizioni erogate dal defunto alla moglie ed al figlio) avrebbe commesso due errori:

-) da un lato, ha trascurato di considerare che, a causa della giovane età della vittima, il reddito di questa sarebbe verosimilmente cresciuto negli anni a venire;

-) dall’altro, ha trascurato di rivalutare il reddito goduto dalla vittima all’epoca della morte (1999) alla data della decisione (2015).

Nell’illustrazione del motivo i ricorrenti soggiungono che la Corte d’appello non avrebbe adottato un “percorso motivazionale idoneo a rendere manifeste le ragioni su cui si fonda la decisione di quantificare il danno patrimoniale in base alla capitalizzazione vitalizia”.

3.2. Nella parte in cui il motivo in esame fa un (assai confuso) riferimento alla scelta del giudice di liquidare il danno da lucro cessante in base alla “capitalizzazione vitalizia” il motivo va dichiarato inammissibile per totale inintelligibilità.

Esso non consente di comprendere, in particolare, se i ricorrenti si stiano dolendo della scelta di liquidare un capitale invece che una rendita, e per quale ragione avrebbero preferito la liquidazione in forma di rendita.

Gioverà ricordare, in ogni caso, che il danno permanente da lucro cessante non consente che l’alternativa tra la liquidazione in forma di capitale e quella in forma di rendita (art. 2057 c.c.); che la scelta è rimessa alla discrezionalità del giudice di merito; che dal punto di vista finanziario la liquidazione nell’una o nell’altra forma è indifferente, se correttamente individuato il coefficiente di capitalizzazione; che, in ogni caso, quel che può essere “vitalizio” è la rendita da capitalizzazione, non certo l’operazione di capitalizzazione.

3.3. Nella parte restante il motivo deve ritenersi proposto dai soli Me.En. e M.F. (junior), ed è fondato.

L’uccisione d’una persona può causare ai suoi familiari un danno patrimoniale da lucro cessante, consistente nella perdita dei benefici economici che la vittima destinava loro: o per legge (ad es., ex artt. 143 o 147 c.c.), o per costume sociale, a condizione che non si trattasse di sovvenzioni episodiche (le quali ovviamente a cagione della loro sporadicità non consentirebbero di presumere ex art. 2727 c.c. che, se la vittima fosse rimasta in vita, sarebbero continuate per l’avvenire).

Il danno in questione può essere liquidato sia in forma di rendita (art. 2057 c.c.), sia in forma di capitale.

Se viene scelta la liquidazione in forma di capitale, questa deve avvenire:

(a) determinando il reddito della vittima al momento della morte;

(b) detraendone la quota presumibilmente destinata ai bisogni personali della vittima o al risparmio;

(c) moltiplicando il risultato per:

(c’) un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie, se sia ragionevole ritenere che, in mancanza dell’illecito, il superstite avrebbe continuato a godere del sostegno economico del defunto vita natural durante; in tal caso il coefficiente da scegliere dovrà essere corrispondente all’età della vittima se questa sia più giovane dell’alimentato, ed all’età di quest’ultimo nel caso contrario;

(c”) un coefficiente di capitalizzazione delle rendite temporanee, se sia ragionevole ritenere che, in mancanza dell’illecito, il superstite avrebbe continuato a godere del sostegno economico del defunto non già vita natural durante, ma solo per un periodo di tempo determinato; in tal caso il coefficiente da scegliere dovrà essere corrispondente alla durata presumibile per la quale sarebbe proseguito il sostegno economico.

3.4. Nel determinare il reddito della vittima da porre a base del calcolo non va dimenticato che il risarcimento del danno è operazione governata dal principio di indifferenza, in virtù del quale la liquidazione deve comprendere tutto il danno, e nient’altro che il danno (art. 1223 c.c.).

Da ciò consegue che l’importo del reddito goduto dalla vittima al momento della morte deve essere opportunamente ritoccato per evitare sovra – o sottostime.

In particolare, dal reddito suddetto deve essere detratto l’ammontare delle spese per la produzione del reddito ed il carico fiscale, che in assenza del fatto illecito avrebbero rappresentato voci di spesa, e come tali avrebbero ridotto il reddito disponibile per i familiari. Se, infatti, non avvenisse tale detrazione, il risarcimento da distribuire ai familiari della vittima sarebbe maggiore del reddito che avrebbero avuto a disposizione se non fosse avvenuto l’illecito, e la liquidazione sarebbe iniqua per il debitore.

Tuttavia è altrettanto doveroso tenere conto – se la circostanza sia stata debitamente allegata e provata, anche per presunzioni – dei verosimili incrementi futuri che quel reddito avrebbe avuto, se la vittima avesse potuto continuare a svolgere il proprio lavoro.

Qualsiasi reddito da lavoro, infatti, è destinato secondo l’id quod plerurnque accidit a crescere col tempo: vuoi per l’affinamento delle capacità del lavoratore autonomo, dovuto all’accrescimento delle esperienze; vuoi per effetto del maturare dell’anzianità del lavoratore dipendente, che comporta di norma incrementi salariali.

Ora, poichè l’operazione di capitalizzazione consiste nel trasformare una rendita in un capitale, essa potrà avvenire in base all’ultimo reddito goduto dalla vittima nel solo caso in cui sia possibile ritenere che, se la vittima fosse rimasta in vita, il suo reddito non si sarebbe verosimilmente incrementato.

Una valutazione di questo tipo sarebbe tuttavia consentito solo nel caso di morte d’un lavoratore agee e prossimo all’età pensionabile, ovvero svolgente un lavoro che non gli consente alcun incremento reddituale futuro.

Nel caso, invece, di lavoratori giovani, corrisponde ad un criterio di normalità che il loro reddito cresca con l’andare del tempo.

Porre, pertanto, a base del calcolo di capitalizzazione l’ultimo reddito goduto dalla vittima, senza alcun incremento equitativo per tenere conto degli sviluppi futuri, costituisce una violazione dell’art. 1223 c.c., in quanto conduce per quanto appena detto ad una sottostima del risarcimento.

3.5. Questi principi sono stati da tempo, ed in varie occasioni, affermati da questa Corte, ed in particolare da Sez. 3, Sentenza n. 8177 del 06/10/1994, secondo cui nella liquidazione del danno futuro per la morte di un congiunto che con certezza o con rilevante grado di probabilità avrebbe continuato ad elargire ai superstiti durevoli e costanti sovvenzioni, il giudice deve tenere conto non solo del reddito della vittima al momento del sinistro, ma anche dei probabili incrementi di guadagno dovuti (…) allo sviluppo della carriera ed ad altri consimili eventi che con prudente apprezzamento e sulla base dell’id quod plerumque accidit si sarebbero verificati”.

Sussiste, pertanto, la denunciata violazione dell’art. 1223 c.c..

Va da sè che il giudice del rinvio, quando dovrà tornare a stimare il danno in esame, non potrà non tenere conto della circostanza delle nuove nozze della danneggiata, e valutare se ed in che misura tale circostanza abbia fatto cessare la permanenza del danno da lucro cessante.

4. Il primo motivo del ricorso incidentale.

4.1. Col proprio ricorso incidentale la Vittoria ha formulato un primo motivo (pp. 16 e ss. del controricorso) condizionato all’accoglimento del terzo motivo del ricorso principale.

Tale motivo va dunque ora esaminato, stante la ritenuta fondatezza del terzo motivo del ricorso principale.

4.2. Col primo motivo di ricorso incidentale la Vittoria sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta sia da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, (si lamenta, in particolare, la violazione degli artt. 1223 e 2056 c.c.); sia dal vizio di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, (nel testo modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito nella L. 7 agosto 2012, n. 134).

Deduce, al riguardo, che la Corte d’appello ha liquidato il danno patrimoniale da lucro cessante patito da Me.En. a M.F. (junior) commettendo due errori:

-) da un lato, ponendo a base del calcolo il reddito lordo, e non quello netto, della vittima;

-) dall’altro, trascurando di considerare che Me.En. aveva un proprio reddito, e che di conseguenza la quota di reddito che la Corte d’appello ha ritenuto destinata da M.R. ai bisogni della famiglia (ovvero i due terzi) si sarebbe dovuta stimare in misura inferiore.

4.3. Nella parte in cui lamenta l’omesso esame del fatto decisivo il motivo è infondato: il “fatto” costitutivo della pretesa, nel nostro caso, è la perdita degli emolumenti erogati dal defunto ai familiari, e tale fatto è stato esaminato dalla Corte. Stabilire, poi, se le prove siano state valutate bene o male è questione di merito, sottratta al sindacato di legittimità.

4.4. Nella parte in cui lamenta la violazione di legge il motivo è invece fondato, con riferimento all’art. 1223 c.c., per le medesime ragioni già esposte supra, p. 3.4: ovvero che la liquidazione del danno patrimoniale è governata dal “principio di indifferenza”; che pertanto all’esito di essa il danneggiato non può risultare nè più povero, nè più ricco di quanto non sarebbe stato in mancanza del fatto illecito; che il danneggiato si arricchirebbe se, a base del calcolo del danno patrimoniale da uccisione d’un prossimo congiunto, fosse posto il reddito goduto dalla vittima, al lordo del prelievo fiscale (e delle spese di produzione del reddito).

Aggiungasi che il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, nel disciplinare il trattamento fiscale delle somme percepite a titolo di risarcimento del danno, stabilisce che “le indennità conseguite (…) a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti”.

Il risarcimento del danno patrimoniale da morte o da invalidità è dunque, per scelta di politica legislativa, un reddito fiscalmente esente: e se il risarcimento avvenisse in base al reddito lordo della vittima, il danneggiato si arricchirebbe, per di più senza beneficio per l’erario.

Il criterio di indifferenza sarà invece rispettato solo ove si faccia in modo che così come, se l’illecito fosse mancato, i familiari del lavoratore avrebbero goduto del reddito residuo dopo il prelievo fiscale, allo stesso modo, se il redito perduto deve essere sostituito da un risarcimento, quest’ultimo dovrà essere calcolato al netto del prelievo fiscale.

4.5. In conclusione, tanto il terzo motivo del ricorso principale, quanto il primo motivo del ricorso incidentale, vanno accolti, e la sentenza impugnata cassata con rinvio alla Corte d’appello di Milano, la quale nel tornare a liquidare il danno da lucro cessante si atterrà al seguente principio di diritto:

“La liquidazione del danno patrimoniale da lucro cessante, patito dalla moglie e dal figlio di persona deceduta per colpa altrui, e consistente nella perdita delle elargizioni erogate loro dal defunto, se avviene in forma di capitale e non di rendita, va compiuta, per la moglie, moltiplicando il reddito perduto dalla vittima per un coefficiente di capitalizzazione delle rendite vitalizie, corrispondente all’età del più giovane tra i due; e per il figlio in base ad un coefficiente di capitalizzazione d’una rendita temporanea, corrispondente al numero presumibile di anni per i quali si sarebbe protratto il sussidio paterno; nell’uno, come nell’altro caso, il reddito da porre a base del calcolo dovrà comunque: (a) essere equitativamente aumentato, per tenere conto dei presumibili incrementi che il lavoratore avrebbe ottenuto, se fosse rimasto in vita; (b) essere ridotto della quota di reddito che la vittima avrebbe destinato a sè, del carico fiscale e delle spese per la produzione del reddito”.

2. Il secondo motivo del ricorso incidentale.

2.1. Col secondo motivo di ricorso incidentale la Vittoria sostiene che la sentenza impugnata sarebbe affetta da un vizio di violazione di legge, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. E’ denunciata, in particolare, la violazione degli artt. 1194,1223 e 2056 c.c..

La ricorrente incidentale sostiene che la Corte d’appello avrebbe errato nel conteggiare il credito residuo degli attori, al netto degli acconti pagati dall’assicuratore.

Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene due censure.

2.2. Con una prima censura la società Vittoria deduce che la Corte d’appello per calcolare il credito residuo vantato dagli attori, al lordo degli accessori ed al netto degli acconti già ricevuti, ha commesso un errore che ha determinato una sovrastima del danno.

La Corte d’appello, spiega la ricorrente, per defalcare dal credito risarcitorio degli attori gli acconti pagati dalla Vittoria ha proceduto i n questo modo:

(-) ha devalutato il credito alla data del sinistro;

(-) ha calcolato gli effetti della mora (scilicet, l’applicazione degli interessi c.d. compensativi, al saggio legale e sul credito devalutato alla data del sinistro, e poi rivalutato anno per anno) dalla data del sinistro a quella di pagamento del primo acconto (1.8.2001);

(-) ha detratto l’acconto (espresso in moneta del 2001) dal credito risarcitorio, rivalutato e con gli interessi fino al 2001.

Quindi, sulla differenza, ha calcolato nuovamente gli interessi e la rivalutazione dalla data di pagamento del primo acconto a quella di 1 secondo acconto e la liquidazione.

Tuttavia la differenza risultante dalla sottrazione tra il credito risarcitorio espresso in moneta del 2001, e l’acconto pagato il 1.8.2001, già comprendeva interessi e rivalutazione: sicchè la Corte d’appello ha finito per calcolare la mora su un credito già comprensivo della mora.

2.3. Con una seconda censura, la ricorrente incidentale sostiene che la Corte d’appello ha defalcato dal credito risarcitorio solo due acconti, mentre la Vittoria ne aveva pagati quattro.

2.4. Ambedue le censure appena riassunte sono fondate.

L’illustrazione delle ragioni della fondatezza del motivo di ricorso qui in esame esige una breve premessa teorica, alla luce della quale risolvere gli infiniti problemi posti dalla pratica, allorchè si tratta di stabilire quali siano gli effetti del decorso del tempo sull’obbligo di risarcimento del danno.

Alle obbligazioni c.d. di valore, qual è l’obbligo di risarcire il danno aquiliano, non si applicano le norme dettate per le obbligazioni pecuniarie, altrimenti dette di valuta: non quelle sull’imputazione (art. 1194 c.c.), nè quelle sulla mora (art. 1224 c.c.); nè quelle sull’anatocismo (art. 1283 c.c.).

Ciò non vuol dire che il ritardato adempimento dell’obbligo di risarcimento del danno sia senza conseguenze: se così fosse, non avrebbe senso alcuno l’art. 1219 c.c., a norma del quale il debitore dell’obbligazione di risarcimento del danno è in mora ex re dal giorno dell’illecito.

Le conseguenze della mora sulle obbligazioni di valore, non espressamente disciplinate dalla legge, sono state da tempo stabilite dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale ha fissato al riguardo i seguenti principi:

(a) il debitore tenuto al risarcimento del danno ha l’obbligo di pagare al creditore l’equivalente monetario del bene perduto, espresso in moneta dell’epoca della liquidazione, il che si ottiene con la rivalutazione del credito, salvo che il giudice ovviamente l’abbia già liquidato in moneta attuale;

(b) il debitore tenuto al risarcimento del danno è tenuto altresì, dal giorno della morra, a pagare al creditore il lucro cessante finanziario, ovvero i frutti che il denaro dovutogli a titolo di risarcimento avrebbe potuto produrre in caso di tempestivo adempimento (e dunque dal giorno dell’illecito, ex art. 1219 c.c.);

(c) il danno sub (b) si può liquidare anche (ma non solo) applicando un saggio di interessi (c.d. compensativi), equitativamente scelto dal giudice, su un capitale costituito dal credito risarcitorio devalutato all’epoca del fatto, e rivalutato anno per anno (tutti questi principi sono stabiliti da Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995).

La ratio sottesa dai suddetti principi sta in ciò: che la mora nelle obbligazioni di valore produce al creditore un danno ulteriore, che diventa una componente del credito risarcitorio, e la liquidazione del quale deve avvenire, per così dire, simulando quel che il creditore avrebbe potuto ricavare dall’investimento della somma a lui dovuta, se gli fosse stata tempestivamente pagata.

2.5. E’ in base a tali principi che deve risolversi il problema dell’imputazione degli acconti pagati dal debitore prima della liquidazione definitiva.

Se, infatti, il pagamento degli interessi compensativi ha lo scopo di compensare il creditore per la perduta possibilità di investire la somma dovutagli e farla fruttare, ne discende che, nel caso di pagamenti in acconto, il creditore:

(a) nel periodo compreso tra il danno e il pagamento dell’acconto, a causa della mora debendi ha perduto la possibilità di investire e far fruttare l’intero importo dovutogli: e dunque il danno da mora deve, per questo periodo, replicare il lucro che il creditore avrebbe teoricamente potuto ottenere dall’investimento dell’intero credito risarcitorio;

(b) dopo il pagamento dell’acconto, il creditore non può più dolersi di avere perduto i frutti finanziari teoricamente ottenibili dall’investimento dell’intero capitale dovutogli; dopo il pagamento dell’acconto, infatti, il lucro cessante del creditore si riduce alla perduta possibilità di investire e far fruttare il capitale che residua dopo il pagamento dell’acconto.

Questo essendo il criterio che deve presiedere alla liquidazione del danno da mora nelle obbligazioni di valore, ne segue che nel caso di pagamento di acconti, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso le seguenti operazioni:

(a) rendere omogenei il credito risarcitorio e l’acconto (devalutandoli entrambi alla data dell’illecito, ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione);

(b) detrarre l’acconto dal credito;

(c) calcolare gli interessi compensativi ad un saggio scelto in via equitativa, ed applicato:

(c’) sull’intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo che va dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto;

(c”) sulla somma che residua in conto capitale dopo la detrazione dell’acconto, per il periodo che va dal pagamento parziale fino alla liquidazione definitiva (così già Sez. 3, Sentenza n. 9950 del 20/04/2017; Sez. 3, Sentenza n. 6347 del 19/03/2014).

Nei suddetti termini, come già affermato dalla prima delle due sentenze da ultimo citate, va ribadito che deve ritenersi superato il contrario precedente di questa Corte, secondo cui “qualora prima della liquidazione definitiva del danno da fatto illecito il responsabile versi un acconto al danneggiato, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio (…) devalutando alla data dell’evento dannoso sia il credito risarcitorio (…) che l’acconto versato; detraendo quest’ultimo dal primo e calcolando sulla differen.za il danno da ritardato adempimento (c.d. interessi compensativi). (Sez. 3, Sentenza n. 6357 del 21/03/2011).

Tale criterio non appare infatti sostenibile, perchè incoerente con la ratio e lo scopo dei principi che disciplinano la mora nelle obbligazioni di valore, come stabiliti da Cass. sez. un. 1712/95, cit., e conduce di fatto ad una sottostima del danno.

2.6. Alla luce di quanto sin qui detto può ora tornarsi ad esaminare il secondo motivo del ricorso incidentale.

Come s’è visto, il debitore moroso d’una obbligazione di valore deve pagare al creditore una somma di denaro composta di due addendi: il controvalore economico del danno provocato, e il lucro cessante derivante dal ritardato pagamento di tale controvalore.

Poichè la misura del lucro cessante dipende da quella del capitale, quando vengono pagati degli acconti occorre detrarre capitale da capitale, e calcolare gli interessi compensativi su quel che resta.

La sentenza impugnata, invece, non s’è attenuta a questo principio.

Essa infatti ha detratto l’acconto pagato dalla Vittoria il 1.8.2001 dal coacervo del capitale (cioè il credito risarcitorio) e del lucro cessante (cioè gli interessi compensativi); sulla somma residuata a tale sottrazione (e quindi un importo costituito dal cumulo di capitale e mora) ha poi calcolato gli ulteriori interessi compensativi.

Così facendo la Corte d’appello ha mescolato il credito per capitale e quello per lucro cessante, ed ha calcolato quest’ultimo, per il periodo di tempo successivo al pagamento del primo acconto, non solo sul capitale rivalutato anno per anno, ma anche sugli interessi compensativi già conteggiati, che anch’essi sono stati perciò rivalutati e resi produttivi di ulteriori interessi.

Questo errore ha provocato una sovrastima del danno perchè, nel caso di tempestivo adempimento, se i creditori avessero investito le somme incassate non avrebbero potuto ottenere la corresponsione di interessi sugli interessi.

Si badi che in questo caso non si tratta di stabilire se vi sia stato o no anatocismo, sicchè è fuori luogo il richiamo, contenuto nel controricorso al ricorso incidentale, all’inapplicabilità dell’art. 1283 c.c., alle obbligazioni di valore.

La sentenza impugnata è erronea non perchè abbia violato l’art. 1283 c.c., (inapplicabile alle obbligazioni di valore), ma perchè ha liquidato il danno da mora in modo non replicativo del lucro che il creditore avrebbe teoricamente potuto ottenere dall’investimento del denaro, se il risarcimento fosse stato tempestivo, ed ha perciò violato l’art. 1223 c.c..

Questa Corte, peraltro, non può fare a meno di rilevare – ad abundantiam – che il criterio applicato dalla Corte d’appello, oltre che erroneo in diritto, appare in alcuni punti incomprensibile nello sviluppo, come allorchè – nel liquidare il credito di D.C. dopo avere determinato in Euro 65.714,21 il credito (comprensivo di interessi e rivalutazione) alla data del 1.8.2001, ha poi determinato in Euro 73.913,23 il medesimo credito, maggiorato di interessi e rivalutazione, alla data del 24.10.2001, ovvero soli 85 giorni dopo.

2.7. La sentenza deve quindi essere cassata anche sotto questo profilo, con rinvio alla Corte d’appello di Milano, la quale nel liquidare nuovamente il danno si atterrà al seguente principio di diritto:

“la liquidazione del danno da ritardato adempimento d’una obbligazione di valore, nel caso in cui il debitore abbia pagato un acconto prima della liquidazione definitiva, deve avvenire: (a) devalutando l’acconto e il credito alla data dell’illecito; (b) detraendo l’acconto dal credito; (c) calcolando gli interessi compensativi individuando un saggio scelto in via equitativa, ed applicandolo sull’intero capitale, rivalutato anno per anno, per il periodo che va dalla data dell’illecito al pagamento dell’acconto; sulla somma che residua dopo la detrazione dell’acconto, rivalutata anno per anno, per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva”.

2.8. Anche la seconda censura contenuta nel secondo motivo di ricorso incidentale è fondata.

La Vittoria aveva infatti allegato al fascicolo d’appello le quietanze dei pagamenti effettuati nel 2012 (quattro), che sono state trascurate dalla Corte d’appello: e poichè l’avvenuto pagamento d’un acconto è fatto modificativo della pretesa, il non averlo considerato integra effettivamente gli estremi del vizio di omesso esame d’un fatto decisivo.

3. Le spese.

Le spese del presente giudizio di legittimità saranno liquidate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

(-) accoglie il terzo motivo del ricorso principale; rigetta gli altri motivi del ricorso principale;

(-) accoglie il ricorso incidentale;

(-) cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile della Corte di Cassazione, il 14 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 16 marzo 2018

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