Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6618 del 01/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 01/03/2022, (ud. 25/01/2022, dep. 01/03/2022), n.6618

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 11442/2013 R.G. proposto da:

GAMBRINUS DI Z.A. & C. S.A.S., in persona del legale

rappresentante, Z.A., Z.L.G.,

ZA.MA.RO., tutti rappresentati e difesi dall’avv. Loris Tosi e

dall’avv. Giuseppe Marini ed elettivamente domiciliati presso lo

studio di quest’ultimo in Roma, via di Villa Sacchetti, n. 9;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso

la quale è elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi,

n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2/05/2013 della Commissione tributaria

regionale del Veneto, depositata il 21 gennaio 2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

25 gennaio 2022 dal consigliere Dott.ssa Pasqualina A. P. Condello.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. La società Gambrinus di Z.A. & C. s.a.s., esercente attività di ristorazione, ed i soci Z.A., Z.L.G. e Za.Ma.Ro. impugnarono gli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle entrate aveva recuperato a tassazione maggiori ricavi e, dunque, maggiore imponibile ai fini IRAP e I.V.A. in capo alla società e ai fini IRPEF a carico dei soci, in relazione agli anni d’imposta 2004 e 2005.

La ripresa fiscale, secondo quanto esposto dalla sentenza impugnata, traeva origine da una verifica a carico del fornitore, Hausbrandt Trieste 1892 s.p.a., svolgente l’attività di lavorazione e commercio del caffe’, nel corso della quale erano stati rinvenuti documenti extracontabili dai quali era risultato che, nei periodi di imposta 2004 e 2005, la predetta società aveva ceduto alla Gambrinus di Z.A. & C. s.a.s. quantitativi di caffe’ in assenza di relativa fatturazione; sulla base di tali dati, applicando una percentuale di ricarico, l’Ufficio finanziario aveva proceduto alla ricostruzione dei ricavi conseguiti dal ristorante, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 1.

Nel chiedere l’annullamento degli atti impositivi, le parti contribuenti dedussero, con riguardo all’anno 2004, che la metodologia di accertamento adottata dall’Ufficio era viziata, quanto ai cali ed agli sfridi del materiale, all’utilizzo alternativo dei prodotti, che incidevano sui quantitativi di materie prime e sulle dosi di prodotto utilizzate nel confezionamento delle pietanze, nonché in ordine all’individuazione dei prezzi medi per porzione ed al numero dei coperti serviti; per l’anno 2005, eccepirono la nullità degli atti impositivi perché privi della firma del responsabile del servizio.

I giudici provinciali accolsero i ricorsi facendo propria, in relazione all’anno 2005, l’eccezione di nullità sollevata dalle parti contribuenti.

2. Avverso la sentenza di primo grado interpose appello l’Ufficio finanziario e la Commissione tributaria regionale lo accolse, respingendo il ricorso delle parti contribuenti, “tranne che per la decurtazione di Euro 11.199 del maggior imponibile accertato per il 2004”.

Disattesa l’eccezione di nullità degli avvisi di accertamento relativi all’annualità 2005, perché tardivamente sollevata e non rilevabile d’ufficio, osservò che dalla documentazione extracontabile acquisita presso la ditta Hausbrandt Trieste 1892 s.p.a., che costituiva contabilità parallela rispetto a quella ufficiale, si evinceva sia che le operazioni ivi indicate non risultavano annotate nella contabilità ufficiale, sia che nell’anno 2004 la società aveva ceduto “in nero” alla Gambrinus di Z.A. & C. s.a.s. lotti di caffe’ per un rilevante imponibile; di conseguenza, legittimamente, l’Ufficio aveva segnalato la cessione non contabilizzata, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), non incorrendo nella violazione dell’art. 7 dello Statuto del contribuente, posto che le risultanze del processo verbale erano dettagliate. Rilevò, altresì, che la ricostruzione operata appariva congrua e che risultava adeguatamente provato che la società contribuente fosse cliente della Hausbrandt per quantitativi di caffe’ di gran lunga superiori a quelli formalmente dichiarati, non avendo, peraltro, la contribuente replicato con adeguate argomentazioni, limitandosi a mere affermazioni generiche. Quanto alla metodologia di accertamento, affermò che “gli acquisti di confezioni di pasta e riso denotavano un volume d’affari di notevole rilevanza”, risultando privo di pregio l’assunto difensivo di parte contribuente secondo cui le confezioni erano state in gran parte acquistate per il confezionamento di ceste natalizie, perché sussistevano incongruenze nel contenuto di ciascuna confezione e perché tali confezioni venivano richiese solo in un limitato periodo dell’anno. Aggiunse che: “in taluni casi la quantità di giacenze finali” era superiore alle quantità acquistate, mentre era congrua la quantità di sfrido dichiarata dall’Ufficio, non essendo pensabile che una cucina organizzata con tempi di lavorazione precisi, oltre che compiti suddivisi tra più operatori, potesse errare continuamente nelle quantità e nelle cotture; “le stesse quantità di pietanza, carne o pesce, nelle porzioni” dovevano essere considerate “secondo il rango ed il nome del locale”, per cui era ragionevole la ricostruzione fatta dall’Ufficio che analizzava una porzione tipo nella quale rilevava la presentazione del piatto. Ritenne, inoltre, “coerenti le ricostruzioni del prezzo per piatto, sia alla carta sia inserito in un menù”, sottolineando che il volume d’affari verificato era del tutto sproporzionato rispetto all’utile irrisorio d’esercizio, che rendeva del tutto antieconomica l’attività svolta, e che la metodologia adottata dall’Ufficio era l’unica che potesse essere seguita per la ricostruzione dei redditi in un settore di attività in cui i numerosi passaggi nella circolazione delle merci e la molteplicità dei servizi offerti rendevano di fatto impossibile ricorrere ad altri criteri.

Motivò, inoltre, che eventuali irregolarità riguardanti la notifica dell’atto impositivo dovevano intendersi sanate, stante la tempestiva proposizione del ricorso, e che il calcolo delle sanzioni era corretto, anche se l’Ufficio aveva riconosciuto errori materiali, di non rilevante entità, che dovevano essere emendati in sede di recupero a tassazione.

3. La società contribuente ed i soci hanno proposto ricorso per cassazione, con quattordici motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate mediante controricorso.

4. In data 7 giugno 2019 le parti contribuenti, dichiarando di volersi avvalere della definizione agevolata delle liti di cui al D.L. n. 119 del 2018, art. 6 hanno depositato istanza di sospensione del processo.

In data 18 dicembre 2020 l’Agenzia delle entrate ha depositato istanza di trattazione, ai sensi del D.L. n. 119 del 2018, art. 6, comma 13, chiedendo la declaratoria di estinzione del giudizio per cessata materia del contendere, con compensazione delle spese di lite, limitatamente al giudizio concernente le posizioni della società Gambrinus di Z.A. & C. s.a.s. e dei soci Z.L.G. e Za.Ma.Ro. e del socio Z.A. per l’anno 2005, e la prosecuzione del giudizio con riguardo all’impugnazione dell’avviso di accertamento notificato a Z.A. per l’anno d’imposta 2004.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo di ricorso i contribuenti hanno dedotto, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio, lamentando che i giudici di appello avrebbero erroneamente ritenuto che l’eccezione di carenza di firma del responsabile dell’Ufficio, relativamente agli avvisi di accertamento per l’annualità 2005, non fosse stata formulata tempestivamente.

2. Con il secondo motivo, censurando la decisione gravata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 61 i ricorrenti deducono che i giudici di secondo grado, mal interpretando la disposizione normativa richiamata, hanno inteso sostenere che l’eccezione di nullità dovesse essere proposta, a pena di nullità, nel ricorso introduttivo del giudizio, non tenendo conto che in realtà l’eccezione poteva essere fatta valere nel corso di tutto il primo grado di giudizio.

3. Con il terzo motivo di ricorso, rubricato “art. 360 c.p.c., n. 5. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla ricostruzione induttiva dei ricavi proposta dall’Ufficio di Treviso. Le eccezioni della società ricorrente, ignorate dalla Commissione tributaria regionale, dimostrano l’erroneità dei risultati ottenuti dai verificatori”, le parti ricorrenti sostengono, con riferimento al periodo d’imposta 2004, che l’Ufficio ha adottato una metodologia di ricostruzione induttiva dei ricavi che è giunta a contestare l’evasione della somma di Euro 622.256,41, ottenuta attraverso un meccanismo di calcolo basato su convinzioni personali dell’Ufficio, prive di riscontro nella realtà aziendale e smentite dalle istruzioni del Ministero delle Finanze.

Si dolgono, in particolare, che i giudici di merito non hanno preso in considerazione le obiezioni formulate dalla società, secondo le quali una realtà complessa ed articolata, quale è quella di un ristorante, non può trovare rappresentazione in un semplicistico conteggio algebrico. Evidenziano, al riguardo, che:

a) la società aveva denunciato l’erroneità della ricostruzione operata dai verificatori laddove questi avevano ritenuto che il ristorante non avesse alcuno “spreco” dei prodotti destinati alla somministrazione, ma i giudici di appello avevano ritenuto congrua la quantità di sfrido dichiarata dall’Ufficio, senza considerare che lo “spreco” va distinto dallo “sfrido”, che è evento fisiologico nella gestione di un ristorante, e omesso di prendere in esame i numerosi fattori evidenziati, quali il naturale deperimento dei prodotti entro la data di scadenza, la rottura delle confezioni e la dispersione dei prodotti, le rotture ed i guasti dei frigoriferi, l’abitudine di tutti i ristoranti di offrire gratuitamente piatti ai propri clienti a scopi promozionali;

b) nella quantificazione presuntiva dei primi piatti a base di riso e pasta secca erano stati erroneamente presi in considerazione vari quantitativi di pasta e riso destinati alla composizione delle ceste natalizie confezionate dalla società in occasione delle festività, che dovevano essere escluse dal calcolo delle porzioni somministrate; i giudici di appello non avevano considerato tale circostanza che avrebbe condotto ad una sicura riduzione dei maggiori ricavi accertati; inoltre, la società aveva denunciato che, per quanto concerneva i primi piatti, era irrisoria una percentuale di sfido a riduzione dei quantitativi lordi di appena il 5 per cento, essendo noto che in tutti i ristoranti gli ingredienti di base dei primi piatti (quali riso, pasta, gnocchi e simili) venivano cucinati prima dell’ordine del cliente, preparati a mezza cottura e tenuti pronti per il confezionamento finale del piatto;

c) la società aveva posto in rilievo che la stima di una dose di 80 grammi di pasta per ogni porzione era molto scarsa, perché insufficiente per un primo piatto, occorrendo per ogni porzione, quanto meno, dai 100 ai 120 grammi, dosaggi questi che trovavano conferma sia nelle dichiarazioni rese dal legale rappresentante della società, sia nelle circolari ministeriali; computando le giuste dosi di pasta sarebbe sicuramente emerso un minor numero di primi piatti, con conseguente ridimensionamento dei maggiori ricavi accertati;

d) i giudici di appello avevano ignorato il consumo di primi piatti da parte dei dipendenti della società, benché tale dato non fosse controverso e benché lo stesso Ministero delle finanze, con la circolare n. 15762 del 1993, avesse precisato che “i risultati delle indagini devono essere considerati al netto delle consumazioni gratuite riferibili ai dipendenti”;

e) nella ricostruzione del numero dei primi piatti a base di pasta fresca i verificatori avevano erroneamente considerato anche gli acquisti di farina per dolci, di farina per pane, di farina da polenta che, invece, avrebbero dovuto essere esclusi perché non destinati alla preparazione dei primi piatti; parimenti indimostrata era la quota percentuale di farina che, secondo i verificatori, era destinata ad altri usi;

f) neppure i giudici regionali avevano tenuto conto che i dosaggi ipotizzati per la pasta fresca erano troppo esigui, come confermato anche dalle circolari ministeriali n. 75 del 5 agosto 1999 e n. 3/E del 17 gennaio 2001;

g) anche con riferimento al numero degli antipasti e dei secondi piatti di pesce la C.T.R. aveva ritenuto ragionevole la ricostruzione induttiva operata dall’Ufficio, senza prendere posizione sulle eccezioni mosse dalla società che aveva fatto presente che i verificatori avevano ritenuto che il pesce fosse destinato soltanto alla preparazione di antipasti e di secondi piatti, e non anche alla preparazione dei primi piatti a base di pesce, che erano invece una delle specialità del ristorante;

h) le percentuali di sfrido stimate dai verbalizzanti erano assolutamente sottodimensionate, come pure le dosi di prodotto impiegate per antipasti e secondi piatti, essendo errato ritenere che per ogni tipologia di pesce venissero serviti uguali quantitativi di prodotto; neppure con riguardo ai secondi a base di pesce, i verificatori avevano tenuto in considerazione il consumo da parte dei dipendenti della società;

i) i verificatori avevano ritenuto che tutti gli acquisti di carne fossero destinati alla preparazione di secondi piatti, trascurando invece che la carne veniva utilizzata sia per la preparazione dei primi sia per la preparazione di antipasti e spuntini che venivano consumati dai clienti nell’attività secondaria di bar; erroneamente, inoltre, nella ricostruzione dei ricavi si era ritenuto che il ristorante per la preparazione di un piatto a base di carne utilizzasse sempre e soltanto 250 grammi di prodotto;

I) i giudici di merito avevano ritenuto legittimi i rilievi formulati dai verificatori in relazione a presunti acquisti “in nero” di caffe’, ma l’impostazione era del tutto arbitraria perché i verificatori avevano ipotizzato che il numero dei caffe’ asseritamente somministrati corrispondesse al numero dei coperti serviti;

m) erano stati contestati anche i criteri di determinazione dei prezzi utilizzati dai verificatori poiché quelli assunti ai fini dell’accertamento, riferendosi al menù alla carta del ristorante, erano i più elevati; non era stato, invece, valorizzato il fatto che il ristorante operava con differenti fasce di prezzo a seconda della tipologia di pasto, della fascia oraria e delle specifiche richieste; peraltro, nel caso di matrimoni e banchetti, i prezzi per singolo piatto erano anche più ridotti, posto che, in tali casi, il prezzo dell’intero servizio veniva stabilito forfettariamente in base al numero dei partecipanti che ricevevano una serie di portate già predefinite con il committente.

4. Con il quarto motivo deducono in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per omessa pronuncia circa la richiesta, avanzata dall’Ufficio nel proprio atto di appello, di nomina di un consulente tecnico d’ufficio.

5. Con il quinto motivo, censurando la sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia sulla mancanza di prove e sulla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, i ricorrenti contestano alla C.T.R. di non essersi pronunciata, con riferimento alla ricostruzione induttiva dei ricavi per il 2004, sul fatto che la metodologia di controllo impiegasse parametri inidonei a soddisfare i requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalle norme richiamate in rubrica.

6. Con il sesto motivo, rubricato “art. 360 c.p.c., n. 3 Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2. Mancanza assoluta di prove”, le parti ricorrenti censurano la sentenza impugnata là dove afferma: “Il fatto è che la metodologia adottata dall’Ufficio appare invero l’unica che possa essere dallo stesso seguita per ricostruire ricavi e quindi redditi in settori di attività economica…”.

Assumono i ricorrenti che non possono essere ritenute prove o presunzioni gravi, precise e concordanti né i parametri utilizzati per giungere alle percentuali di resa dei cibi acquistati, né quelli utilizzati per la stima delle dosi somministrate o dei prezzi e che la metodologia utilizzata è priva di qualsiasi supporto logico e collide con il divieto di praesumptio de presumpto.

7. Con il settimo motivo, censurando la decisione gravata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, per mancanza di antieconomicità, i ricorrenti evidenziano che, nel caso di specie, non si può parlare di antieconomicità, bensì di incapacità della società di produrre un utile adeguato a remunerare i fattori produttivi, e sottolineano che il settore della ristorazione da tempo è in crisi, tanto che per i ristoranti “di prestigio” già da anni i margini di profitto sono divenuti molto modesti; tuttavia, la redditività insoddisfacente non costituisce un elemento idoneo a sanare, sotto il profilo probatorio, una ricostruzione induttiva dei ricavi del tutto inattendibile.

8. Con l’ottavo motivo, deducendo, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti decisivi ai fini della controversia, le parti contribuenti lamentano che la Commissione tributaria regionale, nel ritenere assolto, da parte dell’Ufficio finanziario, l’onere probatorio, avrebbe omesso di prendere in considerazione elementi certi, precisi e concordanti che dimostravano la correttezza del comportamento tenuto dalla società e l’assenza di imponibili sottratti a tassazione. Sotto tale profilo la società aveva evidenziato di avere registrato uno scostamento di soli Euro 3.747,00 rispetto all’applicazione dei parametri e di avere preferito adeguarsi ad essi, sottoponendo a tassazione anche tali maggiori ricavi rideterminati, ma la congruità dei parametri non era stata presa in esame dai giudici di secondo grado; l’Ufficio aveva anche esperito indagini bancarie in capo a tutti i contribuenti, ma la C.T.R. aveva trascurato di considerare che nel corso di tali verifiche non erano emersi elementi di irregolarità.

9. Con il nono motivo, deducendo la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 dello Statuto del contribuente e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 7, i ricorrenti contestano alla C.T.R. di non avere tenuto conto che i rilievi collegati ai supposti acquisti “in nero” di caffe’ poggiano su una attività istruttoria affetta da vizi procedimentali, essendosi la verifica nei confronti della Hausbrandt Trieste 1892 S.A. svolta in loro assenza ed essendo stati gli avvisi di accertamento adottati senza avere previamente instaurato un contraddittorio.

10. Con il decimo motivo, denunciando l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, i ricorrenti lamentano che la C.T.R. giunge a giudicare legittimo l’operato dell’Ufficio finanziario sulla base di un’errata ricognizione dei fatti controversi, posto che la società non era a conoscenza della documentazione dalla quale era stata tratta la conclusione che essa avesse acquistato caffe’ “in nero”, non essendo stata allegata alla segnalazione e neppure agli avvisi di accertamento; gli unici documenti allegati erano due foglietti con appunti manoscritti, incerti ed ambigui nel contenuto, dai quali non si evinceva se e quando i supposti quantitativi fossero stati effettivamente acquistati dalla società; tali documenti neppure recavano le date delle ipotizzate consegne e i nominativi di chi le avrebbe effettuate, le date dei pagamenti, gli importi incassati ed anzi da essi non emergeva alcun elemento che li potesse far apparire ad essa riconducibili. I giudici di merito avevano ritenuto che l’indicazione del nome “Gambrino” sui fogli manoscritti rendesse in qualche modo riferibili gli appunti alla società contribuente, ma non si erano avveduti che la società non era stata affatto individuata con l’intera denominazione sociale, né era stato riportato l’indirizzo della sua sede legale o il suo codice fiscale, né ancora il nominativo di Z.A..

11. Con l’undicesimo motivo, deducendo l’omessa pronuncia sulla mancanza di prove e sulla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, i contribuenti si dolgono che la mera segnalazione proveniente da una verifica a carico di altri soggetti non è sufficiente a supportare i rilievi collegati ai supposti acquisti “in nero” del caffe’ e che su tali punti la C.T.R. non ha preso una esplicita posizione, omettendo anzi di pronunciarsi.

12. Con il dodicesimo motivo, censurando la decisione gravata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 i ricorrenti deducono che, ove si dovesse ritenere che la C.T.R. sia comunque giunta alla conclusione di considerare sufficientemente provati i rilievi collegati ai supposti acquisti “in nero” di caffe’, risulta evidente che gli elementi acquisiti nel corso della verifica condotta a carico della Hausbrandt Trieste 1892 s.p.a. non potevano ritenersi sufficienti a dimostrare gli addebiti, dato che nessuna prova era stata addotta dall’Ufficio a dimostrazione della veridicità degli appunti sui quali si fondavano le contestazioni svolte in capo alla Gambrinus di Z.A. & C. s.a.s., con conseguente difetto di motivazione e di prova della pretesa erariale, essendo noto che la giurisprudenza di legittimità tendeva a disconoscere valore dimostrativo a quaderni, brogliacci, appunti e altri manoscritti, se privi di riscontri oggettivi. Ciò induceva a ritenere, ad avviso dei ricorrenti, che l’Ufficio avesse fatto ricorso a ragionamenti presuntivi privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, in violazione dell’art. 2729 c.c..

13. Con il tredicesimo motivo si denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un fatto controverso là dove la C.T.R. sostiene che la società ricorrente “non ha prodotto adeguate argomentazioni a sostegno dell’infondatezza dell’operazione logica compiuta dall’Ufficio…”. Nel puntualizzare che gli avvisi di accertamento non contestano la sproporzione tra le quantità di caffe’ fatturate e le quantità di caffe’ consumate, ma piuttosto l’acquisto “in nero” del caffe’, ribadiscono che avevano fatto presente che, per l’anno 2004, l’Ufficio aveva ipotizzato un quantitativo di caffe’ di 264 kg attribuendo di conseguenza maggiori ricavi derivanti dalla somministrazione di tale bevanda al ristorante, sul presupposto che il numero di caffe’ corrispondesse a quello dei coperti serviti, ma in realtà il calcolo operato, che lo stesso Ufficio aveva riconosciuto in parte errato, tanto che aveva concesso una riduzione dei ricavi nella misura di Euro 11.199,00 (riconosciuta nel dispositivo della sentenza), rendeva evidente una sproporzione tra un costo di poco più di Euro 5.000,00 e ricavi per quasi Euro 100.000,00; i giudici di merito avevano trascurato che, aderendo alla tesi dell’Ufficio, nel corso del 2004 il ristorante avrebbe dovuto somministrare ogni giorno quasi trecentocinquanta caffe’ al banco, risultato in concreto non realizzabile considerato che l’attività veniva esercitata in una zona non di passaggio e in un piccolo comune di circa 4.500 abitanti, ove erano presenti numerosi altri pubblici esercizi che somministravano tale bevanda. I giudici di merito avevano inoltre omesso di prendere in considerazione altri argomenti che avrebbero potuto condurre ad una diversa valutazione, ossia che molto spesso il caffe’ veniva offerto gratuitamente, che i diversi utilizzi del caffe’ avrebbero potuto comportare una consistente riduzione dei quantitativi destinati alla somministrazione, che una buona parte del caffe’ acquistato avrebbe potuto essere utilizzato per la preparazione dei dolci e di altri alimenti e che altra parte di caffe’ poteva essere stato ceduto “a peso” nelle ceste che il ristorante preparava in occasione delle festività natalizie e, ancora, che circa venti dipendenti consumavano abitualmente tale bevanda.

14. Con il quattordicesimo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5 e 12 per avere la C.T.R. ritenuto legittimi l’irrogazione ed il calcolo delle sanzioni. Sostengono le parti ricorrenti che l’Ufficio non avrebbe applicato correttamente le norme di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997 e D.Lgs. n. 472 del 1997 e, in particolare, l’istituto della continuazione di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 12 con ciò determinando una sanzione complessiva superiore a quella che si sarebbe ottenuta applicando il principio del cumulo giuridico, e che la C.T.R. sarebbe incorsa in errore per non avere escluso l’applicazione di sanzioni in capo a soci che dichiaravano redditi di partecipazione in società di persone, non essendo ravvisabile in tali casi l’elemento soggettivo (colpa o dolo).

15. Preliminarmente, va dichiarata l’estinzione del giudizio per cessazione della materia del contendere con riguardo alle posizioni della società Gambrinus di Z.A. & C. s.a.s. e dei soci Z.L.G., Za.Ma.Ro. e del socio Z.A. limitatamente all’avviso di accertamento relativo all’annualità 2005.

La società ed i soci Z.L.G., Za.Ma.Ro. hanno aderito alla definizione agevolata delle controversie tributarie di cui al D.L. n. 119 del 2018, art. 6 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 136 del 2018, come emerge dalla documentazione allegata (domanda di definizione e quietanze di versamento) in relazione alle annualità d’imposta 2004 e 2005, mentre l’altro socio Z.A. ha aderito alla definizione agevolata per il solo avviso di accertamento relativo all’anno 2005.

Il D.L. n. 119 del 2018, art. 6, comma 12, prevede che “L’eventuale diniego della definizione va notificato entro il 31 luglio 2020 con le modalità previste per la notificazione degli atti processuali…” e, ai sensi del successivo comma 13, “in mancanza di istanza di trattazione presentata entro il 31 dicembre 2020 dalla parte interessata, il processo è dichiarato estinto…”.

Nel caso di specie, non risulta che sia stata presentata istanza di trattazione entro il 31 dicembre 2020, né che sia stato notificato atto di diniego della definizione entro il 31 luglio 2020 e, pertanto, deve ritenersi perfezionata la causa estintiva correlata all’accesso alla definizione agevolata.

Le spese del giudizio estinto, ai sensi del D.L. n. 119 del 2018, art. 6, comma 13, ultimo periodo, restano a carico della parte che le ha anticipate.

16. In conformità alla istanza formulata dall’Agenzia delle entrate si impone, invece, l’esame nel merito dei motivi di ricorso dedotti dal socio Z.A. per contestare il maggior reddito accertato in relazione all’annualità 2004.

Infatti, in tema di imposte sui redditi, gli effetti della definizione agevolata, di cui si sia avvalsa la società di persone, non si estendono automaticamente nei confronti del socio destinatario di un separato atto impositivo atteso che, nonostante il modello unitario di rettifica, la pretesa tributaria si articola attraverso distinti avvisi, diretti a soggetti diversi (ente e soci) ed aventi ad oggetto imposte differenti (IRES/IRAP ed IRPEF); pertanto, il singolo socio che intenda avvalersi del beneficio del condono fiscale è tenuto a presentare autonoma istanza (Cass., sez. 6 – 5, 15/07/2020, n. 15076).

17. Il nono motivo, che va esaminato con priorità perché il suo eventuale accoglimento renderebbe superfluo l’esame dei restanti motivi, non può essere accolto per le ragioni che di seguito si espongono.

17.1. In base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., nel giudizio tributario, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo del vizio di motivazione nel giudizio sulla congruità della motivazione dell’avviso di accertamento, che non è atto processuale ma amministrativo (Cass., sez. 5, 3/12/2001, n. 15234), è necessario che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto avviso, che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentire la verifica della censura esclusivamente mediante l’esame del ricorso (Cass., sez. 5, 28/06/2017, n. 16147). Tale onere non è stato assolto dal ricorrente.

17.2. In secondo luogo, il requisito formale della motivazione dell’atto impositivo di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, deve ritenersi assolto anche attraverso la motivazione per relationem alle risultanze dell’indagine (Cass., sez. 5, 5/04/2013, n. 8399).

Nella specie, la C.T.R. ha accertato che gli avvisi di accertamento impugnati riportano una analitica segnalazione della cessione di caffe’ non contabilizzata, rinviando al processo verbale di constatazione redatto nel corso della verifica, e tanto appare sufficiente ad individuare la causa giustificativa del recupero fiscale ed a porre la parte contribuente in grado di apprestare le proprie difese, dovendosi, al riguardo, distinguere nettamente la questione relativa alla esistenza della motivazione dell’atto impositivo, quale “requisito formale di validità” dell’avviso di accertamento (L. n. 212 del 2000, art. 7), dalla questione attinente, invece, alla indicazione ed alla effettiva sussistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria (Cass., sez.1, 17/01/1997 n. 459; Cass., sez. 1, 5/06/1998, n. 5544; Cass., sez. 5, 1/08/2000, n. 10052), indicazione che non è richiesta quale elemento costitutivo della validità dell’atto impositivo e che rimane disciplinata dalle regole processuali proprie della istruzione probatoria che trovano applicazione nello svolgimento dell’eventuale giudizio introdotto dal contribuente con il ricorso di opposizione all’atto impositivo.

17.3. Nell’illustrazione del motivo il ricorrente, pur richiamando in rubrica l’art. 7 dello Statuto del contribuente e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 7, si duole in realtà del fatto che la C.T.R., affermando che il dato relativo al contestato acquisto di caffe’ “in nero” non integra violazione dell’art. 7 dello Statuto del contribuente, abbia di fatto ritenuto del tutto legittimo l’utilizzo in sede di accertamento di dati raccolti dai verificatori nell’ambio di una attività di verifica eseguita a carico di un soggetto terzo (nella specie, la Hausbrandt s.p.a.); in tal modo confondendo il requisito formale della motivazione dell’atto impositivo, in ordine al quale i giudici di appello hanno espresso un giudizio di congruità, non censurato in questa sede sotto il profilo motivazionale, con la questione della validità ed utilizzabilità ai fini accertativi dell’attività istruttoria da cui sono scaturiti i rilievi collegati ai supposti acquisti in nero di caffe’, questione che, involgendo gli elementi dimostrativi della ripresa a tassazione oggetto di impugnazione, attiene piuttosto alla sussistenza dei fatti costitutivi della pretesa fiscale.

18. Anche il quarto motivo è infondato.

Il vizio di omessa pronuncia che determina la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., rilevante ai fini di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, si configura esclusivamente con riferimento a domande, eccezioni o assunti che richiedano una statuizione di accoglimento o di rigetto, e non anche in relazione ad istanze istruttorie (come quella di ammissione di una consulenza tecnica d’ufficio) per le quali l’omissione è denunciabile soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass., sez. 3, 11/02/2009, n. 3357; Cass., sez. L, 18/03/2013, n. 6715; Cass., sez. U, 18/12/2001, n. 15982).

19. Inammissibili sono il quinto e l’undicesimo motivo, che possono essere trattati congiuntamente perché volti a denunciare una omessa pronuncia.

Le censure non colgono nel segno poiché il vizio di omessa pronuncia ricorre ove manchi qualsivoglia statuizione su un capo della domanda o su una eccezione di parte, così dando luogo alla inesistenza di una decisione sul punto della controversia, per la mancanza di un provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, non potendo dipendere, pertanto, dall’omesso esame di un elemento di prova (Cass., sez. 1, 23/03/2017, n. 7472).

Nel caso in esame con le doglianze in esame si contesta alla C.T.R. di avere completamente ignorato di pronunciarsi sul difetto di prova, ed in particolare sulla denuncia della insussistenza dei presupposti richiesti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (motivo quinto), nonché sulla inidoneità della segnalazione della Guardia di finanza a soddisfare l’onere probatorio da parte dell’ufficio finanziario, ai sensi delle medesime disposizioni normative (motivo undicesimo), ma tali censure non integrano il vizio denunciato se si considera che i giudici di appello, confermando integralmente l’atto impugnato, hanno ritenuto in tal modo soddisfatto, da parte dell’Ufficio finanziario, l’onere probatorio posto a suo carico e del tutto giustificato il ricorso all’accertamento induttivo.

20. Il terzo, il sesto, il settimo ed il tredicesimo motivo, che possono essere scrutinati unitariamente perché tutti volti a criticare la ricostruzione dei ricavi operata dall’Ufficio finanziario, sono infondati.

20.1. E’ opportuno osservare, quanto al denunciato vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come il giudice di merito non sia tenuto a dar conto dell’esame di tutte le prove prodotte o acquisite e di tutte le tesi prospettate dalle parti, ma possa limitarsi ad esporre sinteticamente gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della decisione e ad evidenziare, con motivazione logica e adeguata, le prove ritenute idonee a confortarla, dovendo invece reputarsi implicitamente disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (Cass., sez. 5, 21/01/2015, n. 961, cit.; anche Cass., sez. L., 20/02/2006, n. 3601; Cass., sez. 1, 13/01/2005, n. 520; Cass., sez. 3, 28/10/2009, n. 22801).

20.2. Il controllo di logicità del giudizio di fatto consentito dal richiamato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non equivale alla revisione del ragionamento decisorio del giudice e alla conseguente nuova formulazione del giudizio di fatto, in quanto tale eventualità si pone in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità, il quale non può procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa e la considerazione di fatti probatori diversi o ulteriori rispetto a quelli assunti dal giudice di merito a fondamento della sua decisione (in tal senso si è espressa Cass., sez. 5, 21/01/2015, n. 961 cit.; vedi anche Cass., sez. L., 05/03/2002, n. 3161; Cass., sez. 3, 20/10/2005, n. 20322; Cass., sez. L., 6/03/2006, n. 4766; Cass., sez. 6-5, 07/01/2014, n. 91; Cass., sez. 5, 28/11/2014, n. 25332; Cass., sez. 5, 10/09/2020, n. 18774).

20.3. Ciò comporta che il vizio non può consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso conforme a quello preteso dalla parte, spettando soltanto al giudice di merito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dando liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova (Cass., sez. 1, 23/05/2014, n. 11511; Cass., sez. L, 14/11/2013, n. 25608; Cass., sez. L, 18/03/2011, n. 6288; Cass., sez. L, 19/03/2009, n. 6694; Cass., sez. L, 11/07/2007, n. 15489). Pertanto, con riguardo alle prove, mai può essere censurata la valutazione in sé degli elementi probatori secondo il prudente apprezzamento del giudice (Cass., sez. 1, 13/10/2017, n. 24155; Cass., sez. 6-5, 26/01/2015, n. 1414; Cass., sez. L, 19/06/2014, n. 13960), posto che il giudice di merito è libero di attingere il proprio convincimento dalle risultanze probatorie che ritenga più attendibili ed idonee, essendo sufficiente, ai fini della congruità della relativa motivazione, che risulti che l’accertamento dei fatti si sia realizzato attraverso una valutazione dei vari elementi probatori acquisiti al giudizio, considerati nel loro complesso, la quale non richiede la discussione di ogni singolo elemento o la confutazione di tutte le deduzioni difensive (cfr. Cass., sez. L, 9/04/2001, n. 5235; Cass., sez. L, 23/05/2007, n. 12052; Cass., sez. 1, 4/03/2011, n. 5229).

20.4. Non e’, pertanto, ammissibile la censura di omessa valutazione, da parte della Commissione tributaria regionale, di tutte le deduzioni difensive svolte nel giudizio di merito, denunciata con il terzo ed il tredicesimo motivo. In disparte il rilievo della genericità delle deduzioni indicate, che renderebbe comunque l’omissione priva di decisività, la censura non concerne l’omesso esame di un fatto storico, da intendersi principale o secondario, bensì la valutazione di deduzioni difensive, non inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (ex plurimis, Cass., sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

20.5. Infatti, dopo l’entrata in vigore della richiamata novella, il vizio motivazionale, prima deducibile anche come contraddittorietà o insufficienza degli elementi argomentativi, risulta ora limitato alla sola totale mancanza di presa in esame di uno dei fatti su cui la difesa stessa si basa.

Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. U, 7/04/2014, n. 8053) hanno, in merito al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in tal senso affermato che:

– la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza, nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile;

– dell’art. 360, il nuovo testo n. 5 introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

– l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie;

– la parte ricorrente deve indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.

20.6. E’ evidente, allora, che nella specie, il dedotto omesso esame, da parte del giudice di appello, delle deduzioni difensive volte a denunciare l’erroneità della ricostruzione dei ricavi operata dai verificatori, perché basata su una non corretta quantificazione del numero dei coperti e su una presunta arbitraria quantificazione dei caffe’ serviti al ristorante, oltre che su una non corretta determinazione dei prezzi per porzione, non integra vizio motivazionale sussumibile nel paradigma del riformulato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

20.7. Invero, la C.T.R., sebbene con motivazione sintetica, pronunciandosi espressamente in ordine alla metodologia accertativa dei maggiori ricavi relativi all’anno 2004, ha disatteso tutte le contestazioni mosse dalla parte contribuente, motivando che “gli acquisti di confezioni di pasta e riso denotano un volume di affari di notevole rilevanza”, per cui non può avere pregio l’affermazione di parte contribuente secondo cui le confezioni sarebbero in gran parte state acquistate per il confezionamento di ceste natalizie, e ciò in ragione delle “incongruenze nel contenuto di ciascuna confezione (variabile da 500 a 200 a 50 grammi) in relazione al prezzo unitario indistinto” e considerato che tali confezioni venivano richieste solo in un limitato periodo dell’anno. Ha, inoltre, ritenuto del tutto congrua la quantità di sfrido rilevata dall’Ufficio finanziario, tenuto conto che la cucina di un ristorante presuppone una organizzazione caratterizzata da tempi e fasi di lavorazione precisi e dalla presenza di un adeguato numero di operatori che portano ad escludere continui errori nella quantità dei prodotti e nella preparazione delle pietanze. Ha, parimenti, considerato del tutto attendibile la quantità di carne o pesce indicata dall’Ufficio in relazione a ciascuna pietanza, avuto riguardo al fatto che, in ristoranti di un certo livello, la clientela non attribuisce rilevanza alle quantità, ma piuttosto alla presentazione del piatto ed al gusto ricercato della pietanza, e ciò a prescindere dalla considerazione che si tratti di menù degustazione, di colazione di lavoro o di banchetto o di normale cena. Parimenti coerenti sono state ritenute, dai giudici regionali, le ricostruzioni del prezzi per ciascun piatto, sia alla carta sia su menù fisso, con la precisazione che il volume d’affari verificato risulta del tutto sproporzionato rispetto all’utile “irrisorio” di esercizio dichiarato, che conduce a ritenere del tutto antieconomica l’attività svolta e, di conseguenza, irragionevoli le argomentazioni della parte contribuente volte a rimarcare che i prezzi assunti a base dell’accertamento non sono significativi e che non sarebbe stato valorizzato il fatto che il ristorante operava con differenti fasce di prezzo a seconda della tipologia di pasto, della fascia oraria e delle specifiche richieste (menù degustazione o menù personalizzati).

20.8. L’apprezzamento svolto dalla C.T.R., che ritiene che la metodologia adottata dall’Ufficio fosse l’unica percorribile ai fini della ricostruzione dei ricavi in un settore, come quello della ristorazione, nel quale “il numero di passaggi nella circolazione delle merci, la molteplicità dei servizi offerti e soprattutto il quid pluris rappresentato dal nome e dall’abilità professionale della struttura produttiva” non consentono di fare ricorso a criteri “meccanicistici”, non può dunque essere scrutinato in questa sede, in difetto della deduzione, da parte ricorrente, di un “fatto storico”, rilevante e decisivo, idoneo a condurre ad una diversa ricostruzione dei redditi, né può configurare il vizio di violazione di legge dedotto con il sesto motivo, considerato che i parametri utilizzati, costituiti dalle percentuali di sfrido, dai dosaggi dei prodotti e dai prezzi applicati, ritenuti del tutto congrui dai giudici di merito, costituiscono elementi presuntivi di per sé idonei a sorreggere l’accertamento induttivo e consentono peraltro di mantenere l’accertamento ancorato alla specifica realtà aziendale piuttosto che a parametri di riferimento esterni.

20.9. Quanto detto porta anche ad escludere la fondatezza del settimo motivo, atteso che, diversamente di quanto asserito con tale censura, la C.T.R. non ha desunto la fondatezza degli addebiti contestati dalla scarsità degli utili, ritenendola da sola sufficiente a dimostrare i rilievi mossi dall’Amministrazione finanziaria, ma ha piuttosto osservato che l’incongruità dell’utile di esercizio dichiarato rispetto al volume di affari emerso confligge con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità dell’attività svolta, ed evidenzia una grave distonia tra ricavi dichiarati e ricavi stimati, di per sé sufficiente a giustificare, da parte dell’Amministrazione, una rettifica della dichiarazione con metodo induttivo.

21. Pure infondato è l’ottavo motivo.

Con il mezzo in esame il ricorrente si duole che la C.T.R. non abbia tenuto conto, ai fini della decisione, che la società aveva dichiarato ricavi perfettamente congrui a quelli ricostruiti secondo la metodologia presuntiva poggiata sui parametri d’impresa, né che dalle indagini bancarie svolte non fossero emerse irregolarità, né ancora della piena regolarità gestionale ed amministrativa del ristorante; tali elementi, che, secondo l’assunto difensivo di parte ricorrente, denoterebbero la correttezza del comportamento tenuto dalla società nel corso dell’anno 2004, non integrano fatti storici decisivi ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, di cui i giudici regionali avrebbero omesso l’esame, ma mere argomentazioni difensive.

Peraltro, va pure osservato che l’accertamento con metodo analitico induttivo, con il quale l’Ufficio finanziario procede alla rettifica di componenti reddituali, è consentito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, in quanto la disposizione presuppone scritture regolarmente tenute, che tuttavia appaiano contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e della fedeltà della contabilità esaminata (Cass., sez. 5, 5/10/2007, n. 20857).

22. Il decimo ed il dodicesimo motivo, che possono essere trattati congiuntamente perché concernenti i rilievi collegati all’acquisto di caffe’, sono infondati.

22.1. La C.T.R., prendendo le mosse dalla verifica effettuata nei confronti della ditta Hausbrandt Trieste 1892 s.p.a., ha sottolineato che alla documentazione extracontabile acquisita nel corso delle indagini debba essere riconosciuto il valore di contabilità parallela a quella ufficiale, considerato che le operazioni indicate in tale documentazione non risultavano annotate nella contabilità ufficiale, né risultavano emesse le relative fatture, ed ha di conseguenza ritenuto dimostrata la cessione in nero, nell’anno 2004, da parte della ditta verificata alla società Gambrinus di Z.A., di lotti di caffe’ per un imponibile di gran lunga superiore a quello dichiarato. Rilevando, inoltre, che la società contribuente non ha replicato alla ricostruzione dell’Amministrazione con elementi probatori di segno contrario e con argomentazioni idonee a smontarla e comunque adeguate a superare l’evidente sproporzione tra la quantità di caffe’ fatturato e quello effettivamente consumato, considerato anche l’avviamento e il numero dei coperti del ristorante, i giudici di appello hanno dunque concluso che alla Gambrinus s.a.s. sono stati effettivamente forniti quantitativi di caffe’ superiori a quelli emergenti dalla contabilità ufficiale.

22.2. Con le censure in esame, anche sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, il ricorrente sollecita questa Corte ad una rivisitazione del merito della controversia, precluso in questa sede, poiché ripropone argomentazioni difensive e circostanze di fatto che sono già state sottoposte al vaglio dei giudici di merito e che sono state da questi ritenute non idonee a dimostrare che la documentazione reperita presso la ditta Hausbrandt s.a.s. non fosse riferibile alla Gambrinus s.a.s. In particolare, censura la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, così mirando ad una non consentita revisione, da parte della Corte di legittimità, degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito (Cass., sez. L, 8/05/2000, n. 5806; Cass., sez. L, 20/11/2003, n. 17651; Cass., sez. 5, 12/08/2004, n. 15675; Cass., sez. 1, 6/03/2019, n. 6519).

Assume rilievo a tale riguardo il principio, più volte affermato da questa Corte e pienamente condiviso dal collegio, che i vizi della sentenza posti a base del ricorso per cassazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito (Cass., sez. L, 25/08/2003, n. 12467), o consistere in censure che investano la ricostruzione della fattispecie concreta (Cass., sez. 2, 4/06/2001, n. 7476) o che siano attinenti al difforme apprezzamento dei fatti e delle prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte (Cass., sez. L, 7/08/2003, n. 11918).

22.3. Com’e’ noto i limiti istituzionali del giudizio di cassazione, che sono segnati dal suo oggetto, costituito da vizi specifici della decisione del giudice di merito e non direttamente dalla materia controversa nella sua interezza, portano a dire che la funzione di garanzia che l’ordinamento assegna al giudice di legittimità in attuazione dell’art. 65 ord. giud. si esercita nella duplice direzione di un controllo sulla legalità della decisione e di un controllo sulla logicità della decisione. Nella prima direzione il controllo di legittimità affidato alla Corte di cassazione consiste nella verifica sotto il profilo formale e della correttezza giuridica dell’esame e della valutazione compiuti dal giudice di merito (Cass., sez. 2, 10/07/2014, n. 15824; Cass., sez. 62, 7/04/2014, n. 8118), mentre riguardo alla seconda la Corte viene investita della facoltà di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, le argomentazioni svolte dal giudice del merito, con la precisazione che ad esso e solo ad esso spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (Cass., sez. L, 22/10/2014, n. 22386; Cass., sez. L, 20/10/2014, n. 22146; Cass., sez. 3, 20/10/2005, n. 20322).

E’ tuttavia un dato comune ad entrambe queste impostazioni il principio, positivamente avallato dalla ideazione del giudizio di cassazione come un giudizio a critica vincolata, in cui le censure che si muovono al pronunciamento di merito devono necessariamente trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, secondo cui la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale secondo la rappresentazione che le parti ne fanno al giudice di merito. Il che comporta che il controllo che la Corte esercita in funzione della legalità della decisione non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa, così come a sua volta il controllo di logicità non consente alla parte di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, posto che ciò si tradurrebbe in un nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass., sez. L, 24/09/2014, n. 20012; Cass., sez. 1, 20/08/2014, n. 18074; Cass., sez. 6-5, 7/01/2014, n. 91).

22.4. Delimitato così il campo in cui può esercitarsi il controllo di questa Corte, è del tutto evidente, con riguardo alle doglianze in esame, che esse si sostanziano nel richiedere al giudice di legittimità la rinnovazione di un giudizio di fatto, intendendo per vero sottoporre le risultanze processuali emerse nel corso del giudizio di merito ad un nuovo esame, in modo da sostituire alla valutazione sfavorevole già effettuata dai giudici regionali una più consona alle proprie concrete aspirazioni.

Invero laddove la parte lamenta che la CTR avrebbe violato del D.P.R. n. 600 del 1973, l’art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, per aver ritenuto che l’ufficio abbia comunque assolto l’onere probatorio su di esso incombente, si censura impropriamente l’impugnata decisione sotto l’aspetto della violazione e falsa applicazione di legge, senza tuttavia evidenziare l’errore che la CTR avrebbe commesso nell’applicazione delle norme richiamate, giacché sotto questa angolazione la decisione presa dal giudice territoriale si rivela immune da rilievi laddove ha ritenuto, nell’esercizio della potestà di apprezzamento delle prove che gli compete in via esclusiva, che il quadro circostanziale dedotto dall’ufficio sia idoneo a suffragare l’accertamento analitico induttivo da esso operato. Sicché chiedere in questa sede, allegando con i motivi in esame un errore di diritto ed un vizio di motivazione, la rivalutazione degli elementi probatori già infruttuosamente sottoposti al vaglio dei giudici di merito equivale a postulare una rinnovazione del giudizio afferente ad un accertamento di fatto che risulta congruamente motivato e che non è perciò è suscettibile di rimeditazione nei limiti del controllo istituzionale che può aver luogo in sede di legittimità.

23. Il quattordicesimo motivo è infondato.

Occorre premettere che, per effetto dell’intervenuta definizione agevolata della lite da parte della società contribuente, l’esame del mezzo in esame deve essere limitato alla sola statuizione della sentenza impugnata con cui la C.T.R. ha confermato l’irrogazione delle sanzioni in capo al socio.

L’assunto difensivo del socio, secondo cui nessuna sanzione può essere applicata a coloro che dichiarano redditi di partecipazione in società di persone, per difetto dell’elemento soggettivo (colpa o dolo), non è condivisibile e non si pone in linea con l’orientamento giurisprudenziale di questa Corte.

Il Collegio non può che richiamare il principio secondo cui il maggior reddito risultante dalla rettifica operata nei confronti di una società di persone, imputato al socio in proporzione della relativa quota di partecipazione, comporta anche l’applicazione allo stesso socio della sanzione per infedele dichiarazione prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 46 principio applicabile anche al socio accomandante di società in accomandita semplice, essendo irrilevante l’estraneità di tali soci all’amministrazione della società, in quanto ad essi è sempre consentito il controllo dell’amministrazione sociale e la verifica dell’effettivo ammontare degli utili conseguiti, consistendo la colpa nell’omesso o insufficiente esercizio del potere di controllo sull’esattezza dei bilanci della società, ai sensi dell’art. 2320 c.c., u.c., (Cass., sez. 5, 6/09/2006, n. 19192; Cass., sez. 5, 9/12/2002, n. 17492; Cass., sez. 5, 19/07/2021, n. 20598).

24. Conclusivamente, il ricorso proposto dal socio Z.A., relativamente all’annualità d’imposta 2004, deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

PQM

Dichiara estinto il giudizio limitatamente agli avvisi di accertamento emessi a carico della società Gambrinus di Z.A. & C. s.a.s. e dei soci Z.L.G. e Za.Ma.Ro. e all’avviso di accertamento emesso nei confronti del socio Z.A. per l’anno d’imposta 2005.

Le spese del processo estinto restano a carico delle parti che le hanno anticipate.

Rigetta il ricorso proposto da Z.A. avverso l’avviso di accertamento emesso per l’anno d’imposta 2004.

Condanna Z.A. al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.800,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte di Z.A., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 25 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2022

 

 

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