Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6616 del 01/03/2022

Cassazione civile sez. trib., 01/03/2022, (ud. 01/02/2022, dep. 01/03/2022), n.6616

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12305/2016 proposto da:

C.d.M.F.G.M., e M.M.,

nella rispettiva qualità di erede universale e di esecutore

testamentario di C.d.M.C., entrambi rappresentati

e difesi in giudizio dagli avv.ti Livia Salvini, Giancarla Branda e

Massimiliano Iaione di Roma, come da procura in atti, ed ivi

el.dom.ti presso lo studio delle prime due in V.le Mazzini 11;

– parte ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentato e difeso in giudizio dall’Avvocatura Generale dello

Stato presso la quale è ex lege domiciliato in Roma, Via dei

Portoghesi n. 12;

– parte controricorrente –

Ricorso n. 12305/16 avverso sentenza Commissione Tributaria Regionale

Lazio n. 6059/29/15 del 18/11/2015;

udita la relazione svolta dal Consigliere Giacomo Maria Stalla

all’udienza pubblica del 1 febbraio 2022;

uditi i difensori delle parti, nonché il Procuratore Generale Dott.

Cardino Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

FATTI RILEVANTI E RAGIONI DELLA DECISIONE

p. 1. C.d.M.F.G.M. e M.M., nella rispettiva qualità di erede universale e di esecutore testamentario di C.d.M.C., propongono un motivo di ricorso per la cassazione della sentenza in epigrafe indicata, con la quale la Commissione Tributaria Regionale, a conferma della prima decisione, ha ritenuto legittimo l’avviso di liquidazione loro notificato dall’agenzia delle entrate in recupero dell’imposta suppletiva di successione conseguente al disconoscimento di una passività ereditaria, indicata dall’esecutore testamentario nel quadro D della dichiarazione di successione, rinveniente da due contratti di opzione di vendita di azioni societarie.

Più in particolare e per quanto qui ancora di interesse, si evince dagli atti di causa che:

il (OMISSIS) il de cujus aveva stipulato due proposte irrevocabili di acquisto di n. 4.340.000 azioni del Gruppo Editoriale L’Espresso spa al prezzo unitario prefissato di Euro 3,60, e con opzione di vendita da parte di Intesa Sanpaolo (c.d. opzione “put”) da esercitarsi entro il (OMISSIS);

– il (OMISSIS) (nove giorni dopo il decesso del C., intervenuto il (OMISSIS)) Intesa Sanpaolo esercitava in effetti l’opzione di vendita;

– il (OMISSIS) l’operazione si concludeva mediante deposito delle azioni sul conto amministrato intestato alla eredità giacente (per un controvalore di Euro 5.852.490,00) e contestuale addebito della somma dovuta a titolo di prezzo (pari ad Euro 15.624.000,00) sul conto corrente bancario intestato al de cujus, con un differenziale negativo di Euro 9.771.510,00; quest’ultima passività veniva considerata indeducibile dall’ufficio D.Lgs. n. 346 del 1990, ex artt. 20 e 22 perché venuta ad esistenza non al momento di apertura della successione ma in data successiva, così da essere riferibile al patrimonio dell’erede in proprio.

La commissione tributaria regionale, nella sentenza qui impugnata, ha ritenuto corretto il disconoscimento della passività così operato, osservando che:

– ai sensi del D.Lgs. n. 346 del 1990, artt. 20 e 21 i debiti ereditari potevano essere dedotti solo se effettivamente esistenti e certi alla data dell’apertura della successione, tanto da dover risultare da atto scritto con data certa anteriore a quest’ultimo momento;

– in base agli artt. 1331 e 1329 c.c., contratto di opzione e contratto oggetto dell’opzione non costituivano un unico procedimento negoziale a formazione progressiva ed effetti retroattivi, bensì due diversi contratti, di cui il primo ad effetto obbligatorio ed il secondo ad effetto reale (nella specie, il trasferimento delle azioni dalla Banca al C. in qualità di proponente l’acquisto);

– era tuttavia pacifico che quest’ultimo effetto traslativo si fosse realizzato, e così l’esercizio dell’opzione da parte della banca, dopo il decesso del C., con la conseguenza che la relativa passività non poteva ritenersi già esistente al momento di apertura della sua successione.

Resiste con controricorso l’agenzia delle entrate. La parte ricorrente ha depositato memoria.

p. 2.1 Con l’unico articolato motivo di ricorso si lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 1331 c.c., D.Lgs. n. 346 del 1990, artt. 8, 20 e art. 42, comma 1, lett. f).

Per non avere la commissione tributaria regionale considerato che:

– il debito in questione scaturiva da obblighi assunti dal de cujus in forza di una fattispecie a formazione progressiva costituita sia dall’accordo avente ad oggetto la proposta (irrevocabile), sia dall’accettazione definitiva la quale, “saldandosi” con la proposta, darebbe vita ad una fattispecie legale unitaria ex artt. 1331 e 1329 c.c.;

– l’obbligo del proponente, per effetto di questa unificazione, doveva dunque ritenersi già esistente al momento dell’apertura della successione, anche se l’opzione veniva dal beneficiario esercitata, ma con efficacia retroattiva, successivamente al decesso;

– questa configurazione giuridica, conforme al principio di capacità contributiva ex art. 53 Cost., emergeva anche dalle clausole contrattuali in questione, allegate al ricorso per cassazione, secondo cui: “il Cliente dichiara irrevocabilmente con la presente di acquistare, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1331 c.c., da Intesa Sanpaolo la partecipazione e quindi concede con la presente ad Intesa Sanpaolo, che con la presente accetta, opzione irrevocabile di vendita (…) della partecipazione”;

– sul piano strettamente tributario, l’art. 20 TUS contemplerebbe una nozione di “esistenza” (al momento di apertura della successione) in senso giuridico, non materiale, con ciò superando (come già disposto dal D.P.R. n. 637 del 1972) la diversa previsione di cui al previgente RD 3270 del 1923, secondo cui rilevavano in deduzione dall’asse ereditario unicamente i debiti “certi e liquidi” alla data dell’aperta successione (requisiti oggi espunti);

il fatto che il debito in questione dovesse nella specie considerarsi già esistente al momento dell’apertura della successione era anche avvalorato dal principio emergente dell’art. 42, comma 1, lett. f) TUS, secondo cui il contribuente ha diritto al rimborso dell’imposta (la quale non deve quindi essere corrisposta) che risulti essere stata pagata in più “a seguito di accertamento, successivamente alla liquidazione, dell’esistenza di passività o della spettanza di riduzioni o detrazioni”.

p. 2.2 Il motivo è infondato.

La disciplina legale delle passività deducibili ai fini dell’imposta di successione è improntata ad estremo rigore ontologico e probatorio, là dove ammette alla deduzione (a parte le spese mediche e funerarie) solo i debiti del defunto che siano “esistenti” alla data di apertura della successione (art. 20 TUS), ed a condizione che questi debiti risultino (a parte l’ipotesi dell’accertamento giurisdizionale definitivo) da atto scritto di data certa anteriore all’apertura della successione (art. 21, comma 1).

Quest’ultima disposizione prescrive, nei commi successivi, ulteriori condizioni probatorie di deducibilità – a seconda della loro genesi e natura – dei debiti “esistenti” al momento dell’apertura della successione. Il comma 5 prende in esame, per taluni specifici tipi di debito (verso lo Stato e gli enti pubblici territoriali ed assistenziali o previdenziali), l’eventualità di un loro definitivo accertamento successivo alla data di apertura della successione e ne ammette la deducibilità se a questa data “esistenti”. Così è previsto per i debiti tributari il cui presupposto si sia verificato prima dell’apertura della successione, anche se accertati dopo.

L’interpretazione giurisprudenziale di legittimità (tanto civilistica quanto tributaria) è ferma nel richiedere che il requisito di ‘esistenzà della passività si associ (con riguardo al momento della successione) alla sua attualità e determinatezza, non potendosi altrimenti sostenere che essa abbia in effetti inciso sull’asse ereditario e, in ambito impositivo, sulla formazione della base imponibile ex art. 8 TUS.

Cass. n. 5969/07 (ma il principio si trova già affermato in Cass. n. 5047/03, e poi ribadito in Cass. n. 4419/08) ha affermato che: “in tema di imposta sulle successioni, il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 637, art. 12, comma 1, (poi trasfuso nel D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, art. 20), nel richiedere, affinché una passività sia deducibile, che il debito sia “esistente” alla data di apertura della successione, postula che esso abbia, in quel momento, i caratteri dell’attualità e della determinatezza dell’ammontare, perché solo in questo caso è configurabile un effettivo depauperamento dell’attivo ereditario”, soggiungendo che non può essere dedotto dall’attivo ereditario, ai fini impositivi, “un debito che non sia certo e liquido”.

Recentemente, l’esigenza che il regime di deducibilità dei debiti del defunto implichi la loro “esistenza attuale e certa” è stata riaffermata anche da Cass. n. 32804/21 la quale, pur pronunciandosi in diversa fattispecie di individuazione della porzione disponibile ex art. 556 c.c., ha tuttavia richiamato la stessa disciplina ritenuta applicabile alla determinazione della base imponibile ai fini dell’imposta di successione.

p. 2.3 Questi requisiti di “esistenza” della passività deducibile, rapportati a parametri di attualità, certezza, determinatezza ed effettiva idoneità ad incidere sul patrimonio ereditario, non sussistono nel caso – com’e’ il presente – in cui l’opzione irrevocabile venga esercitata dopo l’apertura della successione.

L’istituto previsto dall’art. 1331 c.c. attiene alla disponibilità delle parti di regolare bilateralmente il processo formativo del contratto, in maniera tale che una di esse resti vincolata alla propria dichiarazione, restando invece l’altra libera di accettarla, oppure no, entro un termine prestabilito dalle parti stesse o fissato dal giudice.

A differenza dell’ipotesi del contratto preliminare (anche unilaterale: v. Cass. n. 28762/17; Cass. n. 2692/97) nella quale l’intento negoziale si consolida con la conclusione obbligatoria di un negozio successivo avente natura di contratto definitivo risultante dall’incontro di volontà, nell’opzione la definitività degli effetti negoziali si verifica in conseguenza di un atto unilaterale di natura potestativa, insito nell’accettazione da parte dell’opzionario.

Ciò pone il patto di opzione all’interno della più ampia nozione di proposta irrevocabile ex art. 1329 c.c., differenziandosene per la sua originaria bilateralità; per la predeterminazione consensuale dell’arco temporale di vincolatività per la parte concedente; per la sottoposizione medio tempore di quest’ultima ad una condizione di soggezione contrapposta all’altrui potestatività; per la possibilità della pattuizione di un corrispettivo di opzione e della cedibilità dell’opzione stessa.

Tanto la proposta irrevocabile quanto il patto di opzione devono tuttavia contenere tutti gli elementi essenziali del contratto da concludere, in modo da consentire la conclusione di quest’ultimo ‘nel momento e per effetto della adesione dell’altra parte’, senza necessità di ulteriori pattuizioni (Cass. n. 18201/04 con ulteriori richiami).

E’, questo, un aspetto davvero dirimente della questione qui dedotta, posto che se è vero (come osservato dai ricorrenti) che l’opzione si inserisce in un procedimento articolato di formazione della volontà negoziale di carattere progressivo, altrettanto evidente – proprio in base ai principi generali in materia di conclusione del contratto e di confluenza tra proposta ed accettazione ex art. 1326 c.c. – è che gli effetti del contratto opzionato (da tenersi distinti da quelli del patto di opzione) non si producono se non al momento e per effetto dell’esercizio del diritto da parte dell’opzionario.

Del tutto estranea alla fattispecie è quindi la retroattività tipica dell’avveramento della condizione ex art. 1360 c.c., la quale presuppone l’avvenuta conclusione del contratto, la natura accidentale dell’avvenimento esterno condizionante, la sua non riferibilità alla manifestazione di volontà di una delle parti.

Il richiamo alla fattispecie a formazione progressiva nell’ambito della quale l’esercizio dell’opzione si “salda” con la proposta irrevocabile individuabile nella concessione dell’opzione, non giova dunque alla tesi della parte ricorrente, dal momento che la progressività insita nella concatenazione formativa del consenso “opzione-accettazione-conclusione del contratto opzionato” non esclude affatto che gli effetti di quest’ultimo decorrano, sebbene in seguito a quella “saldatura” di volontà negoziali di cui parla la stessa giurisprudenza ed anzi proprio in forza di quella saldatura, ex nunc, cioè dalla dichiarazione unilaterale finale di accettazione e non dal rilascio iniziale, per quanto irrevocabile, dell’opzione. Conclusione non contraddetta dal fatto che la proposta irrevocabile, al cui ambito l’opzione si è detto ricondursi, possa in determinati casi sopravvivere alla morte del proponente ex art. 1329 c.c., comma 2, posto che una cosa sono gli effetti vincolanti della proposta (che permangono) ed altra gli effetti del contratto concluso (che si generano con il suo perfezionamento).

E’ significativo che quella stessa giurisprudenza che pur sottolinea la progressività della fattispecie, non esiti ad individuare il perfezionamento del contratto e la produzione dei relativi effetti solo in forza ed al momento dell’esercizio dell’opzione.

Di questa regola si sono fatte eterogenee ma coerenti applicazioni, essendosi affermato, ad esempio, che la stipula di un patto di opzione non fa di per sé sorgere un vincolo giuridico che abiliti ciascuna delle parti ad agire per l’esecuzione specifica del negozio (o per il risarcimento del danno) nell’ipotesi in cui quest’ultimo non intervenga (Cass. n. 24445/11, in tema di diritto del mediatore alla provvigione); che il trasferimento del bene in forza di una compravendita assistita da patto d’opzione si perfeziona con l’accettazione della proposta ed al prezzo risultante dagli indici esterni rilevabili alla data della stessa (Cass. n. 1332/17 ed altre); che in tema di opzione per l’acquisto di titoli azionari assistito da clausola di compensazione “il momento traslativo della vendita si determina per effetto dell’esercizio della opzione”, sicché “ai fini della sussistenza dei presupposti dell’azione revocatoria fallimentare e della ricorrenza del periodo sospetto, occorre considerare il momento in cui è stata esercitata l’opzione e non il precedente negozio con il quale sono state regolate le modalità di esercizio della compensazione ed è stata concessa l’opzione” (Cass. n. 23022/06; così Cass. n. 15142/03).

p. 2.4 Si tratta di conclusioni che si attagliano pienamente anche al contratto di opzione relativo a prodotti finanziari o derivati, come qui dedotto, e ricompreso D.Lgs. n. 58 del 1998, ex art. 1, comma 2 (TUF), quale “strumento finanziario”, nella Sezione C dell’Allegato I al D.Lgs. medesimo (“contratti di opzione, contratti finanziari a termine standardizzati (future), swap, accordi per scambi futuri di tassi di interesse e altri contratti derivati connessi a valori mobiliari, valute, tassi di interesse o rendimenti, quote di emissione o altri strumenti finanziari derivati, indici finanziari o misure finanziarie che possono essere regolati con consegna fisica del sottostante o attraverso il pagamento di differenziali in contanti” (…)).

Questa Corte ha avuto occasione di esaminare la natura dell’opzione in questione (nelle modalità fondamentali del suo atteggiarsi), osservando, per quanto qui più rileva (v. Cass. n. 763/16, richiamata anche da Cass. n. 27227/21 in tema di opzione in patto parasociale), che:

nel caso di opzione call, l’opzionario acquista, con il pagamento del premio, il diritto, ma non l’obbligo, di acquistare un determinato bene ad un prezzo specifico, mentre nel caso di opzione put egli acquista, con il pagamento del premio, il diritto, ma non l’obbligo, di vendere un determinato bene ad un prezzo specifico;

a seconda della modalità pattuita, l’opzione si concreta in uno strumento finanziario correlato alle aspettative di variazione del valore del titolo (o valore mobiliare) sottostante ed allo sfruttamento di un effetto leva dato dal rapporto tra prezzo dell’opzione e prezzo dei titoli sottostanti, per cui “nell’opzione call l’effetto leva esprime il rialzo del prezzo dell’opzione rispetto ad una variazione percentuale del prezzo del sottostante titolo; viceversa, nel caso di una opzione put, l’effetto leva esprime il rialzo dell’opzione per un ribasso percentuale del titolo sottostante”;

alla scadenza prestabilita l’opzione può essere esercitata al prezzo concordato (c.d. strike price), oppure abbandonata, in funzione di una precisa valutazione di convenienza economica riferita all’andamento di mercato: “se il prezzo di mercato del bene correlato risulta superiore allo strike price, verrà esercitata l’opzione di acquisto, ma non sarà economico esercitare quella di vendita. (…) Perciò la differenza fondamentale delle opzioni rispetto agli altri strumenti derivati consiste nella definizione dei diritti del possessore: egli non è obbligato ad acquistare/vendere il sottostante, ma può farlo se esercitando l’opzione ne trae un’effettiva convenienza economica. Per tale ragione sono anche detti titoli derivati asimmetrici”.

Gli elementi costitutivi dell’opzione possono dunque individuarsi nei seguenti: – l’attribuzione all’opzionario della facoltà di acquistare o vendere il valore mobiliare oggetto della transazione, a fronte del rispettivo obbligo dell’altra parte; – il premio corrispettivo dell’esercizio di questa facoltà; – il prezzo di acquisto/vendita del bene opzionato; – il termine entro il quale la transazione dovrà essere eseguita.

In ragione della natura dei contratti di opzione in esame, le conclusioni su riportate appaiono anzi addirittura corroborate, dal momento che l’opzione su valori mobiliari, merci o prodotti finanziari derivati trova un vero e proprio sostrato causale (di natura chiaramente aleatoria e speculativa) nel profittamento differenziale delle oscillazioni di valore del bene (espresso dai listini di mercato, se quotato), in modo tale che tutte le valutazioni di convenienza dell’operazione da parte del beneficiario muovono necessariamente, all’interno dell’arco temporale predeterminato, da elementi attualizzati al momento dell’esercizio dell’opzione e non al momento della sua concessione (nel quale possono rilevare soltanto mere aspettative o ipotesi previsionali).

Si è osservato (Cass. n. 27444/18) che: “in materia societaria, la vendita di una quota di partecipazione con opzione di riacquisto per un corrispettivo da quantificarsi secondo l’andamento della società al momento dell’adesione alla dichiarazione di offerta di riacquisto, diversamente dalla vendita con patto di riscatto, integra un contratto aleatorio in cui l’alea, che può colpire entrambe le parti, è insita nella variazione che il valore della partecipazione può subire entro il termine pattuito per l’esercizio del diritto di opzione (…)”.

Men che meno in questo caso, quindi, la progressività nella formazione del consenso intorno al contratto-fine opzionato ne può giustificare l’unificazione di effetti con il patto di opzione che si pone a monte di esso, né può giustificare la retrodatazione di questi effetti al momento della concessione dell’opzione, seppure irrevocabile.

p. 2.5 Tornando all’aspetto prettamente impositivo della vicenda, è dunque gioco-forza osservare che, alla data della morte del C. (l’unica legalmente rilevante ai fini della deducibilità della posta), questo momento di attualizzazione e rilevanza causale non si era ancora compiuto; tanto che a quella data non si sapeva se la Banca avrebbe esercitato, oppure no, il diritto potestativo di opzione di vendita (di fatto esercitato nove giorni dopo) e non era quindi possibile né individuare nel patrimonio del de cujus l’avvenuto perfezionamento dell’obbligo di acquisto delle azioni optate, né quantificare la passività differenziale che ciò avrebbe prodotto (commisurabile al listino del giorno dell’esercizio, non della morte).

Si tratta di elementi che si sarebbero concretizzati – nei riguardi dell’esecutore testamentario – solo nelle settimane successive al decesso, mediante l’attribuzione a dossier delle azioni del Gruppo Editoriale, la regolazione del prezzo in conto corrente, la registrazione dello scarto tra valore attuale di quelle azioni ed il prezzo opzionale di acquisto.

Si è dunque ben lontani dai requisiti di attualità, certezza e determinatezza che, come detto, connotano la nozione di “esistenza” della passività deducibile ex art. 20 TUS; e ciò in senso non solo materiale o contabile ma, vista la esclusiva riconducibilità degli effetti della compravendita all’accettazione della Banca, anche giuridica.

Neppure giova alla parte ricorrente richiamare quella giurisprudenza (sopra già citata, p. 2.2) secondo cui le passività rinvenienti dalle fideiussioni prestate dal de cujus non costituiscono di regola passività deducibili, “a meno che al momento dell’apertura della successione sussista l’insolvibilità del debitore garantito o l’impossibilità di esercitare l’azione di regresso, con il conseguente effettivo depauperamento dell’attivo ereditario” (Cass. n. 32804/21, 4419/08, 5969/07).

Da un lato, fa nel presente caso difetto qualsivoglia rapporto di giuridica accessorietà (ben diverso da quello di mera progressività formativa del consenso) tra la passività che si intenderebbe dedurre ed il patto di opzione, tale da fondare l’equiparazione dell’esercizio dell’opzione al debito garantito da fidejussione di cui sia già appurata l’inadempienza; dall’altro, la situazione che si è così ritenuta legittimare la deduzione (certa incapienza del debitore principale o conclamata ostatività al regresso) si connota con margini, appunto, di attualità, certezza ed inconfutabile determinatezza già al momento dell’apertura della successione, viceversa per nulla individuabili, per le indicate ragioni, nel caso di esercizio “successivo” dell’opzione. Sicché la giurisprudenza invocata depone per il contrario di ciò che si vorrebbe.

Quanto, poi, all’argomento desunto dell’art. 42, lett. f), TUS, in base al quale l’imposta deve essere rimborsata se “risultante pagata in più a seguito di accertamento, successivamente alla liquidazione, dell’esistenza di passività (…)”, basterà osservare come la norma non contraddica, ma anzi confermi, il requisito generale di esistenza della passività al momento dell’apertura della successione, prendendo in considerazione la diversa ipotesi in cui a sopravvenire a quest’ultimo momento non sia la passività in sé (appunto necessariamente già esistente) quanto soltanto il suo “accertamento successivamente alla liquidazione”. Là dove, nel caso di specie, non si discute di posteriorità (rispetto all’apertura della successione) dell’accertamento, quanto della stessa venuta ad esistenza del debito.

p. 3. Ne segue il rigetto del ricorso, con liquidazione delle spese in ragione di soccombenza.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.800,00, oltre spese prenotate a debito;

– v.to il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012;

– dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, a carico della parte ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 1 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 1 marzo 2022

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