Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6615 del 06/04/2016


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 6615 Anno 2016
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: FALASCHI MILENA

SENTENZA
sul ricorso 10539-2014 proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587, in persona del
Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI
PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA GENERALE
DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente contro
FOSCHINI VINCENZO, FOSCH1NI CONSIGLIA, FOSCHINI
FULVIO, FOSCHINI ITALO, GAROFANO CINZIA,
GAROFANO SANDRA, queste ultime due nella qualità di eredi di
Iuliani Angelina, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEL

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Data pubblicazione: 06/04/2016

MONTE OPPIO 5, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO
PASCUCCI, rappresentati e difesi dall’avvocato LUIGI ROTONDI
giusta procura speciale a margine del controricorso;
– controticorrenti

D’APPELLO di ROMA M1’8/07/2013, depositato il 17/10/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
24/09/2015 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto del 17.10.2013 la Corte d’appello di Roma ha accolto la domanda
proposta da Vincenzo, Consiglia, Fulvio ed Italo FOSCHINI, in proprio, e da
Cinzia e Sandra GAROFANO, nella qualità di eredi di Angelina Iuliani, intesa ad
ottenere l’equa riparazione del danno non patrimoniale conseguente alla durata
non ragionevole di un giudizio in materia di occupazione illegittima di area
introdotto dinanzi al Tribunale di Napoli con atto di citazione notificato in data
03/05.11.1991 durato complessivamente diciassette anni, depositata la sentenza
di inammissibilità del ricorso in Cassazione il 3.11.2008, commisurato
l’indennizzo in €. 9.250,00, per ognuno di loro — in ragione di €. 750,00 per
ciascuno dei primi tre anni di ritardo e di €. 1.000,00 per ogni anno successivo —
ad eccezione delle Garofano, per le quali detto indennizzo veniva liquidato pro

avverso il decreto n. 54069/2009 R.G.V.G. della CORTE

quota avendo agito iure hereditatis.
Per la cassazione di tale decreto il Ministero della giustizia ha proposto ricorso,
affidato a sei motivi, cui gli intimati hanno resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione in forma semplificata.

Ric. 2014 n. 10539 sez. M2 – ud. 24-09-2015
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Con il primo motivo di ricorso l’Amministrazione denuncia violazione e
falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c.
per avere la corte di merito liquidato un indennizzo complessivo pari ad
27.000,00, attribuendo a ciascun ricorrente che aveva agito in proprio €,.
9.250,00, mentre dalle conclusioni riportate nel ricorso originario l’indennizzo a

richiesta per le restanti parti.
Il motivo – che lamenta l’erroneità del decisum del giudice di appello nella parte
in cui è stata ritenuta esperita la domanda di indennizzo anche iure hereditas —
non ha giuridico fondamento.
L’ interpretazione della domanda giudiziale, della sua portata, della sua estensione
e dei suoi limiti sotto il profilo del divieto di ius novorum costituisce, difatti, per
costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte regolatrice, compito
esclusivo del giudice di merito, la cui attività interpretativa risulta incensurabile in
sede di legittimità se, come nella specie, correttamente e congruamente motivata.
Gli atti di parte hanno, difatti, correttamente indotto la Corte di
merito a ritenere proposta la domanda di danno non patrimoniale anche con
riferimento ad un diritto fin dall’origine proprio.
Con il secondo motivo di ricorso l’Amministrazione, lamentando la
violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, nonché
dell’art. 75 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., con specifico

riferimento alla posizione di Foschini Italo, evidenzia che lo stesso non figura fra
le parti originarie del giudizio presupposto, ma è intervenuto solo all’udienza del
7.7.1994 a fronte di una controversia introdotta nel novembre 1991, con la
conseguenza che ai fini dell’equa riparazione avrebbe dovuto essere scomputato

un periodo di circa tre anni per detta posizione, oltre a non avere valutato
l’interesse ovvero il titolo sotteso all’atto di intervento.
Il motivo è fondato.

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titolo individuale era stato richiesto solo da Italo Foschini, essendo cumulativa la

Questa Corte ha costantemente affermato che il diritto alla trattazione delle
cause entro un termine ragionevole è riconosciuto dall’art. 6, paragrafo 1, della
Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, specificamente richiamato dalla L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2,
solo con riferimento alle cause “proprie” e, quindi, esclusivamente in favore delle

favore di soggetti che siano ad essa rimasti estranei (Cass. 14 maggio 2010 n.
11761; Cass. 12 luglio 2011 n. 15250; Cass. 8 maggio 2012 n. 7024). Il

pregiudizio derivante dalla violazione del principio della durata ragionevole si
ricollega, quindi, non alla situazione soggettiva che costituisce l’oggetto del
processo presupposto, ma alle sofferenze correlate alla protrazione ingiustificata
dello stesso; in tale ambito appare imprescindibile la partecipazione a tale causa,
che, per altro, soprattutto nel giudizio civile, è sempre sorretta da un interesse
non di mero fatto, ma giuridico, che sussiste anche in relazione al ed. intervento
adesivo o dipendente (art. 105 c.p.c., comma 2: Cass. 23 dicembre 1993 n.
12758).
Orbene, pur considerando la differenza fra interesse ad azionare una pretesa
propria e interesse ad intervenire, sia pure ad adiuvandurn, nel giudizio pendente
fra altri soggetti (cfr., in motivazione, Cass. Sez. Un. 17 luglio 2008 n. 19600),
deve rilevarsi che anche l’interveniente in via adesiva assume, sebbene con
limitati poteri (cfr., in tema di impugnazione, Cass. 17 aprile 2012 n. 5992), la
qualità di parte, e, come tale, ha diritto a una definizione del giudizio in tempi
ragionevoli, in virtù del principio, sopra richiamato, che costituisce l’essenza della
domanda di equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001.
In linea generale (salvo l’accertamento in concreto dell’insussistenza del
pregiudizio, soprattutto nei casi di lite temeraria), ai fini della verifica circa la
sussistenza dell’ansia e della sofferenza – e quindi, del danno non patrimoniale si deve aver riguardo ai riflessi psicologici che la persona normalmente subisce
per il perdurare dell’incertezza sull’assetto delle posizioni coinvolte dal dibattito
Ric. 2014 n. 10539 sei. M2 – ud. 24-09-2015
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“parti” della causa nel cui ambito si assume avvenuta la violazione e non anche in

processuale ma, stante la posizione di interveniente adesivo (e non già di parte
originaria del giudizio presupposto), deve aversi riguardo alla data in cui si è
volontariamente costituito in detto processo, con decorrenza dal quale sorge il
diritto all’equa riparazione.
Con il terzo motivo l’Amministrazione — insistendo nella violazione delle

posizione delle GAROFANO, che hanno agito quali eredi di Angelina Iuliani,
abbia liquidato un indennizzo pro quota iure hereditatis prescindendo dal dies ad
quem costituito dalla data di decesso del dante causa, intervenuto il decesso nel
corso del giudizio.
Anche detto motivo è fondato.
Dalle stesse dichiarazioni delle controricorrenti risulta che la dante causa delle
GAROFANO è deceduta il 6.3.2007, sicchè è a tale data che va limitato
l’indennizzo rispetto al diritto preteso iure hereditatis.
Con il quarto motivo l’Amministrazione, nel denunciare la violazione e/o

falsa applicazione del medesimo art. 2 legge n. 89 del 2001, si duole che la corte
distrettuale non abbia considerato la statuizione di inammissibilità del ricorso per
cassazione nell’ambito del giudizio presupposto, per cui ogni questione di durata

relativamente alla suddetta terza fase avrebbe dovuto essere pretermessa e ciò
per la patente infondatezza del gravame che rende privo di alea l’ulteriore
sviluppo del giudizio, oltre ad assumere una certa valenza dilatoria. Circostanza
evidenziata dal Ministero con specifica eccezione fin dalla comparsa di
costituzione. Inoltre la corte di merito non avrebbe tenuto conto di una stasi
processuale di sei mesi fra le prime due fasi del processo presupposto.
Il motivo non è fondato.
Giova premettere come questa Corte abbia, al riguardo, enunciato i seguenti
principi:
a) che, in tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole
durata del processo ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, la parte istante, con
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medesime norme sopra invocate — si duole che la corte di merito, quanto alla

l’allegazione e dimostrazione del protrarsi della controversia oltre il termine
mediamente qualificabile come ragionevole, secondo parametri di normalità ed
anche alla luce dei criteri elaborati in proposito dalla Corte europea dei diritti
dell’uomo, offre il titolo della propria richiesta indennitaria ed identifica, quindi,
la causa petendi della pretesa azionata, cui si collega il danno (patrimoniale e non
medesima ha un onere di allegazione e di dimostrazione circa la propria
posizione nel processo presupposto (la data iniziale di questo, la data della sua
eventuale definizione e gli eventuali gradi in cui si è articolato), mentre su di essa
non incombe l’onere di specificare “passo passo” le cadenze dei ritardi denunciati
e di argomentare analiticamente al riguardo, atteso che la legge demanda al
giudice (munito, in coerenza con il modello procedimenta.le adottato, di poteri di
iniziativa, i quali si estrinsecano attraverso l’assunzione di informazioni che,
espressamente prevista dall’art. 738 c.p.c., non resta subordinata all’istanza di
parte) il compito di accertare in concreto la violazione (Cass. 16 ottobre 2003, n.
15475; Cass. 10 settembre 2004, n. 18241);
b) che, ai sensi della citata legge n. 89 del 2001, il diritto ad un’equa riparazione in
caso di mancato rispetto del termine ragionevole del processo, avente carattere
indennitario e non risarcitorio, non richiede l’accertamento di un illecito secondo
la nozione contemplata dall’art. 2043 c.c., né presuppone la verifica dell’elemento
soggettivo della colpa a carico di un agente, risultando invece ancorato
all’apprezzamento della violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione
europea, ovvero di un evento ex se lesivo del diritto dell’istante alla definizione
del suo procedimento in un lasso di tempo appunto ragionevole, atteso che la
relativa obbligazione si configura non già come obbligazione ex delicto, ma come
obbligazione ex lege, riconducibile, in base all’art. 173 c.c., ad ogni altro atto o
fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità all’ordinamento
giuridico (Cass. 26 luglio 2002 a 11046; Cass. 22 ottobre 2002 n. 14885; Gas s. 29
ottobre 2002 n. 15229; Cass. 22 gennaio 2003 n. 920);
Ric. 2014 n. 10539 sez. M2 – ud. 24-09-2015
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patrimoniale) lamentato in conseguenza dell’addotta violazione, onde la parte

c) che, in tema di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della già richiamata legge n.
89/2001, il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorché non
automatica e necessaria, della violazione del diritto alla ragionevole durata del
processo di cui all’art. 6 della Convenzione europea, onde, pur dovendo
escludersi la configurabilità di un danno non patrimoniale in re ipsa, ossia di un

violazione, il giudice, una volta accertata e determinata l’entità della violazione
relativa alla durata ragionevole del processo secondo le norme dell’indicata legge
n, 89/2001, deve ritenere sussistente il danno non patrimoniale ogni qualvolta
non ricorrano, nel caso concreto, circostanze particolari che facciano
positivamente escludere che tale danno sia stato subito dal ricorrente (come
nell’ipotesi, esemplificativamente, di piena consapevolezza, ad opera della parte,
della inammissibilità o infondatezza delle proprie istanze e, comunque, in tutte le
ipotesi nelle quali il protrarsi del giudizio risponde ad uno specifico interesse
della parte stessa o è destinato a produrre conseguenze che detta parte percepisca
a sè favorevoli), una simile lettura della norma interna, oltre che ricavabile dalla
ratto giustificativa collegata alla sua introduzione, particolarmente emergente dai
lavori preparatori, essendo imposta dall’esigenza di adottare un’interpretazione
conforme alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (alla cui
stregua il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del
processo, una volta che sia stata dimostrata la riferita violazione dell’art. 6, viene
normalmente liquidato alla vittima senza bisogno che la sua sussistenza sia
provata, ancorché in via presuntiva), così evitandosi i dubbi di contrasto con la
Costituzione italiana, la quale, con specifica enunciazione contenuta nell’art. 111,
tutela il bene della ragionevole durata del processo come diritto della persona,
sulla scia di quanto previsto dalla norma convenzionale, senza che, del resto,
l’indennizzo corrispondente possa essere escluso sul rilievo dell’esiguità della
posta in gioco nel processo presupposto, atteso che l’entità di quest’ultima non è
suscettibile di impedire il riconoscimento del danno non patrimoniale, nel senso
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danno automaticamente e necessariamente insito nell’accertamento della

che l’ansia ed il paterna d’animo conseguenti alla pendenza del giudizio in cui si è
realizzato il mancato rispetto del termine ragionevole si verificano normalmente
anche nei processi nei quali sia esigua la posta in gioco, onde tale aspetto può
avere (semmai) solo un effetto riduttivo dell’entità della riparazione, ma non
escluderla del tutto, rilevando, cioè, semplicemente ai fini della concreta
n. 1338 e n. 1339; Cass. 5 agosto 2004 n. 15093; Cass. 16 febbraio 2005 n. 3118;

Cass. 5 aprile 2005 n. 7088).
Nella specie, la Corte territoriale ha osservato che dall’intero giudizio, durato
diciassette anni, andavano detratti i sei anni di ragionevole durata del processo
ed il tempo intercorso per l’impugnazione della sentenza di secondo grado,

concludendo per l’accoglibilità della richiesta, a prescindere dalla fondatezza della
pretesa (Cass. n. 3973 del 2003), con ciò implicitamente non ravvisando ipotesi
di lite temeraria o abusiva (Casse n. 28592 del 2011; Cass. n. 19204 del 2005) o di
sopravvenuta consapevolezza della mancanza di fondamento della pretesa (C.ass.
n. 4890 del 2015).
Con il quinto motivo la ricorrente, nel denunciare l’omessa e/o
insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia, lamenta che il
giudice distrettuale abbia del tutto immotivatamente addebitato
all’amministrazione della giustizia il ritardo, sulla base di una affermazione
apodittica (“la questione sottoposta al Tribunale non era di particolare
complessità”), omessa ogni considerazione sui numerosi indici evidenziati
dall’Amministrazione, quali la pluralità di parti ed un atto di intervento,
l’espletamento di c.t.u., seguita da supplemento, pluralità di appelli.

La censura proposta ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. è inammissibile, perché
formulata con riferimento alla ormai superata formulazione della norma invocata
(Cass., S.U, n. 8053 del 2014).
In proposito, occorre ricordare che le Sezioni Unite di questa Corte hanno
affermato che «la riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.,
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determinazione della misura di quest’ultima (Cass. Sezioni Unite 26 gennaio 2004

disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012,
n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12
delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di
legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo
l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente

risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le
risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di
motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione
perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del
semplice difetto di ” sufficienza” della motivazione», precisando altresì che il
medesimo art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., come riformulato,
introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cessazione,
relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui
esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia
costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire
che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo
comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ., il ricorrente deve
indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o

rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio

extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia
stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo
restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio
di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa,
sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza
non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie» (Cass. SS.UU. n. 8053 del
2014).

Ric. 2014 n. 10539 sez. M2 – ud. 24-09-2015
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ett

Con il sesto ed ultimo motivo, articolato dall’Amministrazione in via

subordinata, nel denunciare la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 legge
n. 89 del 2001 e 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., è
lamentata da parte della corte di merito la liquidato gli interessi sull’indennizzo
riconosciuto dalla domanda pur in mancanza di una specifica domanda sul

La censura è assorbita dall’accoglimento dei motivi due e tre del ricorso, dovendo
la corte di merito pervenire a nuovo esame della controversia.
Conclusivamente, vanno accolti il secondo e il terzo motivo di ricorso, rigettati il
primo ed il quarto, inammissibile il quinto, assorbito il sesto; va cassato il decreto
impugnato in relazione alle censure accolte, con rinvio, per nuovo esame, alla
Corte di appello di Roma, in diversa composizione.
Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del
giudizio di cassazione.
P.Q.M.

La Corte, accoglie i motivi secondo e terzo di ricorso, rigettati i motivi primo e
quarto, dichiarato inammissibile il quinto, assorbito il sesto;
cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le
spese del giudizio di cassazione, alla Corte di appello di Roma, in diversa
composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della W – 2″ Sezione Civile, il 24
settembre 2015.

punto.

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