Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6614 del 06/04/2016


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 6614 Anno 2016
Presidente: PETITTI STEFANO
Relatore: FALASCHI MILENA

SENTENZA
sul ricorso 9675-2014 proposto da:
DI NOTO ORAZIO ANTONIO, in proprio e quale unico erede di
Di Noto Antonino, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA
FARA VELLI 22, presso lo studio dell’avvocato GAETANO
GIANNI’, rappresentato e difeso dall’avvocato FABRIZIO TRIFILO’
giusta mandato in calce al ricorso;
– ricorrente contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA 8018440587, in persona del
Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI

63-to

Data pubblicazione: 06/04/2016

PORTOGHESI 12, presso ‘AVVOCATURA GENERALE DELLO
STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– contraticottente –

avverso il decreto n.. 169/2013 V.G. della CORTE D’APPELLO di

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
24/09/2015 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
(In ricorso depositato in data 10 maggio 2013 presso la Corte d’appello di
Reggio Calabria Orazio Antonio DI NOTO, agendo in proprio e quale unico
erede di Antonino Di Noto (deceduto il 13.11.2000), ha proposto opposizione ex
art. 5 ter legge n. 89 del 2001 avverso il decreto presidenziale, del 28 maggio
2013, che aveva integralmente rigettato la domanda di equa riparazione, sul
presupposto che non fosse stato parte del giudizio presupposto, mentre la durata
era da ritenere ragionevole quanto al diritto vantato iure successionis. Insisteva il
predetto affinchè venisse a lui riconosciuto un equo indennizzo per
l’ingiustificata durata di un procedimento iniziato dal suo de cuius con ricorso
depositato il 16 luglio 1998, introdotto dinanzi al Pretore di Mistretta. Sezione
distaccata di Santo Stefano di Camastra e concluso con sentenza del Tribunale di
Mistretta (nelle more divenuto competente) pronunciata all’udienza del 2 maggio

REGGIO CALABRIA del 24/10/ 2013, depositato il 29/10/2013;

2012, pubblicata il successivo 9 maggio 2012. Precisava l’erede del Di Noto
Antonino che il giudizio presupposto, durato complessivamente per quattordici
anni, si era svolto per tutta la durata con le parti originarie, mai dichiarato
l’evento interruttivo del decesso del loro dante causa, e ciò nonostante era durato
per un tempo indennizzabile, stante la disciplina in materia della Corte di
Strasburgo.

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tbl

Nella contumacia del Ministero della giustizia, la Corte di Appello di Reggio
Calabria ha rigettato l’opposizione per non avere l’opponente assunto la qualità
di parte dopo il decesso del genitore, con condanna dello stesso al pagamento
della somma di €. 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.
Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso il DI NOTO, sulla base di

MOTIVI DELLA DECISIONE
Il Collegio ha deliberato l’adozione di una motivazione in forma semplificata.
Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa
applicazione dell’art. 2 della Legge n. 89 del 2001 e dell’ari 6 della CEDU, per

non avere a lui riconosciuto, iure proprio e iure hereditatis, l’indennizzo per la durata
eccessiva del giudizio presupposto, pur in mancanza della sua costituzione, non
avendo lo stesso dato causa alle lungaggini processuali.
Il ricorso è privo di fondamento.
Nel caso di specie — come correttamente evidenziato dalla corte di merito – vi è
la necessità di distinguere l’azione esercitata dal ricorrente iure hereditatis da quella
relativa alla durata non ragionevole del processo da lui proseguito iure proprio.
In tema di equa riparazione ai sensi della L n. 89 del 2001, qualora la parte
costituita in giudizio sia deceduta anteriormente al decorso del termine di
ragionevole durata del processo – contrariamente a quanto asserito dal ricorrente

due motivi; il Ministero resistente ha resistito con controricorso.

– l’erede ha diritto al riconoscimento dell’indennizzo, iure proprio, soltanto per il
superamento della predetta durata verificatosi con decorrenza dal momento in
cui, con la costituzione in giudizio, ha assunto a sua volta la qualità di parte, non
assumendo alcun rilievo, a tal fine, la continuità della sua posizione processuale
rispetto a quella del dante causa, prevista dall’art. 110 c.p.c., in quanto il sistema
sanzionatorio delineato dalla CEDU e tradotto in norme nazionali dalla L n. 89
del 2001 non si fonda sull’automatismo di una pena pecuniaria a carico dello
Stato, ma sulla somministrazione di sanzioni riparatorie a beneficio di chi dal
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(1

ritardo abbia ricevuto danni patrimoniali o non patrimoniali, mediante indennizzi
modulabili in relazione al concreto paterna subito, il quale presuppone la
conoscenza del processo e l’interesse alla sua rapida conclusione (Cass. n. 23416
del 2009; Cass. n. 2983 del 2008). In altri termini, non può assumersi come
riferimento temporale di determinazione del danno l’intera durata del

diverse frazioni temporali al fine di valutarne separatamente la ragionevole
durata, senza, tuttavia, escludere la possibilità di un cumulo tra il danno morale
sofferto dal dante causa e quello personalmente patito dagli eredi nel frattempo
intervenuti nel processo, non ravvisandosi incompatibilità tra il pregiudizio patito
iure proprio e quello che lo stesso soggetto può far valere pro quota e iure successionis,

ove già entrato a far parte del patrimonio del proprio dante causa (in termini,
Cass. n. 21646 del 2011; nello stesso senso: Cass. n. 10517 del 2013; Cass. n. 995
del 2012; Cass. n. 1309 del 2011; Cass. n. 13803 del 2011).
In proposito, giova ricordare che di recente (Cass. n. 4004 del 2014) questa Corte
nel ribadire il principio di cui sopra ha chiarito che a diverse conclusioni in
merito alla computabilità del periodo tra il decesso dell’originaria parte nel
giudizio presupposto e la costituzione dei suoi eredi non può neanche pervenirsi,
traendo spunto dalla recente sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 585
del 2014, che, dirimendo un contrasto tra sezioni semplici in merito alla
possibilità che il contumace nel processo presupposto possa far valere il diritto
all’equa riparazione per la non congrua durata dello stesso, ha statuito la
equiparazione – ai fini della possibile insorgenza del diritto al ristoro del danno
non patrimoniale – tra parti costituite e parti chiamate a partecipare a quel
giudizio, ma in esso non intervenute, proprio alla luce dei postulati predetti.
Non può neanche sottacersi che nella recente sentenza – di in-icevibilità – della
Seconda Sezione della CEDU del 18 giugno 2013, in causa Fazio e altri c. Italia,
si è affermato che la qualità di erede di una parte nel procedimento presupposto
non conferisce, di per sé, il diritto a considerarsi vittima della, eventualmente
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procedimento, ma è necessario procedere ad una ricostruzione analitica delle

maturata, durata eccessiva del medesimo e che l’interesse dell’erede alla
conclusione rapida della causa difficilmente è conciliabile con la sua mancata
costituzione nello stesso, dato che solo attraverso l’intervento nel procedimento
l’avente diritto ha l’opportunità di partecipare e di influire sull’esito dello stesso.
Sotto detto profilo, pertanto, il motivo è da respingere, per avere la corte
all’indennizzo

maturato iure successioni s computandolo fino alla data di decesso del de catius e
quello maturato iure proprio con decorrenza dalla eventuale data di costituzione
dello stesso (in qualità di erede) nel giudizio presupposto, nella specie peraltro
non avvenuta, come dallo stesso ricorrente pacificamente riconosciuto.
Ne consegue che la Corte di appello ha fatto buon governo dei principi sopra
enunciati, anche a livello europeo, ai fini del computo della durata complessiva
del giudizio, quanto alla posizione vantata iure bereditatis e iure proprio dal
ricorrente con riferimento al giudizio presupposto.
Con il secondo mezzo il ricorrente denuncia la violazione e falsa
applicazione dell’art. 5 quater per avere la corte reggina applicato una sanzione in

difetto dei presupposti di legge.
Il motivo è infondato.
Va qui osservato che l’art. 5 quater dispone che «con il decreto di cui all’art. 3,
comma 4, ovvero con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione,
il giudice, quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile
ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in
favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro
1.000 e non superiore ad curo 10.000». Invero, deve rilevarsi che la formulazione
della disposizione è di per sè sufficientemente chiara e dal tenore letterale della
norma emerge chiaramente che ciò a cui il legislatore ha attribuito rilievo
decisivo è la repressione dell’uso abusivo e distorto del processo, prevedendo
l’assoggettabilità a sanzione sia di coloro che azionano processi pur non avendo

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distrettuale correttamente considerato il diritto del ricorrente

ab origine diritto all’equo indennizzo, sia di coloro che propongono ricorsi viziati
da irregolarità non sanabili e ascrivibili a colpa della parte.
Del resto, nel ricostruire la ratio legis di altro meccanismo sanzionatorio e
deflattivo predisposto dal legislatore, la Corte costituzionale ha rilevato che “si
deve dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 616 c.p.p., nella parte in cui
possa non pronunciare la condanna in favore della cassa delle ammende, a carico
della parte privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella
determinazione della causa di inammissibilità” (sent. n. 186 del 2000).
L’interpretazione dell’art. 5-quater dianzi prospettata appare coerente con tale
pronuncia, atteso che il criterio di discrimine nella applicazione del meccanismo
sanzionatorio va individuato nella colpa del ricorrente, desunta
dall’apprezzamento della causa di inammissibilità o di rigetto della domanda
riparatoria. Del resto si tratta di norma del tutto coerente con la finalità di
disincentivare, senza alcun automatismo, pretese avanzate dalle parti benché
temerarie o inosservanti, sul piano processuale, del

dettato normativo:

l’introduzione di detto meccanismo potrebbe ridurre il carico delle Corti
territoriali consentendo una più sollecita e celere definizione delle controversie
nelle quali venga fondatamente fatto valere il diritto al riconoscimento della
violazione del termine di ragionevole durata del processo (Cass. n. 22777 del
2014).
Ne consegue che correttamente il giudice del merito può applicare la detta
sanzione processuale allorché la domanda di indennizzo sia stata proposta da
soggetto che non aveva ragione di proporla alla luce della consolidata
giurisprudenza.
Conclusivamente, alla luce delle considerazioni sopra svolte, il ricorso va
respinto, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del
giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo.

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non prevede che la Corte di Cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso,

Risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato
esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla
dichiarazione di cui al T.U. approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art.
13, comma 1-quater, introdotto dalla L 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che
liquida in complessivi €. 500,00 per compensi, oltre a spese prenotate

e

prenotande a debito.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI – 2^ Sezione Civile, il 24
settembre 2015.

17.

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