Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6611 del 09/03/2020

Cassazione civile sez. I, 09/03/2020, (ud. 31/01/2020, dep. 09/03/2020), n.6611

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. FERRO Massimo – rel. Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso proposto da:

N.R., rappr. e dif. dall’avv. Emanuele Giudice, (OMISSIS),

elett. dom. presso lo studio dello stesso, in Roma, viale Manzoni n.

81, come da procura spillata in calce all’atto;

– ricorrente –

Contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro p.t.;

– intimato –

per la cassazione della sentenza App. Milano 19.6.2018, n. 3030/2018,

R.G. 1996/2016;

vista la memoria del ricorrente;

udita la relazione della causa svolta dal Consigliere relatore Dott.

Ferro Massimo, alla camera di consiglio del 31.1.2020.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Rilevato che:

1. N.R. impugna la sentenza App. Milano 19.6.2018, n. 3030/2018, R.G. 1996/2016 che ha rigettato il suo appello avverso l’ordinanza Trib. Milano 6.4.2016 che aveva negato la dichiarazione dello status di rifugiato, la protezione sussidiaria e altresì quella umanitaria con concessione del permesso di soggiorno, così non accogliendo l’opposizione del ricorrente al provvedimento della competente Commissione territoriale, la quale aveva escluso i relativi presupposti;

2. la corte ha condiviso il primo giudizio, osservando che: a) già dalle dichiarazioni del richiedente, senza necessità di verifica della sua credibilità, emergevano le ragioni solo economiche dell’allontanamento dal Bangladesh, prima verso la Libia (in aereo) e poi verso l’Italia, difettando ogni sorta di persecuzione o anche solo danno grave connessi al rimpatrio; b) non sussisteva un conflitto armato generalizzato nel Paese di provenienza; c) anche dal mancato aggiornamento nel processo circa le proprie condizioni personali, non è risultato che il richiedente avesse conseguito un inserimento socio-lavorativo in Italia, nè sono state palesate condizioni particolari di salute idonee a formulare un giudizio di vulnerabilità, così dovendosi negare la concessione della protezione umanitaria;

3. il ricorso è su due motivi.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Considerato che:

1. con il primo motivo si deduce la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e t.u. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 per errata applicazione delle norme sulla protezione umanitaria;

2. con il secondo motivo si censura, quale vizio di motivazione, la omessa considerazione di elementi istruttori offerti dalla parte a sostegno della richiesta di cui al primo motivo;

3. i motivi, da trattare in via congiunta per l’intima connessione, sono, per più profili, inammissibili; vi fa invero difetto, in via preliminare, una adeguata e specifica censura della concomitante e parzialmente autonoma ratio decidendi della pronuncia impugnata, ove la corte ha enunciato un apprezzamento di merito insindacabile in questa sede alla luce degli stringenti limiti di censurabilità della motivazione (Cass. s.u. 8053/2014) e anche con riferimenti di condivisione alle lacune della domanda già riscontrate dal primo giudice, quanto al difetto dei presupposti di tutte le tipologie di protezione; l’allontanamento è risultato dovuto esclusivamente a ragioni economiche, senza alcun collegamento con indici – anche solo allegati – di persecuzione o danno grave e senza alcuna individualizzazione dei rispettivi rischi in connessione alla situazione generale del Paese di eventuale rimpatrio;

4. l’unica censura sopravvissuta, a fronte di un preciso quadro di non inserimento socio-lavorativo del richiedente e anche di scarsità informativa circa le attuali condizioni di vita in Italia, è inammissibile, pur dovendosi convenire sul carattere tuttora aperto della misura protettiva residuale e però dovendosi ripetere, con Cass. 23778/2019 (già sulla scia di Cass. 4455/2018), che “occorre il riscontro di “seri motivi” (non tipizzati) diretti a tutelare situazioni di vulnerabilità individuale, mediante una valutazione comparata della vita privata e familiare del richiedente in Italia e nel Paese di origine, che faccia emergere un’effettiva ed incolmabile sproporzione nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, da correlare però alla specifica vicenda personale del richiedente… altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 cit., art. 5, comma 6″; si tratta di principio ribadito da Cass. s.u. 29460/2019, facendo qui difetto i termini oggettivi di un’effettiva comparabilità, al fine di censire la vulnerabilità del ricorrente e potendosi aggiungere che l’odierna censura – laddove in realtà la corte ha evidenziato anche la mancanza di un percorso d’integrazione e la non specificità dei riferimenti – è inammissibile altresì per genericità e perchè si risolve in un dedotto vizio di motivazione, oltre il limite del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

il ricorso va dunque dichiarato inammissibile e sussistono i presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato (Cass. 9660/2019, 25862/2019).

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 31 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020

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