Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6605 del 18/03/2010
Cassazione civile sez. I, 18/03/2010, (ud. 17/11/2009, dep. 18/03/2010), n.6605
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – rel. Presidente –
Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere –
Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere –
Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –
Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 3062/2007 proposto da:
I.R. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA OTTAVIANO 66, presso l’avvocato BARILE ANTONIO,
rappresentata e difesa dall’avvocato ROMANO FRANCESCO, giusta procura
a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, in persona del Presidente pro
tempore, domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso
l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope
legis;
– controricorrente –
avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositato il
06/12/2005;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del
17/11/2009 dal Presidente Dott. UGO RICCARDO PANEBIANCO;
lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale dott.
RUSSO LIBERTINO ALBERTO che chiede che la Corte di Cassazione, in
Camera di consiglio, accolga per quanto di ragione il ricorso per
manifesta fondatezza.
Fatto
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con decreto depositato in data 6.12.2005 la Corte d’Appello di Napoli – pronunciando sulla domanda di equa riparazione ex L. n. 89 del 2001, proposta da I.R. nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri in relazione al giudizio dalla medesima promosso con ricorso depositato nel dicembre 1992 avanti al TAR della Campania al fine di ottenere il pagamento, da parte dell’USL (OMISSIS) della Regione Campania, della somma di L. 8.000 per ogni giorno di effettiva presenza lavorativa, come previsto dal D.P.R. n. 270 del 1987 e dal D.P.R. n. 384 del 1990 e definito in primo grado con sentenza del 15.1.2003 – determinava in anni sette il periodo eccedente la durata ragionevole e liquidava a titolo di danno non patrimoniale, tenuto conto della mancanza di qualsiasi attività sollecitatoria e del non rilevante valore economico della causa, la somma di Euro 3.500,00, pari ad Euro 500,00 per ogni anno di ritardo.
Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione I.R. che deduce due motivi di censura.
Resiste con controricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Il Procuratore Generale, cui gli atti sono stati rimessi per il parere, chiede l’accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza in ordine alla determinazione dell’indennizzo.
Diritto
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso I.R. denuncia violazione dell’art. 6 par. 1 della C.E.D.U. e della L. n. 89 del 2001. Lamenta che la Corte d’Appello non abbia tenuto conto dei parametri europei per quanto riguarda la determinazione dell’indennizzo fissata in una somma oscillante fra Euro 1000,00 ed Euro 1.500,00 per ogni anno di ritardo nè si è adeguata alla giurisprudenza della CEDU per quanto concerne il riconoscimento di un “bonus” di Euro 2.000,00 in presenza di una causa in materia di lavoro.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia difetto di motivazione, sostenendo che ai fini della determinazione dell’indennizzo e del riconoscimento del “bonus” si è discostata dalla giurisprudenza europea senza alcuna motivazione.
Il ricorso è fondato nei limiti che qui di seguito saranno precisati.
Quanto alla censura con cui si contesta l’entità dell’indennizzo riguardante il danno non patrimoniale, si rileva che la Corte d’Appello, liquidando una somma complessiva di Euro 3.500,00, pari ad Euro 500,00 per ogni anno di durata non ragionevole complessivamente determinata in anni sette, non si è adeguata ai parametri fissati dalla Corte europea e recepiti dalla giurisprudenza di questa Corte la quale ha chiarito come una tale valutazione non possa prescindere, in considerazione del rinvio operato dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, dall’interpretazione della Corte di Strasburgo e debba pertanto uniformarsi, per quanto possibile, alla liquidazione effettuata in casi simili dal giudice europeo, sia pure con possibilità di apportare, purchè in misura ragionevole, le deroghe suggerite dalla singola vicenda. Dalle decisioni adottate a carico dell’Italia (vedi in particolare la pronuncia sul ricorso n. 62361/01 proposto da Riccardi Pizzati e sul ricorso n. 64897/01 proposto da Zullo) risulta infatti che la Corte europea ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 il parametro medio annuo per la quantificazione dell’indennizzo.
Orbene, nel caso in esame, esclusa la congruità dell’indennizzo liquidato dalla Corte d’Appello per la mancata adesione ai richiamati parametri europei e ricorrendo le condizioni per una decisione nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, si ritiene, in considerazione del modesto valore del giudizio presupposto cui ha fatto riferimento il decreto impugnato, di determinare l’indennizzo complessivamente in Euro 6.250,00, pari ad Euro 750,00 per i primi tre anni ed in Euro 1.000,00 per il restante periodo di anni quattro, non potendosi negare che lo stato d’ansia aumenti con l’ulteriore protrarsi del procedimento e che debba quindi riconoscersi al riguardo un importo maggiore.
Non può trovare accoglimento invece la richiesta di riconoscimento di un “bonus” di Euro 2.000,00 in relazione alla natura della controversia vertente in materia di lavoro, non essendo previsto dalla legislazione nazionale e non potendo comunque considerarsi un effetto automatico, slegato dalla particolarità della fattispecie sulla quale nulla è stato però detto al di là di un generico richiamo al carattere della controversia.
L’accoglimento, sia pure parziale, del ricorso comporta, con la cassazione dell’impugnato decreto, la necessità di una riliquidazione delle spese del giudizio di merito, spese che si distraggono a favore del difensore antistatario e che si liquidano per intero per quanto riguarda il giudizio di merito e nella misura di metà relativamente al giudizio di legittimità.
Nulla va disposto infine in ordine agli interessi in quanto l’esclusione al riguardo da parte della Corte d’Appello, che ha liquidato “all’attualità”, non risulta censurata, come sarebbe stato necessario in presenza di un debito di valuta.
L’impugnato decreto deve essere pertanto cassato in relazione alle censure accolte.
PQM
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il ricorso nei limiti di cui in motivazione. Cassa il decreto impugnato in relazione alle censure accolte e, decidendo nel merito, condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento della somma di Euro 6.250,00. Condanna inoltre la Presidenza del Consiglio al pagamento delle spese processuali che distrae a favore del difensore e che liquida per l’intero, quanto al giudizio di merito, in Euro 600,00 per diritti, in Euro 490,00 per onorario ed in Euro 50,00 per spese oltre accessori di legge e nella misura del 50% quanto al giudizio di legittimità, che liquida in Euro 450,00 per onorario ed in Euro 50,00 per spese oltre alle spese generali ed agli accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 17 novembre 2009.
Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2010