Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6597 del 09/03/2020

Cassazione civile sez. I, 09/03/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 09/03/2020), n.6597

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 36730/2018 proposto da:

M.S., rappresentato e difeso dall’avvocato Massimo

Gilardoni, elettivamente domiciliato presso il suo studio in

Brescia, via Vittorio Emanuele II n. 109;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’interno;

– intimato –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il

4/6/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

15/01/2020 dal Cons. Dott. FEDERICO GUIDO.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

La corte d’appello di Brescia, con la sentenza n. 954/18, pubblicata il 4 giugno 2018, confermando l’ordinanza di primo grado, ha rigettato la domanda proposta da M.S., cittadino proveniente dal (OMISSIS), il quale aveva riferito di essersi iscritto al partito (OMISSIS) dedicandosi all’attivismo politico, assumendo la carica di Presidente del circolo locale di un quartiere; successivamente, quando nel 2009 era andato al governo l’ A.L. il richiedente aveva perso il posto di lavoro ed aveva subito la persecuzione degli avversari politici, rimanendo vittima di atti violenza e di estorsione; avendo denunciato i fatti alla polizia, la stessa non solo non lo aveva protetto ma anzi lo aveva sottoposto a perquisizione ed imprigionato per ben due volte. La Corte territoriale ha escluso la credibilità del racconto del richiedente ed ha, conseguentemente, escluso la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale.

Il giudice di appello ha del pari escluso il pericolo di un danno grave alla persona in relazione alle ipotesi di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), nonchè la sussistenza, nell’area di provenienza del richiedente, di una situazione di violenza generalizzata, come richiesto dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ed ha inoltre respinto la richiesta di protezione umanitaria, rilevando la mancanza di una specifica situazione di vulnerabilità del richiedente.

Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, con un unico motivo, il richiedente asilo.

Il Ministero dell’Interno non ha svolto attività difensiva.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Conviene premettere la tempestività del ricorso, posto che in tema di riconoscimento della protezione internazionale, la disciplina introdotta con il D.L. n. 13 del 2017, conv. con modif. dalla L. n. 46 del 2017, si applica, ai sensi dell’art. 21, comma 1, del citato Decreto, alle controversie instaurate successivamente al 18.8.2017; di conseguenza, per la proposizione del ricorso per cassazione avverso le controversie instaurate anteriormente a quella data si applica la precedente disciplina, anche riguardo al termine semestrale ed alla sospensione dei termini durante il periodo feriale (Cass. 18295/18).

Ciò posto, con l’unico motivo di ricorso il richiedente denuncia violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria, censurando in particolare la mancata considerazione della rilevanza giuridica, ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, della condizione di estrema povertà del richiedente nel suo paese di origine, tale da compromettere in modo radicale il raggiungimento degli standards minimi per un’esistenza dignitosa.

Il motivo è inammissibile per genericità.

Il riconoscimento della protezione umanitaria presuppone l’allegazione, in capo al ricorrente, di una ben determinata situazione di “vulnerabilità”, che va specificamente delineata nei suoi elementi costitutivi, onde consentire di effettuare una effettiva valutazione comparativa della situazione del richiedente con riferimento al paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione di integrazione raggiunta nel paese di accoglienza (Cass. 4455/2018).

Nel caso di specie, il richiedente si limita a richiamare, genericamente, la situazione di estrema povertà esistente in Bangladesh, ma non deduce alcuna specifica situazione di vulnerabilità, nè allega la sua concreta integrazione nel nostro paese, al fine di effettuare la necessaria valutazione comparativa.

Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il contesto generale compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza, in assenza di giudizio comparativo con il livello di integrazione dello straniero in Italia, non integra di per sè, i seri motivi di carattere umanitario o derivanti da obblighi internazionali o costituzionali, cui la legge subordina il riconoscimento del diritto alla protezione in oggetto: il diritto al rispetto della vita privata – tutelato dall’art. 8 CEDU, al pari del diritto al rispetto della vita familiare – può soffrire ingerenze legittime da parte dei pubblici poteri per il perseguimento di interessi statuali contrapposti, quali, tra gli altri, l’applicazione e rispetto delle leggi in materia di immigrazione, particolarmente laddove, come nel caso di specie, lo straniero non goda di uno stabile titolo di soggiorno nello stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che venga definita la sua domanda di determinazione dello status di protezione internazionale.

Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile e, considerato che il Ministero dell’interno non ha svolto difese, non deve provvedersi sulle spese del presente giudizio.

Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020

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