Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6583 del 10/03/2021

Cassazione civile sez. III, 10/03/2021, (ud. 14/10/2020, dep. 10/03/2021), n.6583

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5256/2019 proposto da:

COMTEX AG, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CIRCONVALLAZIONE

CLODIA, 88, presso lo studio dell’avvocato RICCARDO DI LORENZO,

rappresentato e difeso dagli avvocati ENZO BRIZZA, ERMANNO FERRARO;

– ricorrenti –

contro

N.E., B.L., N.G., elettivamente domiciliati

in ROMA, VIA CIVININI 85, presso lo studio dell’avvocato LUISA

FARAONE MENNELLA, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3456/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 12/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

14/10/2020 dal Consigliere Dott. GABRIELE POSITANO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

con atto di citazione del 23 febbraio 2006, la società Comtex evocava in giudizio, davanti al Tribunale di Nola, N.E., B.L. e N.G. esponendo che, con contratto del 30 giugno 1993 concluso con la S.r.l. Setex l’attrice si era impegnata ad acquistare merce, per conto della Setex da produttori cinesi, anticipandone il pagamento e occupandosi del trasferimento della merce in Italia. Aggiungeva che la Setex non avrebbe corrisposto all’attrice le somme anticipate pari a 2.354.206 dollari americani e che, a fronte delle richieste di pagamento, il socio unico ed amministratore della Setex, N.E. aveva manipolato le voci del bilancio della sua società riferite al 1996, non facendo risultare il debito nei confronti della società attrice nella sua originaria consistenza (che precedentemente era annotato come pari a Lire 2.812.483.886, oltre a quello riferito ad “altri debiti”, pari all’importo di Lire 958.105.000), ma in quella inferiore, di Lire 84.974.900. Lamentava che N.E. aveva disconosciuto la sottoscrizione apposta in calce al contratto stipulato con l’attrice. Aggiungeva che, con sentenza del Tribunale di Nola del 20 maggio 2003, n. 994, passata in giudicato, era stata rigettata la domanda di accertamento negativo del credito proposta da Setex, mentre era stata accolta quella riconvenzionale, accertando un credito di Comtex pari a dollari 2.354.206. L’attrice aggiungeva che B.L. e N.G., quest’ultimo gestore di fatto della società Setex, avevano costituito una nuova società, la S.a.s. Italtex in data 19 novembre 1997, nella quale avevano fatto confluire le merci acquistate da Comtex e non pagate. Tali condotte erano state denunziate all’autorità penale e il procedimento si era concluso con sentenza del Tribunale penale di Nola dell’11 gennaio 2006 con la quale era stata affermata la responsabilità penale dei convenuti, dichiarando prescritto il reato di falso in bilancio, ai sensi dell’art. 2622 c.c. e art. 646 c.p.c.. Tutto ciò premesso, la società Comtex chiedeva il risarcimento dei danni da reato nei confronti di N.E. e G. e B.L. quantificati in Euro 5 milioni, oltre rivalutazione e interessi;

il Tribunale di Nola, con sentenza del 20 gennaio 2014, rigettava la domanda;

avverso tale decisione proponeva appello la società Comtex e si costituivano gli originari convenuti chiedendo il rigetto della impugnazione;

la Corte d’Appello di Napoli, con sentenza del 12 luglio 2018 rigettava l’impugnazione, compensando le spese di lite;

avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Comtex AG affidandosi a tre motivi. Resistono con controricorso, N.E. e G. e B.L.. Le parti depositano memorie sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si lamenta la violazione degli artt. 99,100,102,342,343,345 e 346 c.p.c., dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 24 Cost. e l’omesso esame di un fatto decisivo, in relazione all’art. 360, nn. 3, 4 e 5. L’eccezione di prescrizione della domanda risarcitoria era stata sollevata dai convenuti N. – B. e rigettata dal Tribunale e, in grado di appello, non era stato proposto appello incidentale e neppure l’eccezione era stata riproposta ai sensi dell’art. 346 c.p.c., come risulterebbe dalle conclusioni della comparsa di costituzione in appello;

il motivo è fondato. A pagina 4 della sentenza impugnata si legge che davanti al giudice di prime cure l’eccezione di prescrizione dell’azione civile era stata dedotta e rigettata dal Tribunale, “ma riproposta espressamente nel presente grado del giudizio, ex art. 346 c.p.c.”. La società ricorrente trascrive le conclusioni dell’atto di appello di controparte (pagina 8 del ricorso) e, in quelle conclusioni, compare un generico riferimento alla questione della prescrizione, perchè al punto b) l’avversa domanda viene definita “prescritta al pari di ogni diritto”;

orbene, a prescindere dalla idoneità di una siffatta deduzione a costituire riproposizione dell’eccezione di prescrizione, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale, gli appellati N. – B. avrebbero dovuto proporre appello incidentale avverso la statuizione del Tribunale di rigetto della eccezione di prescrizione. Conseguentemente, la Corte d’appello, non avrebbe potuto giudicare sulla eventuale prescrizione del diritto al risarcimento del danno, ma e, pertanto, esaminare nel merito il primo e il secondo motivo di appello;

trova, infatti, applicazione il principio affermato da Cass. Sez. U. n. 11799 del 12/05/2017 (Rv. 644305-01) secondo cui, in caso di rigetto esplicito o implicito inequivoco di una eccezione o di un motivo, il convenuto vittorioso è tenuto a proporre appello incidentale, mentre, nel caso di eccezione ignorata, direttamente o implicitamente, per il convenuto vittorioso è sufficiente la riproposizione esplicita ai sensi dell’art. 346 c.p.c., con la precisazione che se non c’è riproposizione della questione ignorata non è sufficiente la mera formulazione della eccezione in appello. Tale regola, subisce una deroga (consentendo anche la formulazione della mera eccezione, senza la riproposizione) nell’ipotesi di eccezione rilevabile d’ufficio con il 345 c.p.c., comma 2;

Infatti, in tema di impugnazioni, qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso un’enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345 c.p.c., comma 2 (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2), nè sufficiente la mera riproposizione;

la mancanza di detta riproposizione nel caso di omesso esame della eccezione rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di sua rilevazione è riservato solo alla parte;

se, invece, si tratta di eccezione rilevabile d’ufficio, l’art. 345 c.p.c., comma 2, consente al giudice di valutare d’ufficio la questione;

nel caso di specie, ricorre certamente la prima ipotesi, trattandosi di eccezione non rilevabile d’ufficio (prescrizione) espressamente rigettata dal Tribunale, che quindi richiedeva un appello incidentale;

la decisione, pertanto, va cassata e il giudice del rinvio dovrà esaminare il contenuto del primo del secondo motivo di appello;

come dedotto dalla ricorrente, con il primo motivo di appello era stata contestata la decisione del Tribunale per avere esaminato il fatto illecito, costituito dal falso del 30 aprile 1997 riferito al bilancio della società Setex sulla base del nuovo testo dell’art. 2621 c.c., in luogo della previgente fattispecie del falso in bilancio. Con il secondo motivo, era stato dedotto che, anche il nuovo testo dell’art. 2621 c.c., avrebbe consentito di configurare il reato, in quanto N.E. non avrebbe versato alla società l’importo relativo alla merce acquistata, nè pagato i produttori cinesi, commettendo – secondo la parte appellante – il delitto di falso, consistito nell’annullamento delle voci di bilancio relative al debito verso fornitori e verso altri. Infine, era stata anche contestata la qualificazione di falso qualitativo ritenuta dal Tribunale, mentre la condotta dei convenuti sarebbe stata unica, perchè il falso in bilancio sarebbe stato lo strumento con il quale i convenuti avevano sottratto le merci acquistate dalla Comtex. In sostanza, l’illecito dei tre soci costituiva la condizione per evitare il pagamento del credito;

tali questioni non sono state esaminate dalla Corte territoriale che, invece, ha preliminarmente preso in considerazione il tema della prescrizione del diritto di credito sollevato dalla difesa degli appellati, rilevando che il termine di cinque anni era già decorso, tra la data di consumazione del reato, da riferire al momento in cui era stata tenuta l’assemblea (30 aprile 1997) e quella di costituzione di parte civile (4 luglio 2002);

con il secondo motivo si lamenta la violazione degli artt. 99,100,115 e 116 c.p.c., nonchè degli artt. 2945,2947,2909,2043,2621,2622 c.c. e art. 11 preleggi, nonchè degli artt. 15 e 157 c.p.c. e del D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61 e l’omesso esame fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360, nn. 3 e 5. Al momento di commissione del fatto reato di false comunicazioni sociali, riferito alla data del 30 aprile 1997, di approvazione del bilancio dell’anno sociale 1996, il termine di prescrizione era di 10 anni ai sensi dell’art. 157 c.p.c., trattandosi di reato punito con la pena di cinque anni.

Conseguentemente ai sensi dell’art. 2947 c.c., comma 3, il termine di prescrizione dell’azione civile era di 10 anni. Ciò in quanto, agli effetti civilistici non opera il principio di retroattività della norma più favorevole (che ha modificato l’art. 2622 c.c.). La questione relativa all’applicazione del termine di prescrizione del reato di false comunicazioni sociali nella formulazione vigente all’epoca dei fatti non sarebbe stata presa in esame dalla Corte territoriale. In ogni caso, anche applicando il termine riferito al novellato art. 2622 c.c., il giudice avrebbe dovuto fare riferimento a quello di sette anni e mezzo fissato dal collegio in applicazione del principio del “favor rei”;

atteso l’accoglimento del primo motivo, la seconda censura è assorbita;

con il terzo motivo si lamenta la violazione degli artt. 99,100,112,115,116,132,163,183 e 242 c.p.c., oltre che dell’art. 646 c.p.c. e degli artt. 1225, 832, 1362, 2043, 2786 e 1996 c.c., nonchè dell’art. 467 c.n. e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, oltre all’omesso esame di un fatto decisivo, con riferimento all’art. 360, nn. 3, 4 e 5. Nell’esaminare il terzo e quarto motivo di appello, la Corte territoriale avrebbe affermato l’inammissibilità della censura per novità della questione, in quanto il Tribunale, per valutare differentemente la domanda su una diversa qualificazione dei fatti, avrebbe dovuto esaminare gli elementi costitutivi dei reati che, per l’appropriazione indebita, la truffa ed il falso in bilancio, certamente sono diversi tra loro. Parte appellante, secondo la Corte territoriale, avrebbe dovuto dimostrare di avere precisato quelle circostanze fattuali già con l’atto di citazione;

la Corte avrebbe errato nel ritenere nuovi i fatti dei quali si chiede una diversa valutazione, quando, invece, quelle indicate in citazione sarebbero state le medesime condotte che avevano dato luogo all’originaria contestazione di truffa, ai sensi dell’art. 640 c.p. e di falso in bilancio, ai sensi dell’art. 2621 c.c., che ben avrebbero consentito una diversa valutazione delle condotte penali in termini di appropriazione indebita. Per fare ciò il giudice civile di primo grado avrebbe potuto utilizzare le prove raccolte nel giudizio penale, eventualmente valutando diversamente il contenuto della denunzia querela;

il motivo è inammissibile perchè non è specifico e non coglie la ratio decidendi. La Corte d’appello ha affermato che le condotte penalmente rilevanti relative ai reati di falso in bilancio e truffa sono differenti rispetto agli elementi costitutivi del reato di appropriazione indebita, ai sensi dell’art. 646 c.p.c. e che l’odierna ricorrente, in sede di appello, non aveva dimostrato di avere “precisato quali circostanze fattuali (da indicare nella citazione di primo grado) avrebbero giustificato l’inquadramento della domanda sotto un reato diverso da quello della truffa” (pagina 7-8 della sentenza impugnata). Pertanto, la ricorrente avrebbe dovuto, nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6, trascrivere il contenuto dell’atto di citazione al fine di dimostrare di avere allegato i medesimi elementi fattuali costituenti i presupposti del reato di appropriazione indebita, così provando di avere sottoposto al giudice di primo grado quella differente qualificazione dei fatti penalmente rilevanti;

sotto tale profilo è inconferente il riferimento alla possibilità per il giudice civile di utilizzare le prove atipiche raccolte nel giudizio penale, poichè tale principio non consente di superare il rilievo preliminare posto a sostegno della decisione di appello;

con la seconda parte del terzo motivo (pagina 26 del ricorso), si contesta, altresì, l’interpretazione del contratto di confirming house concluso tra le parti in quanto la Corte d’Appello non avrebbe tenuto in considerazione i motivi di impugnazione, ma avrebbe aderito in maniera acritica alla tesi del Tribunale. Al contrario, le parti avevano costituito in favore della banca Unione di Credito di Zurigo un pegno documentale sulle merci acquistate e avevano previsto la possibilità, per Setex, di ottenere un finanziamento temporaneo, in cui la garanzia era costituita dalle merci “viaggianti”. La complessità del contratto non consentiva il suo inquadramento nello schema negoziale del mandato senza rappresentanza, ma conteneva certamente elementi propri del finanziamento, con l’utilizzazione dell’anticipazione bancaria concessa dall’istituto di credito di Zurigo. In tale meccanismo la restituzione del finanziamento era garantita dal pegno documentale esistente sulle merci oggetto delle importazioni, che si concretizzavano nella polizza di carico e nelle fatture accompagnatorie. Pertanto, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’appello, il soggetto legittimato ad esercitare il diritto sulle merci, non sarebbe l’istituto di credito, ma la società ricorrente e ciò indipendentemente dalla collocazione fisica della merce, in quanto i profili rilevanti avrebbero dovuto essere rinvenuti nella polizza di carico e nel pegno documentale iscritto sulla medesima polizza;

la seconda parte del motivo consiste in una censura all’interpretazione del contratto concluso tra le parti, ma dedotto senza menzionare alcuno dei criteri ermeneutici e per tale motivo è inammissibile;

costituisce, infatti, principio consolidato quello secondo cui l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di emeneutica contrattuale, di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., o di motivazione inadeguata, ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell'”iter” logico seguito per giungere alla decisione. Pertanto, onde far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti, ma occorre, altresì, precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato, con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa;

nel caso di specie, al contrario, la ricorrente si limita a richiamare nella rubrica le norme in tema di interpretazione del contratto, ma, in concreto, non individua alcuna violazione di tali specifiche disposizioni e non contesta le argomentazioni della Corte territoriale, limitandosi a prospettare una ricostruzione alternativa e più favorevole inserendo, peraltro, una serie di elementi fattuali dedotti in violazione dell’art. 366 c.c., n. 6 (il contenuto della polizza di carico, il testo delle fatture accompagnatori e delle merci ecc);

ne consegue che il primo motivo deve essere accolto, il secondo motivo è assorbito ed il terzo è inammissibile; la sentenza va cassata con rinvio, atteso che, in forza della decisione preliminare con la quale è stato dichiarato prescritto il diritto, non erano stati esaminati il primo e il secondo motivo di appello, dei quali dovrà evidentemente occuparsi il giudice di rinvio.

PQM

La Corte accoglie il primo motivo, assorbito il secondo ed inammissibile il terzo;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese del presente giudizio di legittimità, alla Corte d’Appello di Napoli, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione della Corte Suprema di Cassazione, il 14 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2021

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