Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6570 del 14/03/2017


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Cassazione civile, sez. II, 14/03/2017, (ud. 10/11/2016, dep.14/03/2017),  n. 6570

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24873-2013 proposto da:

C.S., (OMISSIS), C.C. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE B BUOZZI 99, presso lo

studio dell’avvocato ANTONIO D’ALESSIO, rappresentati e difesi

dall’avvocato MARIO FIACCAVENTO;

– ricorrente –

M.B., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

TRIONFALE 5697, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO ASCANIO,

rappresentato e difeso dall’avvocato EDOARDO LAMICELA;

– controricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1214/2012 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 24/07/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10/11/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

udito l’Avvocato FIACCAVENTO Mario, difensore dei ricorrenti che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso principale e il rigetto del

ricorso incidentale;

udito l’Avvocato LAMICELA Edoardo, difensore del resistente che ha

depositato n. 2 avvisi di ricevimento e si è riportato alle difese

già in atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso

principale e del ricorso incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Siracusa, con sentenza del 25/5/2005, accolta la domanda riconvenzionale di M.B. e rigettata quella principale proposta da C.S. e C.C., dichiarò risolto per colpa dei C. il contratto preliminare del (OMISSIS), con il quale quest’ultimi si erano obbligati a vendere al M. una villa e accessori, sita in (OMISSIS), per il prezzo di un miliardo e duecento milioni di Lire, di cui il promissario acquirente aveva versato in due soluzioni la complessiva somma di quattrocento milioni di lire, a titolo di caparra.

Con sentenza depositata il 24/7/2012 la Corte di appello etnea, rigettato l’appello avanzato dai C., nonchè “la domanda di recesso e di condanna alla restituzione del doppio della caparra avanzata in primo grado in via riconvenzionale” dal M., dichiarò “risolto il contratto preliminare, ed i relativi patti aggiuntivi, per impossibilità di esecuzione del contratto quale effetto della reciproca volontà delle parti di non eseguire gli accordi”, condannando, infine, i C. a restituire la caparra e non il doppio d’essa, siccome statuito in primo grado.

L’intrigo della vicenda richiede riprenderne in questa sede i tratti salienti.

Si trae dagli atti qui compulsabili che nel prezzo d’acquisto era compresa l’opera di manutenzione ordinaria e straordinaria concordata sulla base di capitolati speciali allegati alla convenzione e ad una successiva scrittura aggiuntiva, al fine di consentire al promissario acquirente di far redigere ad un tecnico di sua fiducia una variante all’originario progetto a firma dell’Ing. S.. Nel corso dell’esecuzione erano incorsi contrasti, in quanto i promittenti alienanti avevano contestato che il M. e sua moglie continuavano a richiedere l’effettuazione d’interventi non concordati. Di talchè, dopo l’accertamento tecnico preventivo chiesto dal M., si era accesa la lite giudiziaria.

La Corte territoriale, constata la definitività della statuizione del primo giudice, in ordine all’inadempimento del M., per non aver voluto far redigere il concordato progetto di variante, in quanto non fatta oggetto di censura impugnatoria, accogliendo la prospettazione degli appellanti C., esclude che l’inadempimento addebitato a costoro fosse a loro effettivamente imputabile a titolo di colpa.

La Corte catanese trae questo suo convincimento dalla lettura di una sentenza penale definitiva, attraverso la quale era stato possibile apprendere che un funzionario infedele, dipendente dell’Ufficio competente del comune di (OMISSIS), al fine di favorire tale B. (la moglie del M.), a lui legata sentimentalmente, all’insaputa del marito di costei, aveva frapposto rilevanti difficoltà alla conclusione favorevole delle pratiche burocratiche, così da poter far trarre vantaggio alla donna, in danno dei C.. Di conseguenza, del fatto illecito del terzo non poteva essere chiamato a rispondere la parte promittente alienante, rimasta nell’impossibilità di consegnare la documentazione attestante la regolarità urbanistica del bene (eccezion fatta per due tettoie frangisole, non assentibili dal Comune). Fornita quindi la prova liberatoria di cui all’art. 1218 c.c., era da attribuire all’illecita opera del terzo la impossibilità della prestazione fino all’estate del 1997. Successivamente era venuto meno da entrambe le parti l’interesse ad eseguire il contratto. Peraltro l’inadempimento addebitabile a colpa dei promittenti alienanti (le due tettoie non sanabili) non poteva considerarsi che di modesta rilevanza.

Da qui la conclusione che “la risoluzione va sì pronunciata, ma non per inadempimento dell’una o dell’altra parte ma per impossibilità dell’esecuzione del contratto”. Nè erano di ostacolo, sul piano sostanziale, la mancanza di forma scritta del dissenso, potendo lo stesso ricavarsi dalle reciproche dichiarazioni rilasciate negli atti giudiziari; sul piano processuale, la declaratoria d’ufficio, stante che la “risoluzione consensuale” non costituiva “materia di eccezione in senso proprio”, rappresentando, a parere della Corte di merito, “un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, che, se ed in quanto rilevante ai fini del decidere, può essere accertato di ufficio dal giudice”.

Avverso la decisione d’appello C.C. e C.S. propongono ricorso per cassazione, resistito, con controricorso, da M.B., il quale, mediante l’atto indicato proppone, altresì, ricorso incidentale.

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono violazione degli artt. 1385, 1454, 1457 e 1453 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonchè violazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

La pronuncia d’ufficio dello scioglimento del contratto per impossibilità di esecuzione dello stesso a causa della reciproca volontà delle parti di non darvi esecuzione, pur sostenuta da un minoritario e più risalente indirizzo di legittimità, risultava sconfessato dalla più recente e prevalente giurisprudenza di legittimità. In presenza di opposte domande di risoluzione per colpa deve considerarsi, ricordano i ricorrenti che “la valutazione della colpa nell’inadempimento ha carattere unitario e lo stesso deve essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento colpevole prevalente abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto, dando causa al giustificato inadempimento dell’altra parte”.

Il motivo, sul punto, è fondato.

In epoca non prossima le S.U. di questa Corte affermarono che il giudice, adito con contrapposte domande di risoluzione per inadempimento del medesimo contratto, può accogliere l’una e rigettare l’altra, ma non anche respingere entrambe e dichiarare l’intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti (S.U., n. 329 del 15/1/1983, Rv. 425132).

Successivamente, in plurime occasioni, le sezioni semplici di questa Corte, sia pure non sempre confrontandosi con la pronuncia sopra riportata, assunsero posizione con essa non compatibile, sostenendo che in presenza di reciproche azioni di risoluzione del contratto, fondate da ciascuna parte sull’inadempimento dell’altra, il giudice che accerti l’infondatezza di tali scambievoli addebiti e non possa, pertanto, pronunciare la risoluzione per colpa di una delle parti, deve dare atto dell’impossibilità di esecuzione del contratto per effetto della manifestazione di volontà di entrambe le parti di non eseguirlo e prevedere di conseguenza sulle domande restitutorie da esse proposte (Sez. 2, n. 4089 del 4/4/2000, Rv. 535304; Sez. 2, n. 15167 del 24/11/2000, Rv. 542112; Sez. 2, n. 2304 del 16/2/2001, Rv. 543909; Sez. 3, n. 10389 del 18/5/2005, Rv. 581871).

Non sono, poi, mancate quelle pronunce mostratesi particolarmente attente alla ponderazione da parte del giudice del merito dei reciproci inadempimenti, per stabilire quale delle parti, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile della trasgressione maggiormente rilevante e causa del comportamento della controparte, nonchè della conseguente alterazione del sinallagma (cfr., Sez. L., n. 8621 del 23/6/2001, Rv. 547691; Sez. L. n. 5444 del 15/4/2002, Rv. 553753; Sez. L., n. 5444 del 15/4/2002, Rv. 553753; Sez. L., n. 16530 del 4/11/2003, Rv. 567878; Sez. 3, n. 16822 del 10/11/2003, Rv. 567989; Sez. 3, n. 10477 dell’1/6/2004, Rv. 573294; Sez. 2, n. 20678 del 26/10/2005, Rv. 585521; Sez. 3, n. 23908 del 9/11/2006, Rv. 592622; Sez. 2, n. 11784 del 7/9/2000, Rv. 540026).

Si è successivamente giunti a riaffermare il principio enunciato nella sentenza n. 329/1983. Emblematica la sentenza n. 2984 del 16/2/2016 (Rv. 638555), la quale ha chiarito che “Il giudice, adito con contrapposte domande di risoluzione per inadempimento del medesimo contratto, può accogliere l’una e rigettare l’altra, ma non anche respingere entrambe e dichiarare l’intervenuta risoluzione consensuale del rapporto, implicando ciò una violazione del principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, mediante una regolamentazione del rapporto stesso difforme da quella perseguita dalle parti”. Ma già prima si era espressa nello stesso senso la sentenza n. 4493 del 25/2/2014, Rv. 629762, della Sezione 2.

Questo Collegio è dell’opinione che solo seguendo questo secondo orientamento non resti violato il principio della domanda, stante che la cd. risoluzione consensuale del rapporto, cioè, per meglio dire, lo scioglimento per mutuo dissenso, viola il principio della domanda, che impone al giudice di decidere entro e non oltre i limiti della stessa, in quanto mai chiesta dalle parti.

Appare utile ulteriormente solo soggiungere, onde sgombrare il campo da equivoci che potrebbero sorgere da una lettura affrettata dei precedenti giudiziali, che in presenza di reciproche domande di risoluzione per inadempimento non viene comunque attenuato il regime dettato dall’art. 1455 c.c., per cui il contratto non si può risolvere se l’inadempimento “ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra” parte. Con la domanda reciproca le parti non danno vita ad una sorta di “sfida processuale all’ultimo sangue” (se il tuo inadempimento è reputato più grave del mio il contratto deve essere risolto ai tuoi danni), ma, in conformità della disposizione codicistica evocata, sottopongono al giudice l’altrui inadempimento assumendone la non scarsa importanza, con la conseguenza che laddove il decidente non rinvenga per alcuno dei due contendenti il grave inadempimento, senza che rilevi se uno d’essi abbia peso più o meno grave dell’altro (purchè nei limiti della scarsa importanza), deve limitarsi a rigettare entrambe le domande risolutorie.

Con un secondo profilo di censura del medesimo motivo i C. contestano l’adozione della decisione quale “terza opinione” assunta a sorpresa dal giudice, obliterando il principio del contraddittorio e quello di leale collaborazione tra il giudice e le parti.

L’accoglimento della prospettazione di cui alla prima parte del presente motivo assorbe la doglianza esposta con il secondo punto e di cui immediatamente sopra.

Con il secondo motivo viene denunziato vizi motivazionale su un punto decisivo e controverso.

Illogicamente e contraddittoriamente la Corte etnea aveva giudicato equivalente l’inadempimento transitorio addebitato ai C., provatamente a costoro non imputabile, a quello del M., il quale aveva definitivamente impedito l’esecuzione del contratto, omettendo di presentare la variante a firma del di lui tecnico di fiducia e che non si era presentato nello studio del notaio per stipulare il “definitivo”. Nè significativa rilevanza poteva rivestire la pretesa non sanabilità edilizia delle due tettoie, che la stessa Corte di merito aveva qualificato di “modesta rilevanza”; pretesa, peraltro smentita dal giudice amministrativo.

Infine, soggiungono i ricorrenti, poichè alle trattative erano stati presenti entrambi i coniugi M. ed entrambi erano attivamente interessati al risultato economico finale, era da dubitarsi che le manovre dolosamente ostruzionistiche fossero state messe in opera nel solo interesse della moglie.

Il motivo che precede non merita accoglimento.

Non può farsi a meno di evidenziare che, come spesso accade, con il ricorso si propone l’approvazione di una linea interpretativa dei fatti di causa alternativa rispetto a quella fatta propria dal giudice, così sperdendosi del tutto il senso del sindacato di legittimità.

Come reiteratamente affermato in questa sede, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 prima dell’ulteriore modifica di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile “ratione temporis”), il quale implica che la motivazione della “quaestio facti” sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che si presentasse tale da determinarne la logica insostenibilità (cfr., Sez. 3, n. 17037 del 20/8/2015, Rv. 636317). Con l’ulteriore corollario che il controllo di legittimità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Con la conseguenza che risulta del tutto estranea all’ambito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. Sez. 6, ord. n. 5024 del 28/3/2012, Rv. 622001). Da qui la necessità che il ricorrente specifichi il contenuto di ciascuna delle risultanze probatorie (mediante la loro sintetica, ma esauriente esposizione e, all’occorrenza integrale trascrizione nel ricorso) evidenziando, in relazione a tale contenuto, il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito e la diversa soluzione cui, in difetto di esso, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa (cfr. Sez. 5, n. 1170 del 23/1/2004, Rv. 569607).

Da qui appare evidente che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, si configura nella ipotesi di carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo. Parimenti, il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico – giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere intrinseco alla sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. 2, n. 3615 del 13/04/1999, Rv. 525271). Con l’ulteriore implicazione che il vizio di contraddittorietà della motivazione, deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, non può essere riferito a parametri valutativi esterni, quale il contenuto della consulenza tecnica d’ufficio Sez. 1, n. 1605 del 14/02/2000, Rv. 533802). Peraltro, osservandosi che il vizio di insufficiente motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, resta integrato solo ove consti la carenza di elementi, nello sviluppo logico del provvedimento, idonei a consentire la identificazione del criterio posto a base della decisione, ma non anche quando vi sia difformità tra il significato ed il valore attribuito dal giudice di merito agli elementi delibati, e le attese e deduzioni della parte al riguardo; mentre il vizio di contraddittoria motivazione, che ricorre in caso di insanabile contrasto tra le argomentazioni logico – giuridiche addotte a sostegno della decisione, tale da rendere incomprensibile la “ratio decidendi”, deve essere proprio della sentenza, e non risultare dalla diversa prospettazione addotta dal ricorrente (Sez. L., n. 8629 del 24/06/2000, Rv. 538004; Sez. 1, n. 2830 del 27/02/2001, Rv. 544226).

Si è condivisamente ulteriormente precisato, così da scolpire nitidamente l’ambito di legittimità, che il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Sez. L, n. 2272 del 02/02/2007,Rv. 594690). Proprio per ciò non è ammesso perseguire con il motivo di ricorso un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, finalità sicuramente estranea alla natura e allo scopo del giudizio di cassazione. Infatti, il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., fra le tante, Sez. L., n. 9233 del 20/4/2006, Rv. 588486 e n. 15355 del 9/8/2004, Rv. 575318).

La spiegazione alternativa proposta con il ricorso, fronteggiante una insanabile contraddittorietà della motivazione, deve essere tale da apparire l’unica plausibile e la deduzione di un vizio di motivazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì il solo potere di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne deriva, pertanto, che alla cassazione della sentenza, per vizi della motivazione, si può giungere solo quando tale vizio emerga dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, che si rilevi incompleto, incoerente o illogico, e non già quando il giudice del merito abbia semplicemente attribuito agli elementi valutati un valore ed un significato difformi dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (cfr., fra le tante, Sez. 3, n. 20322 del 20/10/2005, Rv. 584541; Sez. L., n. 15489 dell’11/7/2007, Rv. 598729). Lo scrutinio di merito resta, in definitiva, incensurabile, salvo l’opzione al di fuori del senso comune (Sez. L., n. 3547 del 15/4/1994, Rv. 486201); la stessa omissione non può che concernere snodi essenziali del percorso argomentativo adottato (cfr., Sez. 2, n. 7476 del 4/6/2001, Rv. 547190; Sez. 1, n. 2067 del 25/2/1998, Rv. 513033; Sez. 5, n. 9133 del 676/2012, Rv. 622945, Sez. U., n. 13045 del 27/12/1997, Rv. 511208).

Nel caso qui in esame è ben evidente che la Corte catanese ha linearmente e senza mostrare cadute logiche di sorta ricostruito i fatti e ragionatamente escluso la gravità dell’inadempimento reciprocamente addotto. Ad una tale compiuta e persuasiva motivazione i ricorrenti contrappongono la loro versione dei fatti, evocando episodi e circostanze dei questa Corte non può conoscere, in definitiva proponendo una loro suggestiva e non autosufficiente ricostruzione alternativa, che non può trovare qui accoglimento.

Con il terzo ed ultimo motivo viene denunziata la violazione degli artt. 1458 e 2033, 99 e 112 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.p., n. 3in quanto, in assenza di domanda, la Corte territoriale aveva condannato i C. a restituire la caparra, ignorando le indicazioni di legittimità, univocamente dirette a chiarire che una tale domanda di restituzione è necessaria, trovando il suo fondamento nelle norme regolanti la ripetizione dell’indebito.

Quest’ultimo motivo, accolto il primo per quanto di ragione, resta assorbito.

Con il ricorso incidentale il M. sviluppa unitaria, articolata censura, con la quale denunzia la violazione degli artt. 1218, 1453, 1455 e 1460 c.c..

In sintesi, questa la prospettazione impugnatoria: era rimasto documentalmente provato che la controparte, in violazione del termine essenziale concordato, non era stata in grado di provvedere alla sanatoria delle irregolarità urbanistiche dalle quali erano affette le pertinenze dell’edificio, tanto che il certificato di abitabilità non risultava essere stato mai rilasciato; la presenza delle due grandi tettoie esterne non sanabili avrebbero comunque impedito ai promittenti alienanti di stipulare l’atto definitivo; inoltre, mancando la prova che la B. avesse operato con il marito (il M.), unico firmatario del contratto, non era addebitabile a quest’ultimo la condotta della prima; infine, la ritenuta illecita interferenza di fatto era rimasta ininfluente e la Corte locale, comparando gli inadempimenti reciproci, avrebbe dovuto ritenere largamente prevalente quello dei C..

Trattasi di doglianza, speculare al secondo motivo del ricorso principale, infondata per le medesime ragioni esposte in quella sede, poichè, a parti invertite, è qui il M. a chiedere il suggello di una ricostruzione fattuale alternativa.

La decisione impone la cassazione della sentenza impugnata nei limiti dell’accoglimento del ricorso principale e il rinvio degli atti, anche per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

Accoglie, per quanto di ragione, il primo motivo, che dichiara nel resto assorbito; rigetta il secondo; dichiara assorbito il terzo; rigetta il ricorso incidentale; cassa e rinvia alla Corte d’appello di Catania, altra sezione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2017

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