Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6558 del 22/03/2011

Cassazione civile sez. III, 22/03/2011, (ud. 16/02/2011, dep. 22/03/2011), n.6558

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente –

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere –

Dott. SPIRITO Angelo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.F. (OMISSIS), B.G.B.

(OMISSIS), C.A. (OMISSIS), L.

G. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA

FEDERICO CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato MANZI LUIGI,

che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati GLENDI CESARE,

GLENDI GABELLA giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

CA.GI. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato IASIELLO PAOLO

giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

BI.GI., F.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 488/2005 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

SEZIONE PRIMA CIVILE, emessa il 21/04/2005, depositata il 19/05/2005

R.G.N. 1618/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

16/02/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO SEGRETO;

udito l’Avvocato COGLITORE EMANUELE (per delega dell’Avv. MANZI

LUIGI);

udito l’Avvocato IASIELLO PAOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso con il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione notificata il 21.6.1991, B.G.B., G.F., C.A. e L.G. convenivano davanti al tribunale di Genova Bi.Gi., F. G. e Ca.Gi.. Assumevano gli attori che era stata costituita tra loro ed i convenuti la s.n.c. Scardiglio, avente ad oggetto sociale la gestione di imbarcazioni da pesca e delle attività connesse alla pesca; che la società disponeva di vari beni per tale attività; che sebbene fossero ancora soci, i convenuti li avevano di fatto estromessi dalla società, impossessandosene ed alienando l’unico peschereccio ad una cooperativa. Gli attori chiedevano la convalida di un sequestro conservativo ottenuto e la condanna dei convenuti al risarcimento del danno. Gli attori richiedevano anche la liquidazione della loro quota.

Resistevano i convenuti.

Il tribunale di Genova rigettava la domanda con sentenza n. 2890/2002.

La Corte di appello di Genova, adita dagli attori, rigettava l’appello domanda con sentenza depositata il 19.5.2005. Riteneva la corte territoriale che, quanto alla liquidazione della quota, indipendentemente dalla sua tempestività, la stessa non poteva essere accolta, mancando il presupposto dello scioglimento della società. Inoltre la Corte riteneva, quanto ai pretesi danni, che quelli lamentati erano danni diretti della società e solo indiretti degli attori; che conseguentemente essi non potevano essere azionati a norma dell’art. 2395 c.c.; che, quanto ai restanti danni, fatti valere a norma dell’art. 2935 c.c., andava considerato che tale norma è correlata “ad una specifica causa petendi che non risulta dedotta nel giudizio di primo grado e non può essere ammissibilmente introdotta per la prima volta – e tra l’altro in termini del tutto generici ed apodittici – nella presente sede”.

Avverso questa sentenza hanno presentato ricorso per cassazione gli attori.

Resiste con controricorso Ca.Gi.. Entrambe le parti hanno presentato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 112 e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, degli artt. 2289, 2284, 2285, 2286, 2308 e 2272 c.c. Omessa, insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

Lamentano i ricorrenti che la corte di appello avrebbe omesso di esaminare la loro domanda di liquidazione della quota ex art. 2289 c.c., sul rilievo che, indipendentemente dal punto se la domanda era stata tempestivamente proposta, in ogni caso essa non poteva essere accolta, in quanto mancava il presupposto dello scioglimento della società. Osservano i ricorrenti che tale presupposto è necessario solo nel caso in cui la liquidazione della quota è conseguente appunto allo scioglimento della società tout court e non nel diverso caso in cui si liquida la quota del solo socio uscente, per effetto dello scioglimento solo di quel rapporto sociale.

2. Il motivo è infondato, sebbene vada corretta la motivazione, a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 1, per essere esatto il dispositivo, ma errata in diritto la motivazione.

Infatti, preliminarmente ad ogni questione attinente alla domanda di liquidazione della quota, va rilevata l’inammissibilità della stessa per difetto di legittimazione passiva dei soci convenuti, attuali intimati, essendo unica legittimata la società. Le sezioni unite di questa corte, con la sentenza n. 291 del 2000, risolvendo un contrasto di giurisprudenza precedentemente sorto in argomento, hanno chiarito che l’obbligazione di liquidare la quota di una società di persone in favore del socio receduto o escluso, ovvero degli eredi del socio defunto, fa capo non agli altri soci, bensì alla società, sicchè la relativa domanda va proposta nei confronti della società medesima, quale soggetto passivamente legittimato, senza che vi sia neppure necessità di evocare in giudizio anche detti altri soci.

L’ampia e persuasiva motivazione in base alla quale le sezioni unite sono pervenute all’enunciazione di tale principio, al quale s’intende dare qui senz’altro continuità, rende superfluo in questa sede ogni ulteriore rilievo, (al quale si sono successivamente uniformate anche Cass. 28 agosto 2001, n. 11298, Cass. 1 aprile 2004, n. 6376, Cass. 5 maggio 2004, n. 8531 e Cass. 23 maggio 2006, n. 12125; Cass. 16.1.2009, n. 1040), non rivestendo alcun rilievo la pretesa circostanza che della società (di cui qui si discute) si fossero “impossessati i convenuti”, giacche ciò non ne attenua in alcun modo l’autonomia patrimoniale e non consente di confondere il patrimonio sociale con quello di ciascun socio.

3. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132 c.p.c., n. 4, e dell’art. 345 c.p.c. e degli artt. 2043, 2260 e 2395 c.p.c., nonchè il vizio motivazionale della sentenza, a norma dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5.

Assumono i ricorrenti che erroneamente la sentenza impugnata non si è pronunziata sulla loro domanda di risarcimento del danno ritenendo che nella fattispecie si trattasse di danno solo indiretto di essi soci e diretto della società.

Secondo i ricorrenti erroneamente, inoltre, sarebbe stata ritenuta nuova la loro domanda risarcitoria a norma dell’art. 2395 c.c., in quanto essi avevano proposto domanda di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. già nell’atto introduttivo.

4.1. Il motivo è infondato.

Va, anzitutto, premesso che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, l’art. 2395 c.c., comma 1 disciplina l’azione individuale del socio o del terzo, stabilendo che questi hanno diritto al risarcimento del danno subito, qualora “siano stati direttamente danneggiati” da atti dolosi o colposi degli amministratori, quindi, richiede fatti illeciti direttamente imputabili ad un comportamento doloso o colposo dei medesimi.

L’avverbio “direttamente” delimita l’ambito di esperibilità dell’azione ex art. 2395 c.c. rispetto alle fattispecie disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. rendendo palese che il discrimine tra le stesse non va individuato nei presupposti stabiliti dalla legge per il sorgere di tali forme di responsabilità (che consistono pur sempre nella violazione, dolosa o colposa, dei doveri ad essi imposti dalla legge o dall’atto costitutivo), bensì nelle conseguenze che il comportamento illegittimo degli amministratori ha determinato nel patrimonio del socio o del terzo. Se il danno allegato costituisce solo il riflesso di quello cagionato al patrimonio sociale, si è al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 2395 c.c., in quanto tale norma richiede che il danno abbia investito direttamente il patrimonio del socio o del terzo (ex plurimis: Cass. 25/07/2007, n. 16416; Cass. n. 8359 del 03/04/2007; Cass. 05/08/2008, n. 21130, sino a risalire a Cass. n. 441 del 1966).

4.2. Pertanto, secondo l’orientamento ormai consolidato, neppure rileva che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell’esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, ovvero che tale danno sia (o meno) ricollegabile ad un inadempimento della società, nè infine che l’atto lesivo sia stato eventualmente compiuto dagli amministratori nell’interesse della società e a suo vantaggio, dato che la formulazione dell’art. 2395 c.c. pone in evidenza che l’unico dato significativo ai fini della sua applicazione è costituito appunto dall’incidenza del danno (Cass. n. 2251 del 1998; n. 2850 del 1996; n. 781 del 1993; cfr. Cass. n. 12985 del 2001).

Questa Corte, in riferimento al diritto agli utili, ha quindi affermato che, essendo questi parte del patrimonio sociale fin quando l’assemblea, eventualmente, non ne disponga la distribuzione in favore dei soci, la loro sottrazione indebita ad opera dell’amministratore lede il patrimonio sociale (Cass. n. 10271 del 2004; cfr. anche Cass. n. 6364 del 1998) e solo indirettamente si ripercuote sulla posizione giuridica e sull’interesse economico del singolo socio, compromettendo la sua aspettativa di reddito e comprimendo il valore della sua quota. Analogamente, il danno diretto non può consistere nella mancata distribuzione degli utili, appunto in quanto questi, prima della distribuzione, appartengono alla società (Cass. n. 9385 del 1993; n. 3524 del 1983). Pertanto, neppure in detta ipotesi al singolo socio compete l’azione di responsabilità disciplinata dall’art. 2395 c.c. (Cass. n. 10271 del 2004; n. 9385 del 1993; n. 3524 del 1983; cfr. anche Cass. n. 6364 del 1998).

4.3. In relazione al danno consistente nella riduzione del valore della partecipazione societaria, è stato inoltre precisato che neppure detta riduzione costituisce danno diretto ai sensi dell’art. 2395 c.c. in quanto configura un effetto mediato di quello asseritamente arrecato al patrimonio sociale. La partecipazione sociale, pur attribuendo al socio una complessa posizione, comprensiva di diritti e poteri, è infatti un bene distinto dal patrimonio sociale e, quindi, nell’ipotesi di (prospettata) diminuzione di valore della misura della partecipazione, il pregiudizio derivante al socio è una conseguenza indiretta e soltanto eventuale della condotta dell’amministratore o del liquidatore.

Sulla scorta di questa considerazione, condivisa dalla dottrina, questa Corte ha quindi affermato – e va qui ribadito – che il diritto alla realizzazione dell’oggetto sociale ed alla conservazione del patrimonio sociale spetta alla società, non al socio, il quale ha, in materia, un mero interesse, la cui eventuale lesione, anche se determinata dalla “pessima amministrazione della società” (Cass. n. 2251 del 1998; n. 9385 del 1993) e dalla violazione dei doveri di amministratore verso la società (Cass. n. 9385 del 1993, in riferimento ad un caso di rinuncia da parte dell’amministratore ad una concessione di cui era titolare la società) neppure può concretare quel danno diretto necessario perchè possa esperirsi l’azione individuale di responsabilità ex art. 2395 c.c. (Cass. n. 6364 del 1998; n. 9385 del 1993; n. 327 del 1974) ed è stata altresì negata l’ammissibilità dell’intervento adesivo del socio nel giudizio promosso dalla società, nel caso di diminuzione del patrimonio sociale, (Cass. n. 2487 del 1963).

4.4. Analogamente deve ritenersi quanto agli atti compiuti in violazione del divieto di cui all’art. 2390 c.c. il quale, stabilendo che gli amministratori non possono assumere la qualità di soci illimitatamente responsabili in società concorrenti, nè esercitare un’attività concorrente per conto proprio o di terzi, salvo autorizzazione dell’assemblea e prevedendo che, in caso di inosservanza, l’amministratore può essere revocato dall’ufficio e risponde dei danni, da rilievo ad un conflitto potenziale di interessi, mirando ad evitare che l’amministratore, durante il suo ufficio, si trovi in situazioni di dannoso antagonismo con la società (Cass. n. 3091 del 1975). Il divieto è, quindi, preordinato a tutelare la società e, come bene è stato osservato dalla dottrina, è inteso a favorire il perseguimento dell’interesse della società da parte dell’amministratore, costituendo una sorta di tutela avanzata della società, al fine di evitare che l’amministratore sia indotto a danneggiarla, facendole concorrenza.

Dunque, la violazione di detto divieto vulnera direttamente la società ed il suo patrimonio, mentre il danno subito dal socio è, all’evidenza, un danno soltanto indiretto, non diversamente da quanto accade nel caso di cattiva amministrazione della società e di compimento di atti di mala gestio.

4.5. La Corte di appello ha fatto corretta applicazione di detti principi ritenendo che il comportamento pretesamente illecito dei convenuti, che avrebbe impedito il conseguimento di utili e danneggiato il patrimonio della società e reso impossibile la liquidazione delle quote sociali, (anche attraverso l’impossibilità di cognizione dei dati sociali necessari a tale liquidazione) costituiscano condotte in relazione alle quali difetta il carattere del danno diretto richiesto dall’art. 2395 c.c..

5. Relativamente al denunciato vizio motivazionale, va ricordato il vizio di motivazione è deducibile in cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come mezzo per l’annullamento della sentenza che si impugna, solo per quanto attiene all’accertamento ed alla valutazione dei fatti rilevanti per la decisione e non anche per quanto concerne l’interpretazione e l’applicazione di norme di diritto e la soluzione di questioni giuridiche, rispetto alle quali il sindacato di legittimità si esaurisce nel controllo della conformità al diritto della decisione impugnata (per tutte, Cass. n. 2469 del 2003; n. 10396 del 2001; n. 4526 del 2001). Dunque, se la decisione risulta esatta, l’erronea o carente motivazione in diritto è modificata o integrata da questa Corte, in applicazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, e solo se la decisione adottata risulta, invece, giuridicamente inesatta, la sentenza impugnata deve essere cassata per violazione o falsa applicazione di norme giuridiche.

Ebbene, nella specie, la sentenza impugnata ha ritenuto infondata la domanda del ricorrente, in quanto ha correttamente escluso la riconducibilità degli atti sopra indicati tra quelli idonei a cagionare un danno rilevante ex art. 2395 c.c. e, conseguentemente, in questa parte non è configurabile nessun vizio di motivazione.

6.1. Egualmente infondata è la censura di violazione degli artt. 112, 132 e 345 c.p.c.. La giurisprudenza di questa Corte, condivisa dalla prevalente dottrina, è pacificamente e costantemente orientata nell’affermare la natura extracontrattuale della responsabilità prevista dall’art. 2395 c.c. (ex plurimis, Cass. n. 10271 del 2004;

n. 3843 del 2001; n. 2251 del 1998; n. 3216 del 1994; sino a risalire a Cass. n. 4303 del 1956).

Quanto al rapporto esistente tra le fattispecie disciplinate dagli artt. 2395 e 2043 c.c. l’indirizzo più risalente aveva tuttavia ritenuto che la prima non può identificarsi con la seconda, nel senso che, ferma la natura extracontrattuale della responsabilità prevista dall’art. 2395 c.c. si differenzia rispetto a quella dell’art. 2043 c.c. in quanto quest’ultima è genericamente prevista rispetto a chiunque abbia commesso un fatto doloso e colposo, produttivo di danno ingiusto, mentre la prima colpisce specificamente gli atti dolosi o colposi commessi dagli amministratori come tali, nell’esercizio delle incombenze loro proprie, produttrici di danno dirette al singolo socio o al terzo (Cass. n. 4303 del 1956; in termini sostanzialmente analoghi, Cass. n. 2242 del 1966). Dunque, l’elemento di peculiarità e di differenziazione era stato individuato nella circostanza che l’art. 2395 c.c. concerneva appunto il caso di lesione diretta al patrimonio del socio o del terzo cagionata dall’amministratore nell’esercizio delle mansioni di amministrazione.

6.2. In seguito si è invece consolidato l’orientamento secondo il quale non rileva che il danno sia stato arrecato dagli amministratori nell’esercizio del loro ufficio o al di fuori di tali incombenze, in quanto la formulazione dell’art. 2395 c.c. palesa che, ai fini della sua applicazione, rileva esclusivamente l’incidenza diretta del danno ascrivibile all’amministratore (Cass. n. 2251 del 1998; n. 2850 del 1996; n. 781 del 1993; n. 5723 del 1991; in obiter, v. Cass. n. 12985 del 2001), in virtù di una configurazione condivisa dal Collegio, che conduce a ritenere detta norma come un’applicazione della ipotesi disciplinata dall’art. 2043 c.c..

Tale essendo la relazione tra le citate due norme, è corretto quanto sostenuto dai ricorrenti, secondo cui la domanda risarcitoria proposta ex art. 2395 c.c. non è domanda nuova rispetto a quella proposta in primo grado ex art. 2043 c.c.6.3. Sennonchè la sentenza impugnata non ha ritenuto inammissibile la domanda di responsabilità ex art. 2395 c.c., perchè nuova rispetto a quella di cui all’art. 2043 c.c., ma perchè o i fatti dedotti integravano quelli già esaminati e ritenuti mancanti di danno diretto ai soci attori (e quindi fuori dalla fattispecie di cui all’art. 2395 c.c.), o perchè integravano fatti non dedotti in primo grado, e, sotto tale profilo, nuove causae petendi, oltre che generiche ed apodittiche.

Tale interpretazione dell’atto di appello effettuata dalla Corte territoriale è immune da censure.

Infatti la mancanza di conseguimento di utili e la pretesa alienazione del patrimonio sociale e “completa volatilizzazione di ogni scrittura contabile”, da cui sarebbe conseguita l’impossibilità di ottenere la liquidazione della propria quota colpiscono direttamente la società e solo indirettamente i soci, per cui si è fuori dalla fattispecie di cui all’art. 2395 c.c..

Quanto alla lamentata esposizione di essi ricorrenti ad avvisi di pagamenti, ingiunzioni e quant’altro inerenti alla società, i ricorrenti, pur assumendo di aver lamentato ciò “negli atti introduttivi e nel successivo corso del giudizio” non indicano in quale atto specifico ed in che termini avevano fatto valere il loro preteso diritto al risarcimento del danno, trascrivendo nel ricorso tale punto, con conseguente inammissibilità del motivo per difetto di autosufficienza.

6.4. In ogni caso i ricorrenti non censurano il rilievo della sentenza impugnata di genericità ed apoditticità dell’appello, che già di per sè era idoneo a fondare la ritenuta inammissibilità del motivo di gravame.

7. Il rigetto dei primi due motivi di ricorso, comporta il rigetto anche del terzo motivo, relativo alla mancata ammissione di mezzi istruttori ed alla mancata convalida del sequestro.

8. Il ricorso va rigettato. I motivi equitativi, fondati sulla peculiarità della vicenda, che hanno indotto i giudici di appello alla compensazione delle spese e che non sono stati oggetto di censura da parte degli attuali resistenti, permangono anche in questo giudizio, giustificandone la compensazione delle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 16 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2011

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