Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6551 del 10/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 10/03/2021, (ud. 26/01/2021, dep. 10/03/2021), n.6551

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3431-2019 proposto da:

S.A.R.A.J., elettivamente domiciliato in ROMA,

VIALE PARIOLI 63 INT. 6, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI

FOTI, rappresentato e difeso dall’avvocato NUNZIATINA STARVAGGI;

– ricorrente –

contro

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, MINISTERO ISTRUZIONE

UNIVERSITA’ RICERCA, MINISTERO DELLA SALUTE, MINISTERO DELL’ECONOMIA

E FINANZE, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri e

dei rispettivi Ministri pro tempore, elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO,

che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

contro

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI LA SAPIENZA DI ROMA, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZALE ALDO MORO N. 5, rappresentata e difesa dagli Avvocati

ALFREDO FAVA, SILVIA CALDARELLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4015/2018 della. CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 12/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 26/01/2021 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO

MARIA CIRILLO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Dott. S.A.R.A.J. convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’istruzione, il Ministero della salute, il Ministero dell’economia e finanze e l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, chiedendo che fosse dichiarato il suo diritto a percepire un’adeguata remunerazione in relazione al periodo del corso di specializzazione in reumatologia da lui frequentato presso l’Università convenuta dall’anno accademico 1981-1982 fino al conseguimento della specializzazione in data 24 luglio 1985.

A sostegno della domanda espose di aver svolto attività professionale per l’intero periodo del corso e di non aver percepito alcuna remunerazione.

Si costituirono in giudizio la Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’istruzione, il Ministero della salute e il Ministero dell’economia e finanze, eccependo la prescrizione del diritto e chiedendo nel merito il rigetto della domanda.

L’Università inizialmente non si difese, costituendosi solo a seguito del rinnovo della notifica del ricorso introduttivo autorizzato dal giudice, associandosi all’eccezione di prescrizione e chiedendo il rigetto della domanda.

Il Tribunale dichiarò il difetto di legittimazione passiva di tutte le parti convenute, ad eccezione della Presidenza del Consiglio dei ministri, nei confronti della quale rigettò la domanda in accoglimento dell’eccezione di prescrizione, condannando l’attore al pagamento delle spese di lite.

2. La sentenza è stata impugnata dall’attore soccombente e la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 12 giugno 2018, ha rigettato l’appello, ha confermato la pronuncia di primo grado ed ha condannato l’appellante al pagamento delle ulteriori spese del grado.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di Roma propone ricorso il Dott. S.A.R.A.J. con atto affidato a due motivi.

Resistono la Presidenza del Consiglio dei ministri, il Ministero dell’istruzione, il Ministero della salute e il Ministero dell’economia e finanze con un unico controricorso.

Resiste altresì l’Università degli studi di Roma “La Sapienza” con un separato controricorso.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in camera di consiglio, sussistendo le condizioni di cui agli artt. 375,376 e 380-bis c.p.c., e non sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione delle direttive comunitarie 362/75, 363/75 e 76/82, sostenendo che la Corte di merito avrebbe errato nel far decorrere il decennio della prescrizione dal 27 ottobre 1999.

1.1. Il motivo è inammissibile, ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1), poichè la decisione è conforme a consolidata giurisprudenza di questa Corte, dalla quale non vi sono ragioni per discostarsi.

Questa Corte ha stabilito che, a seguito della tardiva ed incompleta trasposizione nell’ordinamento interno delle Dir. n. 75/362/CEE e n. 82/76/CEE, relative al compenso in favore dei medici ammessi ai corsi di specializzazione universitari – realizzata solo con il D.Lgs. 8 agosto 1991, n. 257 – è rimasta inalterata la situazione di inadempienza dello Stato italiano in riferimento ai soggetti che avevano maturato i necessari requisiti nel periodo che va dal 1 gennaio 1983 al termine dell’anno accademico 1990-1991. La lacuna è stata parzialmente colmata con la L. 19 ottobre 1999, n. 370, art. 11, che ha riconosciuto il diritto ad una borsa di studio soltanto in favore dei beneficiari delle sentenze irrevocabili emesse dal giudice amministrativo; ne consegue che tutti gli aventi diritto ad analoga prestazione, ma tuttavia esclusi dal citato art. 11, hanno avuto da quel momento la ragionevole certezza che lo Stato non avrebbe più emanato altri atti di adempimento alla normativa Europea. Nei confronti di costoro, pertanto, la prescrizione decennale della pretesa risarcitoria comincia a decorrere dal 27 ottobre 1999, data di entrata in vigore del menzionato art. 11 (sentenza 17 maggio 2011, n. 10813, più volte confermata in seguito).

Da tale giurisprudenza non vi sono ragioni per discostarsi.

Nella specie, la Corte romana ha fatto buon governo di tale principio e, avendo accertato che il primo atto di interruzione della prescrizione era costituito dalla notifica del ricorso introduttivo, avvenuta il 5 settembre 2016, ha ritenuto correttamente che il diritto dell’odierno ricorrente fosse prescritto.

2. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., sul rilievo che la sentenza avrebbe errato nel condannare l’attore alle spese del giudizio di primo grado anche in favore dell’Università – nei confronti della quale vi era stata rinuncia – e nel condannare alle spese in favore delle altre amministrazioni costituite.

In particolare, il ricorrente osserva che, una volta accertata la tardività della notifica dell’atto introduttivo ed autorizzato il rinnovo, egli non notificò più il ricorso all’Università, manifestando in tal modo il proprio desiderio di rinunciare alla domanda, con rinuncia accettata dall’Università; la rinuncia, infatti, a suo dire non necessita di un atto formale e può essere anche tacita.

2.1. Il motivo non è fondato.

Osserva la Corte che il riconoscimento del difetto di legittimazione passiva di una parte convenuta, da parte dell’attore, non equivale a rinuncia della domanda nei suoi confronti e che, a norma dell’art. 306 c.p.c., la rinuncia deve essere accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio. Questa Corte ha affermato che la rinuncia all’azione non richiede formule sacramentali e può essere anche tacita, presuppone l’incompatibilità assoluta tra il comportamento dell’attore e la volontà di proseguire nella domanda proposta, il cui accertamento demandato al giudice del merito, risolvendosi in una valutazione di fatto, non è censurabile in sede di legittimità, ove logicamente e congruamente operata (sentenza 9 novembre 2005, n. 21685).

Nella specie, la Corte d’appello ha valutato la questione ed ha escluso l’esistenza di una rinuncia esplicita alla domanda, avendo comunque l’attore dato causa alla costituzione dell’ente. D’altra parte, la decisione di quest’ultima di costituirsi anche senza il rinnovo della notifica non può essere censurata, posto che la domanda era stata avanzata nei suoi confronti e che l’attore avrebbe potuto e dovuto più chiaramente esplicitare la propria intenzione nel corso del giudizio di primo grado. Il tutto senza contare che, di regola, la rinuncia comporta l’obbligo per il rinunciante di rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo (citato art. 306, u.c.).

Quanto alla condanna alle spese nei confronti delle altre amministrazioni, rileva la Corte che essa costituisce applicazione del principio di soccombenza, tanto più che il giudizio è stato intrapreso nel 2016, quando l’orientamento di questa Corte in materia di prescrizione era già da anni consolidato.

3. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

A tale esito segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

Sussistono, inoltre, le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 3.500 più spese prenotate a debito in favore della Presidenza del Consiglio dei ministri, e in complessivi Euro 3.500 in favore dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione Civile – 3, il 26 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 10 marzo 2021

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