Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 655 del 12/01/2017

Cassazione civile, sez. II, 12/01/2017, (ud. 15/09/2016, dep.12/01/2017),  n. 655

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PARZIALE Ippolisto – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6653-2012 proposto da:

C.P., (OMISSIS) e C.G. (OMISSIS) quali eredi di

C.A., domiciliati ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso

la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi

dall’avvocato UGO AVETA;

C.L., (OMISSIS) quale erede di C.A., nonchè

S.P.A. (OMISSIS) in proprio e quale erede di

C.A., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA DELLA SCROFA 14,

presso lo studio dell’avvocato CARLO SARRO, che le rappresenta e

difende giusta procura per Notar dott.ssa Sp.El. Rep.

n. (OMISSIS);

– ricorrenti –

contro

CE.MI., (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

VITTORIA COLONNA 40, presso lo studio dell’avvocato ALBERTO DI

CAPUA, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE SANGIOVANNI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 3741/2011 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 07/12/2011; udita la relazione della causa svolta

nella pubblica udienza del 15/09/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO

FALABELLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di

ragione del secondo motivo, in subordine il primo motivo e per

l’assorbimento degli altri motivi del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione notificato il 24 dicembre 1994 Ce.Mi., conduttore di un terreno sito in (OMISSIS), di proprietà di SINT – Società Immobiliare Nuove Terme s.p.a., conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Torre Annunziata la società locatrice nonchè C.A. e S.P.A. per far dichiarare il suo diritto al riscatto del terreno venduto dalla SINT a questi ultimi, nonchè dichiarare l’efficacia dell’atto di compravendita e disporre, a carico dell’attore, le modalità di pagamento del prezzo nella misura stabilita nell’atto di vendita intercorso tra i convenuti.

Con comparsa del 2 febbraio 2000 si costituivano gli eredi di C.A., frattanto deceduto, nonchè S.P.A., i quali chiedevano il rigetto della domanda attrice.

Il Tribunale respingeva la domanda.

Interposto gravame, la Corte di appello di Napoli, con sentenza pubblicata il 7 dicembre 2011, in riforma della pronuncia impugnata, accoglieva la domanda di riscatto e per l’effetto disponeva “la sostituzione di Ce.Mi. (…) al defunto C.A. e a S.P., quale parte acquirente del bene oggetto dell’atto di vendita” intercorso, limitatamente alla porzione condotta in locazione dall’appellante, dell’estensione di mq 118,6, facente parte della particella di maggiore consistenza individuata in catasto con la particella (OMISSIS) del catasto di (OMISSIS); nel contempo condannava lo stesso Ce. al versamento della somma di 11.620,28 in favore degli appellati, quale prezzo del bene oggetto del retratto.

La sentenza è stata impugnata per cassazione da C.P., L., G. e da S.P.A. con un ricorso affidato a cinque motivi. Resiste con controricorso Ce.Mi.. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Vanno esaminati, per anteriorità logica, il secondo motivo, che attiene a una condizione di proponibilità dell’azione, e il terzo, che veicola una questione processuale afferente la domanda.

Il primo motivo lamenta violazione o falsa applicazione della L. n. 92 del 1978, art. 39, commi 2 e 3 dell’art. 12 preleggi e dell’art. 2966 c.c.. Assumono in sintesi i ricorrenti di essersi costituiti in giudizio dopo otto anni e che, pertanto, la Corte di appello non avrebbe potuto affermare che il termine di tre mesi previsto per il pagamento del prezzo decorresse, a norma della L. n. 392 del 1978, art. 39 dal passaggio in giudicato della sentenza che definiva il giudizio: all’opposto, proprio in considerazione della loro contumacia, il versamento avrebbe dovuto aver luogo entro tre mesi dalla prima udienza del giudizio.

Il motivo va disatteso, anche se sul punto la motivazione del giudice del gravame deve essere corretta a norma dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Dispone la L. n. 392 del 1978, art. 39, commi 2 e 3:

“Ove sia stato esercitato il diritto di riscatto, il versamento del prezzo deve essere effettuato entro il termine di tre mesi che decorrono, quando non vi sia opposizione al riscatto, dalla prima udienza del relativo giudizio, o dalla ricezione dell’atto notificato con cui l’acquirente o successivo avente causa comunichi prima di tale udienza di non opporsi al riscatto.

“Se per qualsiasi motivo, l’acquirente o successivo avente causa faccia opposizione al riscatto, il termine di tre mesi decorre dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio”.

Vero è che, come evidenziato dal ricorrente ai fini del computo del dies a quo del pagamento del prezzo è richiesta una condotta esclusivamente negativa, che può attuarsi anche con la mancata comparizione alla prima udienza, oltre che con la costituzione senza una esplicita presa di posizione contro la pretesa del retraente (per tutte: Cass. 17 luglio 1996, n. 6465).

Nondimeno, l’art. 39, commi 2 e 3 cit. non prevedono che il versamento del prezzo condizioni l’esercizio del riscatto; men che meno comminano una decadenza per il caso in cui quell’adempimento non abbia luogo.

Come è stato osservato, infatti, il mancato rispetto del termine fissato dalla legge per il pagamento del prezzo, in caso di riscatto, non comporta decadenza da un diritto già legittimamente esercitato, nè condiziona gli effetti di esso in mancanza di una espressa previsione, sicchè il termine fissato dalla legge per il pagamento del prezzo costituisce soltanto un termine dilatorio per l’adempimento, la cui mancata osservanza produce le conseguenze tipiche dell’inadempimento (Cass. 14 aprile 1992, n. 4535, in motivazione). Il che è pienamente coerente con il rilievo per cui il mancato pagamento del prezzo nel previsto termine di tre mesi (che ha natura dilatoria) non comporta – in mancanza di una espressa previsione – decadenza dal diritto esercitato (con riferimento alla fattispecie di cui al comma 3, cfr.: Cass. 29 settembre 2005, n. 19132; Cass. 4 settembre 1998, n. 8809).

Nè è concludente, al riguardo, quanto rilevato dai ricorrenti, i quali hanno fatto presente che in un suo precedente questa Corte (Cass. 17 luglio 1996, n. 6465 cit.), nel decidere la questione circa la decorrenza del termine nel senso della sua decorrenza dalla prima udienza – per l’ipotesi di mancata costituzione del retrattato – abbia annullato senza rinvio la pronuncia impugnata, rigettando l’appello avverso la sentenza di primo grado che aveva dichiarato improponibile la domanda di riscatto. Infatti, nella circostanza era stata resa in prime cure una statuizione sulla decadenza del diritto: statuizione che era stata investita di gravame sul punto del dies a quo del termine per l’effettuazione del pagamento: sicchè una volta constatato l’errore in diritto compiuto dal giudice di appello, doveva rivivere la sentenza resa in prime cure, la quale aveva ritenuto che il mancato pagamento del prezzo nel termine di tre mesi dall’udienza determinasse la decadenza. Nella presente controversia, invece, il profilo attinente alla decadenza non è stato oggetto di accertamento da parte del Tribunale, dal momento che in primo grado il Tribunale ebbe a rigettare la domanda ritenendo che non trovasse applicazione la disciplina della prelazione urbana (cui inerisce la regolamentazione di cui all’art. 39 cit.). Discende da ciò che la Corte, in questa particolare circostanza, non incontra alcun limite nell’accertamento delle conseguenze che derivano dalla mancata osservanza del termine.

Col terzo motivo è dedotto l’omesso esame e l’omessa decisione su un’eccezione formulata in primo grado e riproposta in appello, nonchè la nullità della sentenza e del procedimento. Rilevano i ricorrenti che la controparte aveva chiesto nell’atto di citazione una sentenza meramente dichiarativa con riferimento al suo diritto di riscatto e all’inefficacia dell’atto di compravendita; solo nella citazione in appello Ce. aveva domandato di “sostituire” esso appellante agli acquirenti dell’immobile. Il riscatto non comportava l’inefficacia del contratto di compravendita, come aveva richiesto di accertarsi parte controricorrente nella domanda proposta in prime cure; peraltro, nelle azioni di riscatto non era consentita alcuna deduzione ulteriore diversa dalla formulazione contenuta nell’atto di citazione, onde il mutamento di domanda doveva ritenersi precluso. A fronte delle eccezioni svolte dai ricorrenti, la Corte di appello aveva omesso di pronunciare e da ciò derivava un error in procedendo produttivo della nullità della sentenza impugnata.

La censura non ha fondamento.

Anzitutto il mancato esame, da parte del giudice del merito, di una questione puramente processuale non può dar luogo ad omissione di pronuncia, configurandosi quest’ultima nella sola ipotesi di mancato esame di domande o eccezioni di merito (Cass. 12 gennaio 2016, n. 321; Cass. 10 novembre 2015, n. 22952). Tanto basterebbe a precludere l’esame del motivo.

In secondo luogo, deve negarsi che la Corte distrettuale abbia mancato di pronunciare sulla questione oggetto del motivo: infatti, il giudice del gravame ha spiegato come la domanda giudiziale avanzata dall’attore in primo grado dovesse essere interpretata non solo alla luce della sua letterale formulazione, ma avendo altresì riguardo al suo sostanziale contenuto; in tal senso ha evidenziato come Ce.Mi. avesse puntualmente espresso in citazione il proprio intendimento di avvalersi della facoltà di riscatto dell’immobile oggetto della locazione: onde doveva escludersi che il richiamo, operato nel successivo corso del giudizio, alla “sostituzione dell’appellante agli acquirenti del bene nell’atto di vendita” integrasse una domanda nuova.

E’ evidente pertanto che non sia mancata la decisione sulla questione controversa. Può anzi sottolinearsi come, in presenza di una decisione sul merito della domanda, il vizio di omessa pronuncia non si sarebbe configurato nemmeno ove la Corte di merito avesse mancato di prendere espressamente in esame l’eccezione proposta. Infatti, per aversi omessa pronuncia è necessaria la completa mancanza del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto (per tutte: Cass. 18 giugno 2014, n. 13866; Cass. 17 luglio 2007, n. 15882) e la giurisprudenza di questa Corte è ferma (fin dall’arresto di Cass. S.U. 29 gennaio 1965, n. 158) nel ritenere che non sussiste vizio di omessa pronuncia se l’assunto della parte, ancorchè non esaminato ex professo, risulti incompatibile con la costruzione logico-giuridica della decisione, così da ritenerlo implicitamente disatteso: sicchè la decisione di accoglimento della domanda della parte comporta anche la reiezione dell’eccezione d’inammissibilità della domanda stessa, avanzata dalla controparte (Cass. 11 settembre 2015, n. 17956).

Nè il vizio denunciato può veicolare una istanza di riesame del giudizio interpretativo formulato dalla Corte di appello in merito alla portata dell’originaria domanda svolta dall’odierno controricorrente: infatti, l’attività interpretativa circa il contenuto o l’ampiezza della domanda integra un accertamento in fatto, tipicamente rimesso al giudice di merito, insindacabile in cassazione salvo che sotto il profilo della correttezza della motivazione della decisione impugnata sul punto (Cass. 24 luglio 2008, n. 20373, cfr. pure Cass. 18 maggio 2012, n. 7932). Nella fattispecie un vizio di motivazione non è stato nemmeno dedotto.

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, artt. 38 e 39 degli artt. 115, 167 e 190 c.p.c., nonchè degli artt. 2188 e 2195 c.c. e art. 2697 c.c., comma 1, del D.P.R. n. 480 del 2001, art. 1 e del R.D. n. 773 del 1931, art. 86 (t.u.l.p.s.); il mezzo lamenta altresì omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio. La complessa censura investe la decisione impugnata nella parte in cui è affermato che l’attività esercitata (autorimessa senza custodia) non presupporrebbe necessariamente una autorizzazione amministrativa e che l’attore appellante aveva documentato il possesso di partita Iva, risultante anche dalle ricevute fiscali prodotte, mentre non risultava rilevante la mancata allegazione della documentazione di iscrizione nel registro delle imprese e dei documenti contabili e fiscali, non risultando esercitata nel caso di specie alcuna attività illecita. Sostengono i ricorrenti che la Corte di merito aveva impropriamente valorizzato quanto affermato dalla difesa di controparte nella memoria di replica depositata in appello, e cioè che veniva materialmente in questione un’attività di autorimessa senza custodia che, come tale, non necessitava di alcuna autorizzazione. Aggiungono i ricorrenti che l’assunto secondo cui l’attività di autorimessa era esercitata senza custodia risultava contrastante con quanto accertato tra le parti, con sentenza passata in giudicato, dal Tribunale di Torre Annunziata: tale sentenza aveva infatti riconosciuto la natura commerciale della locazione intercorsa avendo riguardo proprio al fatto che sull’area locata venisse svolta attività di parcheggio, con assunzione, da parte del parcheggiatore, dei rischi derivanti dal furto o dai danni subiti dai veicoli custoditi, in conformità della disciplina propria del deposito; deducono pertanto i ricorrenti che il conduttore, in quanto non munito di regolare autorizzazione, doveva essere considerato come abusivo esercente di pubblica autorimessa a pagamento: in quanto tale, allo stesso non poteva essere riconosciuto il diritto di riscatto, essendo escluso che potesse ricevere protezione una situazione abusiva, con conseguente vanificazione delle norme imperative che regolano le attività economiche e lo stesso scopo della disciplina dell’equo canone.

Il mezzo è anzitutto ammissibile, in quanto, in materia di ricorso per cassazione, il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass. S.U. 6 maggio 2015, n. 9100). Nella specie il ricorrente si duole sia dell’erronea applicazione della disciplina che subordina il diritto di prelazione alla regolarità amministrativa dell’attività svolta dal conduttore, sia della scorretta ricognizione della fattispecie concreta portata all’esame della Corte di merito.

Il motivo è pure fondato.

E’ jus receptum che la tutela dell’avviamento commerciale, apprestata dalla L. n. 392 del 1978, artt. 34 e ss. per gli immobili adibiti ad uso diverso dall’abitazione, utilizzati per un’attività commerciale comportante contatti diretti con il pubblico degli utenti e dei consumatori, non può essere riconosciuta al conduttore che eserciti quell’attività senza le prescritte autorizzazioni (per tutte: Cass. 27 marzo 2007, n. 7501; Cass. 7 agosto 2002, n. 11908).

Il giudice dell’impugnazione, nel caso in esame, si è limitato ad affermare che l’attività esercitata, consistente nell’esercizio di autorimessa senza custodia, non presuppone necessariamente una autorizzazione amministrativa.

Ora, per un verso, la Corte distrettuale non chiarisce, in modo esauriente, se l’attività concretamente svolta dal conduttore, per le caratteristiche sue proprie, esuli da quelle che, di contro, tale autorizzazione esigono. Per altro verso, essa assume un dato – quello dell’esercizio di un’attività senza custodia – che non spiega da quali elementi di causa venga desunto. E’ evidente, del resto, che a tal fine non potrebbe validamente rilevare quanto la difesa del controricorrente abbia asserito nella memoria di replica depositata avanti alla Corte di appello: e ciò in quanto la comparsa conclusionale e, a maggior ragione, la memoria di replica, hanno la sola funzione di illustrare le domande ed eccezioni già ritualmente proposte e non possono determinare un ampliamento del thema decidendum (cfr. ad es.: Cass. 16 luglio 2004, n. 13165; Cass. 3 aprile 1987, n. 3234): ciò che si verificherebbe ove, all’opposto, fosse consentito alla parte di formulare in tali scritti nuove allegazioni di fatti rilevanti ai fini della definizione della controversia. Peraltro, l’allegazione non equivale a prova del fatto, potendo quest’ultima semmai configurarsi in presenza di una mancata contestazione, giusta l’art. 115 c.p.c.. Ma il contegno processuale di non contestazione esige che la controparte sia posta in condizione di replicare all’allegazione; e nella fattispecie una contestazione del fatto allegato era ovviamente preclusa, venendo in questione una deduzione svolta nella memoria conclusionale di replica.

Nè può sostenersi che il giudice di merito, a fronte dell’obiettiva incertezza quanto alla necessità e all’obiettiva esistenza del titolo abilitativo, potesse accogliere la domanda, dal momento che, come correttamente rilevato dai ricorrenti, egli era tenuto, anche d’ufficio, alla verifica della condizione ostativa al riconoscimento del diritto, costituendo essa un requisito di fondatezza della domanda proposta (Cass. 15 gennaio 2007, n. 635, in tema di indennità di avviamento).

Non può poi essere nemmeno condiviso l’assunto del controricorrente secondo cui le sentenze rese tra il locatore e il conduttore in merito al mutamento di destinazione d’uso e alla finita locazione facciano stato quanto al dato della liceità dell’attività svolta dal secondo. Infatti, la declaratoria in ordine alla riconducibilità del rapporto di locazione alla tipologia dell’uso non abitativo, di cui alla L. n. 392 del 1978, art. 27 non ha comportato alcuna implicito accertamento in ordine al fatto che l’attività commerciale del conduttore fosse svolta in presenza delle prescritte autorizzazioni, o in assenza di esse, perchè non necessarie.

Il quarto motivo è rubricato come violazione o falsa applicazione della L. n. 392 del 1978, art. 38 e dell’art. 112 c.p.c., oltre che come omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti controversi decisivi per il giudizio. La censura investe le eccepita inesistenza di identità tra la particella catastale 295 e la porzione oggetto di riscatto. Non sussisterebbe il requisito dell’identità tra il bene acquistato – quello identificato dalla nominata la particella e l’oggetto del riscatto; costituendo l’identità del cespiti un requisito essenziale della prelazione e del riscatto, il giudice dell’impugnazione aveva violato la L. n. 392 del 1978, artt. 38 e 39. Si sostiene, in sostanza, che Ce. non aveva alcun diritto, per mancanza del requisito della richiamata identità, di pretendere il riscatto di una quota della particella, mediante scorporo da essa della porzione che presentava l’estensione di mq 118,60.

Nemmeno tale censura può trovare accoglimento.

Il fatto che non vi sia coincidenza tra il compendio compravenduto e la porzione immobiliare oggetto della locazione e del riscatto non è in sè decisivo. In tema di locazione di immobili urbani ad uso diverso da quello abitativo, il diritto di prelazione o di riscatto, previsto dalla L. n. 392 del 1978, artt. 38 e 39 a favore del conduttore, presuppone – certo – l’identità dell’immobile locato con quello venduto. Ma se si è in presenza di una vendita cumulativa, il diritto di riscatto che compete al conduttore resta inalterato. Tale diritto viene invece meno nell’ipotesi di vendita in blocco, per la cui configurazione è sufficiente che i vari beni alienati, tra loro confinanti, costituiscano un unicum e siano venduti (o promessi in vendita) non come una pluralità di immobili casualmente appartenenti ad un unico proprietario e ceduti (o cedendi) ad un soggetto diverso da colui che conduce in locazione per uso diverso uno di essi, ma come complesso unitario, costituente un quid differente dalla mera somma delle singole unità immobiliari (per tutte, cfr: Cass. 20 luglio 2011, n. 15897; Cass. 17 settembre 2008, n. 23747).

Ora, la Corte di merito ha accertato che nel caso in esame non era stata posta in essere alcuna vendita in blocco, dal momento che il trasferimento aveva riguardato particelle distinte e autonome senza che emergesse dal contratto, nè da altre circostanze, un collegamento oggettivo o soggettivo dei vari cespiti come complesso unitario non frazionabile, trattandosi, tra l’altro, di terreni non edificabili. Ha aggiunto che il c.t.u. aveva evidenziato come la particella (OMISSIS) non costituisse una entità omogenea e non frazionabile e che la porzione condotta in locazione era fisicamente distinta dalla restante parte, in quanto si collocava su di una quota diversa da quest’ultima e non era nemmeno comunicante con questa. La stessa Corte ha poi evidenziato come la possibilità di separate destinazioni funzionali ed economiche delle due porzioni trovava conferma nel fatto che esse erano state oggetto di distinti contratti di locazione.

Il giudizio espresso dalla Corte distrettuale in ordine alla mancata evidenza del collegamento tra la porzione oggetto di causa e la restante parte del compendio – tale da precludere che l’uno e l’altro costituissero un complesso unitario, non frazionabile – si sottrae a censura, in quanto si basa su di un accertamento di fatto e risulta adeguatamente motivato. Infatti, spetta al giudice del merito l’accertamento, insindacabile in sede di legittimità ove logicamente e congruamente motivato, dell’unicità strutturale e funzionale del bene venduto al fine di escludere o ammettere la prelazione o il riscatto (Cass. 20 luglio 2011, n. 15897 cit.; Cass. 2 ottobre 2007, n. 20746).

Non poi pertinente il richiamo della giurisprudenza di questa Corte in tema di alienazione di quota indivisa di immobile (alienazione rispetto alla quale di esclude il diritto di riscatto: cfr. Cass. S.U. 14 giugno 2007, n. 13886), dal momento la controversia non concerne una tale ipotesi.

Con il quinto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 99 del 2004, art. 7, comma 1, del D.P.R. n. 650 del 1972, art. 5 e dell’art. 112 c.p.c., oltre che omesso esame di fatti decisivi. Le norme indicate sono invocate per escludere l’ammissibilità di una frazionamento del fondo e per sostenere, quindi, che nella fattispecie il riscatto non poteva attuarsi.

Nemmeno sul punto la sentenza merita cassazione.

Anzitutto i ricorrenti trascrivono il contenuto dell’eccezione che avrebbero sul punto sollevato in comparsa conclusionale, ma non indicano in quali precedenti atti esse vennero sollevate. Il tema è rilevante, dal momento che la parte vittoriosa può riproporre in appello a norma dell’art. 346 c.p.c. l’eccezione non esaminata dal giudice di primo grado ma soltanto sino all’udienza di precisazione delle conclusioni e, quindi, non con la comparsa conclusionale (Cass. 26 maggio 1986, n. 3521, con riferimento alla disciplina anteriore alla L. n. 353 del 1990, che qui trova applicazione; nel senso che la parte vittoriosa in primo grado possa proporre eccezioni in appello sino alla precisazione delle conclusioni: Cass. 4 settembre 2004, n. 17906; Cass. 15 maggio 2003, n. 7527).

In secondo luogo, la Corte di merito si è limitata a rilevare che il frazionamento catastale della particella era attuabile – richiamando la relazione del c.t.u., secondo cui la particella (OMISSIS) “non risulta morfologicamente e funzionalmente una entità omogenea e non frazionabile”; sfugge, poi, al sindacato della Corte l’accertamento circa l’esistenza, in concreto – avendo cioè riguardo alla specificità della situazione che viene in esame – di condizioni ostative al frazionamento stesso.

Quanto al D.Lgs. n. 99 del 2004, art. 7 con cui è stato introdotto il D.L. n. 228 del 2005, art. 5 bis la norma, come correttamente rilevato dal controricorrente, non attiene alla fattispecie in esame, in quanto concerne i fondi rustici, laddove nella fattispecie viene in esame un immobile destinato ad uso commerciale. Inoltre, se è vero che, a norma del cit. art. 5 bis, comma 4 i terreni e le relative pertinenze, compresi i fabbricati, costituenti il compendio unico, “sono considerati unità indivisibili per dieci anni dal momento della costituzione e durante tale periodo non possono essere frazionati per effetto di trasferimenti a causa di morte o per atti tra vivi”, il vincolo di indivisibilità “deve essere espressamente menzionato, a cura dei notai roganti, negli atti di costituzione del compendio e trascritto nei pubblici registri immobiliari dai direttori degli uffici competenti”: il che implicherebbe un accertamento di fatto circa l’esistenza delle dette condizioni, accertamento non certo possibile nella presente sede di legittimità.

In conclusione, va accolto il primo motivo, mentre vanno respinti gli altri.

La sentenza deve essere cassata con riferimento al motivo accolto e rinviata ad altra sezione della Corte di appello di Napoli anche per le spese.

PQM

LA CORTE

accoglie il primo motivo e respinge gli altri; cassa con riferimento al motivo accolto e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Napoli anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 15 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2017

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