Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6546 del 18/03/2010

Cassazione civile sez. II, 18/03/2010, (ud. 11/12/2009, dep. 18/03/2010), n.6546

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.M., rappresentato a difeso, per procura speciale a

margine del ricorso, dagli Avvocati Fratarcangeli Sebastiano e

Tommaso Pacciani, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del

primo in Roma, via Acaia n. 24;

– ricorrente –

contro

F.Z.C.M., elettivamente domiciliata in Roma,

via R. Grazioli Lante n. 16, presso lo studio dell’Avvocato Schiamone

Fabrizio, rappresentata e difesa dall’Avvocato Pica Mario per procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 2962/04,

depositata in data 23 giugno 2004;

Udita, la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica dell’11

dicembre 2009 dal Consigliere relatore Dott. PETITTI Stefano;

sentito, per il ricorrente, l’Avvocato Tommaso Pacciani, il quale ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

sentito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GOLIA Aurelio, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del 19 giugno 1993, F.Z.M.C. conveniva in giudizio C.M. dinnanzi al Tribunale di Frosinone, chiedendo che venisse condannato a rimuovere un balcone realizzato in violazione delle norme sulle distanze, perchè il piano di calpestio si trovava a circa 30-40 cm. dalla sommità della porta finestra dell’abitazione di essa attrice, prospiciente il balcone, nonchè ad eliminare la veduta aperta sul lato ovest del fabbricato e insistente sul sottostante terreno di proprietà di essa attrice. La F. chiedeva anche di accertare che ella non era tenuta a contribuire alle spese per i lavori di rifacimento del tetto, eseguiti dal convenuto senza regolare autorizzazione dell’assemblea dei condomini dell’edificio.

Si costituiva il C., contestando la domanda e chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna dell’attrice al pagamento della somma corrispondente alla quota di spese sulla stessa gravante per il rifacimento del tetto.

L’adito Tribunale rigettava la domanda principale e accoglieva la riconvenzionale.

Proponeva appello la F.; resisteva il C..

La Corte d’appello di Roma, con sentenza depositata il 23 giugno 2004, in parziale accoglimento dell’appello, condannava il C. alla demolizione del balcone e rigettava la domanda riconvenzionale relativa al pagamento della quota di spese per il rifacimento del tetto.

La Corte rilevava innanzitutto che, dalla espletata c. t. u., era emerso che la piattaforma del balcone si trovava a circa 45 cm. dalla sottostante porta – finestra dell’appellante e pertanto a distanza inferiore a quella prevista dagli artt. 905 e 906 c.c.. Riteneva quindi del tutto inconferente il richiamo fatto dalla sentenza del Tribunale all’art. 1102 c.c. così come il fatto che il balcone non riducesse sostanzialmente luce e aria al sottostante appartamento, essendo le citate disposizioni dirette a tutelare il fondo finitimo dalle indiscrezioni attuabili tramite l’apertura di vedute senza il rispetto delle prescritte distanze. Non poteva, peraltro essere accolta la domanda di risarcimento del danno, non avendo l’attrice fornito concreti elementi utili ad una valutazione, sia pure equitativa.

Con riferimento al motivo di gravame concernente l’apertura di una veduta, la Corte rilevava che l’appellante aveva dedotto solo in appello la violazione delle distanze e che comunque era onere di essa attrice provare la proprietà del fondo sul quale la veduta era stata aperta; onere nella specie non assolto dalla F..

La Corte d’appello accoglieva infine la censura relativa al capo di condanna al pagamento della quota di spese per il rifacimento del tetto, rilevando che difettava la prova dell’urgenza dei lavori in questione e che non era stato dimostrato che l’intervento riparatorio avrebbe dovuto essere necessariamente integrale, non potendosi attribuire efficacia probatoria alle dichiarazioni dei testi sul punto, poichè tale circostanza avrebbe dovuto essere accertata con c.t.u. Inoltre, osservava la Corte, non risultava prodotto nè un capitolato nè una fattura, e comunque non vi erano ragioni per ritenere che l’appellato, in caso di inerzia degli altri condomini, non avesse potuto esperire, senza pericolo di rovina, le azioni giudiziarie dirette alla esecuzione dei lavori.

Per la cassazione di questa sentenza propone ricorso il C. sulla base di due motivi; resiste con controricorso, F.Z. M.C.; entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 905 c.c., nonchè vizio di motivazione omessa o insufficiente.

La Corte d’appello, sostiene il ricorrente, non avrebbe tenuto conto del fatto che, nel caso di specie, il c.t.u. aveva affermato la natura pubblica della strada sulla quale si affacciano entrambi gli appezzamenti delle parti in causa, sicchè avrebbe dovuto trovare applicazione l’art. 905 c.c., il quale dispone che il divieto di aprire vedute verso il fondo del vicino a distanza minore di un metro e mezzo cessa quando tra i due fondi vi è una via pubblica, irrilevante essendo che i fondi si fronteggino e che dalla via siano separati, essendo invece sufficiente che i fondi confinino con la via pubblica. La Corte d’appello avrebbe poi errato nel ritenere che il Tribunale non avrebbe dovuto fare riferimento all’art. 1102 c.c., in quanto tale disposizione, al contrario di quanto affermato nella sentenza impugnata, consente l’apertura di vedute o la trasformazione di finestre in balconi attraverso l’utilizzazione dei muri comuni nella parte corrispondente agli appartamenti di proprietà esclusiva, sempre che, come nel caso di specie, non risulti pregiudicata la stabilità del fabbricato o diminuite sensibilmente la luce e l’aria per i proprietari dei piani inferiori.

Il motivo è fondato nella parte in cui denuncia violazione dell’art. 1102 c.c..

La Corte d’appello ha ritenuto che la vicenda dedotta in giudizio dovesse essere regolata, per l’aspetto che ora viene in considerazione, dalle disposizione di cui agli artt. 905 e 906 c.c. e non anche da quella di cui all’art. 1102 c.c..

Cosi facendo la Corte d’appello si è posta in contrasto con i principi affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, e in particolare con quello per cui le norme sulle distanze legali, rivolte fondamentalmente a regolare rapporti fra proprietà contigue e separate, sono applicabili anche nei rapporti tra i condomini di un edificio condominiale quando siano compatibili con l’applicazione delle norme particolari relative alle cose comuni (art. 1102 c.c.), cioè quando l’applicazione di queste ultime non sia in contrasto con le prime; nell’ipotesi di contrasto prevalgono le norme sulle cose comuni con la conseguente inapplicabilità di quelle relative alle distanze legali che nel condominio degli edifici e nei rapporti fra singolo condomino e condominio sono in rapporto di subordinazione rispetto alle prime (Cass., n. 7044 del 2004; Cass., n. 8978 del 2003; Cass., n. 15394 del 2000).

La portata del principio, che il Collegio ritiene di condividere, deve essere precisata e chiarita nel modo seguente.

In considerazione della peculiarità del condominio degli edifici, caratterizzato dalla coesistenza di una comunione forzosa e di proprietà esclusive, il godimento dei beni, degli impianti e dei servizi comuni è in funzione del diritto individuale sui singoli piani in cui è diviso il fabbricato: dovendo i rapporti fra condomini ispirarsi a ragioni di solidarietà si richiede un costante equilibrio tra le esigenze e gli interessi di tutti i partecipanti alla comunione, dovendo verificarsi – necessariamente alla stregua delle norme che disciplinano la comunione – che l’uso del bene comune da parte di ciascuno sia compatibile con i diritti degli altri (Cass. 8808 del 2003).

Trova perciò applicazione la disciplina che, regolando in modo particolare e specifico il godimento e l’utilizzazione dei beni comuni, ha natura speciale rispetto alla normativa che, nell’ambito dei rapporti di vicinato, stabilisce le limitazioni legali fra proprietà confinanti, che sono imposte con carattere di reciprocità indipendentemente dalla verifica di un pregiudizio derivante dalla loro inosservanza.

Al riguardo occorre fare riferimento quindi all’art. 1102 c.c. – applicabile, ai sensi dell’art. 1139 c.c. – al condominio che, nello stabilire i poteri e i limiti di ciascun partecipante nell’uso dei beni comuni, fissa al tempo stesso le condizioni di liceità della condotta del comunista.

Con riferimento al condominio la norma consente, infatti, la più intensa utilizzazione dei beni comuni in funzione del godimento della proprietà esclusiva, purchè il condomino non alteri la destinazione del bene e non ne impedisca l’altrui pari uso.

In definitiva l’estensione del diritto di ciascun comunista trova il limite nella necessità di non sacrificare ma di consentire il potenziale pari uso della cosa da parte degli altri partecipanti (Cass. 10453 del 2001). Pertanto, qualora – attraverso la valutazione delle esigenze e dei diritti degli altri partecipanti alla comunione – il giudice verifichi che l’uso della cosa comune sia avvenuto nell’esercizio dei poteri e nel rispetto dei limiti stabiliti dall’art. 1102 c.c. a tutela degli altri comproprietari, deve ritenersi legittima l’opera seppure realizzata senza il rispetto delle norme dettate per regolare i rapporti fra proprietà contigue e che trovano applicazione nel condominio, semprechè la relativa osservanza sia compatibile con la struttura dell’edificio condominiale, in cui le singole proprietà coesistono in unico edificio. Infatti la prevalenza della norma speciale, dettata in materia di condominio, determina l’inapplicabilità di quella generale, quando i diritti o le facoltà da questa previsti siano compressi o limitati per effetto dei poteri legittimamente esercitati dal partecipante alla comunione sulla base dell’art. 1102 c.c.. In considerazione del rapporto strumentale di cui si è detto fra l’uso del bene comune e la proprietà esclusiva, che caratterizza il condominio, non sembra quindi ragionevole individuare a carico del diritto del singolo condomino – che si serva delle parti comuni in funzione del migliore e più razionale godimento del bene di proprietà individuale – limiti o condizioni estranei alla regolamentazione e al contemperamento degli interessi dei partecipanti alla comunione secondo i parametri stabiliti dalla specifica disciplina al riguardo dettata dall’art. 1102 c.c. Risulta dunque evidente l’errore in cui è incorsa la Corte d’appello, in quanto ha ritenuto applicabili, a discapito dell’art. 1102 c.c., le norme sulle distanze anzichè verificare, come del resto aveva già fatto il Tribunale, se l’uso del bene comune – la facciata dell’edificio utilizzata per la realizzazione del balcone – non ledesse il pari uso del proprietario dell’appartamento sottostante. L’indagine avrebbe dovuto limitarsi ad accertare l’esistenza di un pregiudizio per il proprietario dell’appartamento sottostante che, a causa e per effetto della trasformazione della finestra in balcone, avesse subito diminuzione di aria e luce in relazione alla veduta dal medesimo esercitata.

Il primo motivo di ricorso va quindi per tale profilo accolto.

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 1134 c.c., nonchè erronea valutazione delle risultanze istruttorie.

Al contrario di quanto affermato dalla Corte d’appello, dalle prove acquisite al processo era emerso che i lavori di rifacimento del tetto erano urgenti e indifferibili. Secondo la giurisprudenza di legittimità, osserva il ricorrente, opere urgenti sono quelle che, in base al criterio del bonus pater familias, appaiono indifferibili allo scopo di evitare un possibile anche se non certo nocumento alle cose comuni. E il rifacimento del tetto, ove solo si consideri la funzione di protezione dello stabile propria del tetto, è senz’altro da considerare opera urgente ai sensi dell’art. 1134 c.c., con conseguente obbligo del pagamento della relativa quota a carico di ogni condomino. Nel caso di specie, era emerso che l’armatura del tetto era divenuta fatiscente; che il tetto era avvallato e dissestato, necessitando di essere rifatto per intero; il c.t.u., inoltre, sulla base della documentazione fotografica, aveva affermato che, “essendo la copertura dell’edificio l’intima struttura muraria avente funzione di protezione dell’intero fabbricato, il suo possibile completo deterioramento avrebbe determinato inevitabilmente rovina in sè con evidente pericolo di rovina dell’intero fabbricato”.

Il motivo è infondato.

In tema di spese urgenti, questa Corte ha affermato il principio che “per avere diritto al rimborso della spesa affrontata per conservare la cosa comune, il condomino deve dimostrarne l’urgenza, ai sensi dell’art. 1134 c.c., ossia la necessità di eseguirla senza ritardo e, quindi, senza potere avvertire tempestivamente l’amministratore o gli altri condomini. Tale accertamento di fatto compete al giudice di merito e detto giudizio è insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente motivato” (Cass., n. 4364 del 2001); principio, questo, applicabile anche nel caso di due soli condomini, “onde evitare, anche nei cosiddetti condomini minimi, dannose interferenze del singolo condomino” (Cass., n. 7181 del 1997; Cass., S.U., n. 2046 del 2006, nella quale si illustrano anche le ragioni del diverso regime di cui agli artt. 1134 e 1110 c.c.).

Orbene, nel caso di specie la Corte d’appello ha adeguatamente motivato le ragioni per le quali ha ritenuto che il ricorrente non avesse fornito la prova della indifferibilità del rifacimento del tetto, soprattutto con riferimento alla impossibilità di avvertire l’altra condomina, nei confronti della quale ha poi chiesto il concorso nella ripartizione delle spese sostenute, o di esperire, senza pericolo di rovina, le azioni giudiziarie dirette all’esecuzione dei lavori (profili, questi ultimi, sui quali il ricorrente non ha neanche svolto specifiche censure).

Si tratta, quindi, di un accertamento di fatto adeguatamente motivato, e in quanto tale non censurabile in questa sede.

In conclusione, accolto il primo motivo di ricorso e rigettato il secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Roma, la quale procederà a nuovo esame del motivo di appello concernente la realizzazione del balcone da parte del ricorrente alla luce dei richiamati principi di diritto.

Al giudice di rinvio è demandata altresì la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

LA CORTE accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo motivo di ricorso, rigetta il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della Corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte suprema di Cassazione, il 11 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 18 marzo 2010

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