Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6541 del 14/03/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 14/03/2017, (ud. 07/12/2016, dep.14/03/2017),  n. 6541

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20005/2011 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO PESSI, che la

rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.S., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA UGO DE CAROLIS 31, presso lo studio dell’avvocato VITO SOLA, che

lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1072/2010 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 06/08/2010 r.g.n. 1957/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/12/2016 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA;

udito l’Avvocato ANNA BUTTAFOCO per delega verbale Avvocato ROBERTO

PESSI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CERONI Francesca, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Fatto

FATTI DEL PROCESSO

Con sentenza del 16 luglio – 6 agosto 2010 la Corte d’Appello di Firenze rigettava l’appello proposto dalla società Poste Italiane nei confronti di B.S. avverso la sentenza del Tribunale di Grosseto in data 12 dicembre 2006 (nr. 956/2006), che aveva dichiarato la nullità della clausola del termine apposta al contratto di lavoro stipulato in data 6 settembre 1999 per il periodo dal 6.9 al 4.12.1999 in ragione della “necessità di sostituire il dipendente A.O. Bi.Le. assente dal servizio per puerperio”.

La Corte territoriale respingeva la eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, basata sul lasso temporale – di meno di cinque anni – intercorso tra la conclusione del rapporto e la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.

Osservava che il mero decorso del tempo non poteva avere un univoco significato di una tacita volontà abdicativa in mancanza di ulteriori elementi esterni dai quali evincere siffatta volontà.

La accettazione del TFR al termine del rapporto a tempo determinato rispondeva,invece, alla necessità di sopperire a bisogni di vita elementari.

Nel merito riteneva il difetto di prova della causale, pur validamente prevista in contratto ai sensi della L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2, lett. b).

L’unico teste escusso (signor N.F.) si era limitato a confermare l’assenza nel periodo dedotto in contratto della dipendente Bi. per maternità ma nulla aveva saputo riferire circa la effettività della sua sostituzione ad opera del B.; dalle deposizioni del teste, dalle produzioni documentali e dalle allegazioni dell’appellante neppure era dato evincere presso quale ufficio di Poste Italiane fosse stata addetta la Bi. e se il B. fosse stato adibito al medesimo ufficio postale.

Il difetto di prova era stato già ritenuto dal giudice del primo grado; tale statuizione non solo non era stata efficacemente contrastata ma neppure era stata richiamata nell’atto di appello di Poste Italiane, le cui difese erano inconferenti rispetto alla ratio decidendi.

Di qui gli insuperabili profili di inammissibilità del gravame, a monte dei rilievi sulla corretta valutazione delle risultanze istruttorie da parte del primo giudice.

Dalla nullità parziale del contratto derivava la sussistenza di un rapporto a tempo indeterminato ed il diritto del lavoratore al risarcimento del danno con decorrenza dalla costituzione in mora, nella fattispecie avvenuta con la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la s.p.a. Poste Italiane, affidando l’impugnazione a quattro motivi di censura illustrati con memoria.

Resiste con controricorso B.S..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la società Poste Italiane s.p.a. denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5 – violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 c.c., art. 1372 c.c., commi 1 e 2, nonchè omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio e nullità del procedimento.

La censura investe la pronunzia di rigetto della eccezione di scioglimento del contratto per mutuo consenso.

La società ricorrente lamenta l’omesso esame delle seguenti circostanze:

– Durata del contratto di soli tre mesi;

– Conclusione del rapporto alla scadenza del termine senza alcuna contestazione del lavoratore;

– Accettazione del TFR e della altre competenze di fine rapporto.

– Lungo lasso di tempo – superiore a sei anni – intercorso tra la cessazione del rapporto e la contestazione della legittimità del termine con il deposito del ricorso di primo grado.

Il motivo è infondato.

Come ripetutamente affermato da questa Corte, “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (ex plurimis: Cass. 10-11-2008 n. 26935, Cass. 28-9-2007 n. 20390, Cass. 17-12-2004 n. 23554, Cass. 18-11-2010 n. 23319, Cass. 11-3-2011 n. 5887, Cass. 4-8-2011 n. 16932, da ultimo, Cass. n.ri 3924, 4181, 7282, 7630, 7772, 7773, 13538, 14818/2015, nonchè Cass. 14809/2015).

Va ulteriormente confermato tale indirizzo consolidato, basato in sostanza sulla necessaria valutazione dei comportamenti e delle circostanze di fatto, idonei ad integrare una chiara manifestazione consensuale tacita di volontà in ordine alla risoluzione del rapporto, non essendo all’uopo sufficiente il semplice trascorrere del tempo e neppure la mera mancanza, seppure prolungata, di operatività del rapporto.

Al riguardo, infatti, non può condividersi il diverso indirizzo che, valorizzando esclusivamente il “piano oggettivo” nel quadro di una presupposta valutazione sociale “tipica” (v. Cass. 6-7-2007 n. 15264 e da ultimo Cass. 5-6-2013 n. 14209), prescinde del tutto dal presupposto che – come è stato chiarito da Cass. 28-12014 n. 1780 – “la risoluzione per mutuo consenso tacito costituisce pur sempre una manifestazione negoziale che in quanto tale, seppure tacita, non può essere configurata su un piano esclusivamente oggettivo. D’altra parte, il mero decorso del tempo e la mera inerzia del lavoratore costituiscono un semplice fatto che, al di fuori delle ipotesi tipiche fissate dalla legge, di per sè è irrilevante. Nè può essere sufficiente al fine della risoluzione del rapporto per mutuo consenso tacito la mera cessazione della funzionalità di fatto del rapporto stesso, tanto più che nel rapporto di lavoro possono anche intervenire numerose ipotesi di sospensione, previste dalla legge o derivanti dalla volontà delle parti (v. fra le altre Cass. 7-7-1998 n. 6615)”. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione dei rapporto per mutuo consenso (v. Cass. 1511-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887), mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro (v. Cass. 2-12-2002 n. 17070 e fra le altre da ultimo Cass. 1/2/2010 n. 2279, Cass. 15-11-2010 n. 23057, Cass. 11-3-2011 n. 5887).

Nella fattispecie di causa la Corte di merito ha correttamente applicato i sopra indicati principi ritenendo irrilevanti circostanze di fatto, quali il decorso di meno di cinque anni tra la cessazione del contratto a termine e la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione e la percezione del TFR, che non sono idonee alla prova del mutuo consenso sullo scioglimento del contratto.

Va in questa sede ribadito che il decorso del tempo è indice presuntivo di una volontà negoziale di risoluzione del rapporto di lavoro soltanto in presenza di altre circostanze di fatto univoche e convergenti in tal senso.

La percezione del TFR non è elemento significativo e concludente: tale condotta non esprime il consenso alla cessazione del rapporto di lavoro ma piuttosto l’adeguamento delle parti alla formale scadenza del termine apposto; la ricezione del TFR, poi, non è comportamento incompatibile con la volontà di impugnare il contratto, ben potendo rispondere piuttosto – alla esigenza di mantenimento del lavoratore nel momento in cui è venuto meno il reddito da lavoro.

Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente, attenendo entrambi alla statuizione di invalidità della clausola del termine.

2. Con il secondo motivo la società Poste Italiane lamenta- ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697c.c., nonchè – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – omessa insufficiente e contraddittoria motivazione.

Censura la sentenza per avere affermato che era rimasto inadempiuto l’onere di Poste Italiane di provare la ricorrenza in concreto della causale sostitutiva, in quanto la prova aveva consentito unicamente di accertare la assenza della dipendente Bi. per maternità (e non anche la sua sostituzione ad opera del B.).

La ricorrente assume di avere assolto al proprio onere con la prova della assenza della dipendente Bi.; la circostanza che il B. fosse stato assegnato o meno alle mansioni proprie della Bi. era invece irrilevante giacchè il datore di lavoro nell’esercizio della propria discrezionalità organizzativa ben avrebbe potuto assumere il dipendente a termine in ragione della assenza della Bi. e, successivamente, impiegarlo in mansioni diverse.

3. Con il terzo motivo la società deduce – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – violazione falsa applicazione della L. n. 56 del 1987, art. 23, L. n. 230 del 1962, art. 1, comma 2 e degli artt. 1362 c.c. e segg., nonchè omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

La censura si riferisce, per errore materiale, ad una ipotesi di assunzione a termine – ex art. 8 CCNL 1994 – per far fronte alla necessità di espletamento del servizio di recapito in concomitanza di assenze per ferie ed alla assunzione di tale signor D. in mancanza della indicazione dei dipendenti sostituiti e della durata della sostituzione (così nel motivo).

I due motivi sono inammissibili per difetto di interesse della parte ricorrente.

Ove la sentenza impugnata sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l’omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, che, divenuta definitiva l’autonoma motivazione non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l’annullamento della sentenza (ex plurimis: Cassazione civile, sez. lav., 11/02/2011, n. 3386; sez. III, 20/11/2009, n. 24540; Cass. 11 gennaio 2007 n. 389; Cass. 18 settembre 2006 n. 20118). Nella fattispecie di causa la Corte territoriale è pervenuta alla dichiarazione di nullità della clausola del termine sotto un duplice e concorrente ordine di ragioni:

La inammissibilità dei motivi di appello, in quanto non conferenti alla ratio decidendi della sentenza di primo grado, fondata sul difetto di prova della effettiva sostituzione della dipendente BI. in maternità;

In ogni caso, la correttezza nel merito della statuizione.

Il primo motivo della decisione, di rilievo pregiudiziale, non è stato investito dai motivi di ricorso articolati in questa sede ed è pertanto divenuto definitivo.

Esso ha rilevanza autonoma rispetto all’accertamento, nel merito, della assenza della ragione sostitutiva ed anzi in sè preclusiva dello stesso esame di merito.

4. Con il quarto motivo la società lamenta – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4 – violazione e falsa applicazione di norme di diritto omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

Il motivo investe la pronunzia sulla domanda di risarcimento del danno.

La ricorrente censura la mancanza di prova del danno; assume che la costituzione in mora non può essere integrata dalla richiesta del tentativo di conciliazione,contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte territoriale.

Denunzia la erroneità della motivazione in punto di mancata detrazione dal danno dell’ aliunde perceptum.

Da ultimo deduce il contrasto della statuizione con lo ius superveniens di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32.

Il motivo è fondato nei sensi di cui segue.

Appare assorbente la censura con cui si invoca la applicazione dello ius superveniens.

Come definitivamente chiarito dalle sezioni Unite di questa Corte nell’arresto del 27/10/2016 n. 21691 l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere interpretato nel senso che la violazione di norme di diritto può concernere anche disposizioni emanate dopo la pubblicazione della sentenza impugnata, qualora siano applicabili al rapporto dedotto in giudizio perchè dotate di efficacia retroattiva, come la norma di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32; in tal caso è ammissibile il ricorso per cassazione per violazione di legge sopravvenuta.

Tale ricorso incontra il limite del giudicato; tuttavia se la sentenza si compone di più parti connesse tra loro in un rapporto per il quale l’accoglimento dell’impugnazione nei confronti della parte principale determinerebbe necessariamente anche la caducazione della parte dipendente, come nel caso del rapporto esistente tra la statuizione di invalidità della clausola del termine e le statuizioni economiche consequenziali la impugnazione proposta nei confronti della prima principale impedisce il passaggio in giudicato anche della parte dipendente, pur in assenza di impugnazione specifica di quest’ultima.

La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata in accoglimento del quarto motivo e gli atti rinviati ad altro giudice che si individua nella Corte di appello di Firenze in diversa composizione affinchè provveda a rinnovare il giudizio sul danno in applicazione dello ius superveniens.

Il giudice del rinvio provvederà anche alla disciplina delle spese del presente grado.

PQM

La Corte accoglie il motivo relativo alla applicazione dello ius superveniens L. n. 183 del 2010, ex art. 32. Rigetta gli altri.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 7 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 14 marzo 2017

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