Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6536 del 28/02/2022

Cassazione civile sez. I, 28/02/2022, (ud. 07/07/2021, dep. 28/02/2022), n.6536

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 471/2021 proposto da:

B.V.A., quale nonna materna della minore

M.A.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via L. Settembrini

n. 28, presso lo studio dell’avvocato Morcavallo Ulpiano, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Morcavallo Francesco,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.M.T., nella qualità di curatore speciale della

minore M.A.M., elettivamente domiciliata in Roma Via

Carlo Poma n. 4, presso il proprio studio, rappresentata e difesa da

sé medesima;

– controricorrente –

contro

M.S., Procuratore Generale presso la Corte di Appello di

Roma, Sindaco di Roma Capitale;

– intimati –

avverso la sentenza n. 5780/2020 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

pubblicata il 23/11/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

07/07/2021 dal cons. Dott. DI MARZIO MAURO.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. – B.V.A. ricorre per tre mezzi, nei confronti di M.S., di G.M.T., nella qualità di curatrice speciale della minore M.A.M., nonché di R.R., nella qualità di tutore della medesima minore, e del pubblico ministero, contro la sentenza del 23 novembre 2020 con cui la Corte d’appello di Roma, sezione minorenni, ha respinto gli appelli di essa B.V.A. e di M.S. contro sentenza del locale Tribunale che aveva dichiarato lo stato di adottabilità della minore e vietato i contatti tra questa ed i parenti, disponendo il suo collocamento provvisorio in una famiglia a scopo adottivo.

2. – G.M.T., nella indicata qualità, resiste con controricorso.

Gli altri intimati non spiegano difese.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

3. – Il ricorso contiene i seguenti motivi.

Primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: Violazione ovvero falsa o comunque erronea applicazione della L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 8,10 e 12 anche in relazione all’art. 8 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali recepita ex lege, atteso che la dichiarazione di adottabilità è stata pronunciata a seguito di una mera valutazione di personalità della nonna materna – con particolare riguardo alla sua opinione in merito allo stato psicopatologico della figlia e a sue manifestazioni di dissenso rispetto agli interventi degli operatori assistenziali – e della considerazione critica di episodiche situazioni di asserita difficoltà accuditiva (peraltro senza che l’interazione con la nipote sia mai stata osservata in sede di consulenza), essendosi dunque provveduto e deciso in base a circostanze non sussumibili né nella nozione normativa di abbandono materiale o morale, né in quella, enucleata dalla giurisprudenza di legittimità, di obiettiva e sperimentata impossibilità di accudimento del minorenne ad opera dell’ascendente. Secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: Violazione ovvero falsa e comunque erronea applicazione della L. n. 184 cit., art. 1 e 12 anche in relazione all’art. 8 della Convenzione E.D.U. cit., con riferimento all’interruzione degli incontri tra la bambina e la nonna, che nella motivazione della sentenza gravata è incongruamente considerata quale necessaria misura al fine di consentire l’inserimento più agevole della bambina nel percorso adottivo.

Terzo motivo, formulato – in via subordinata rispetto ai motivi anteriori – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4: Nullità della sentenza d’appello, riveniente dalla violazione dell’art. 115 disp. att. c.p.c., comma 2 e degli art. 111 e 115 c.p.c., anche in relazione all’art. 24 Cost. e art. 111 Cost., comma 1, e all’art. 6 della Convenzione E.D.U. cit., atteso che, in violazione dei principi di effettività della difesa e del contraddittorio, quali connotati del giusto processo, e in esorbitanza rispetto al corretto esercizio dei poteri di formazione e apprezzamento della prova, non è stata rinnovata l’attività istruttoria invalidamente compiuta dal giudice di primo grado, il quale aveva compiuto l’audizione in udienza del consulente tecnico d’ufficio a chiarimenti in ordine al metodo e agli esiti della consulenza, senza la presenza del difensore dell’odierna ricorrente, pur a fronte di documentato impedimento e dell’evidente impossibilità di sostituzione in un’attività istruttoria comportante l’approfondita conoscenza della relazione di consulenza e dei fatti di causa, fermo restando che neppure la sostituzione poteva essere svolta dal difensore della madre della bambina, patrocinatore di una parte in posizione processuale almeno potenzialmente e parzialmente incompatibile con quella della ricorrente odierna; ne è così derivata una menomazione rispetto al diritto di difesa della parte assistita, in relazione all’egenza di approfondimento, a cura del difensore, delle lacune caratterizzanti il metodo e il contenuto della relazione di consulenza, i cui esiti hanno poi costituito in modo esclusivo e comunque preponderante la base dell’erronea decisione.

4. – Il ricorso è fondato.

4.1. – Va accolto il primo motivo.

La giurisprudenza di questa Corte è ferma nel ribadire che il prioritario diritto fondamentale del figlio di vivere, nei limiti del possibile, con i suoi genitori e di essere allevato nell’ambito della propria famiglia, sancito dalla L. n. 184 del 1983, art. 1 impone particolare rigore nella valutazione dello stato di adottabilità, ai fini del perseguimento del suo superiore interesse. Quel diritto può essere perciò limitato solo ove si configuri un endemico e radicale stato di abbandono – la cui dichiarazione va reputata, alla stregua della giurisprudenza costituzionale, della Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di giustizia, come extrema ratio – a causa dell’irreversibile incapacità dei genitori di allevarlo e curarlo per loro totale inadeguatezza. In particolare, il ricorso alla dichiarazione di adottabilità di un figlio minore è consentito solo in presenza di fatti gravi, indicativi in modo certo dello stato di abbandono, morale e materiale, che devono essere specificamente dimostrati in concreto, senza possibilità di dare ingresso a giudizi sommari di incapacità genitoriale non basati su precisi elementi idonei a dimostrare un reale pregiudizio per il figlio (Cass. 13 gennaio 2017, n. 782; Cass. 30 giugno 2016, n. 13435).

Nella verifica dello stato di abbandono, d’altronde, non può mancarsi di considerare la seria disponibilità dei parenti a prendersi cura del minore, se concretamente accertata e verificata, la quale può valere ad integrare il presupposto giuridico per escludere lo stato di abbandono (Cass. 24 novembre 2015, n. 23979, concernente i nonni paterni; con riguardo al rapporto coi nonni v. pure la già citata Cass. 13 gennaio 2017, n. 782).

E cioè, in tema di dichiarazione dello stato di adottabilità di un minore, ove i genitori siano considerati privi della capacità genitoriale, la natura personalissima dei diritti coinvolti e il principio secondo cui l’adozione ultrafamiliare costituisce l’extrema ratio impongono di valutare anche le figure vicariali dei parenti più stretti, che abbiano rapporti significativi con il bambino e si siano resi disponibili alla sua cura ed educazione. Tale valutazione richiede che un giudizio negativo su di essi possa essere formulato solo attraverso la considerazione di dati oggettivi, quali le osservazioni dei servizi sociali che hanno monitorato l’ambito familiare o eventualmente il parere di un consulente tecnico (Cass. 16 febbraio 2018, n. 3915).

Nello scrutinare la sussistenza dei presupposti per la dichiarazione di adottabilità, del resto, il giudice deve accertare la sussistenza dell’interesse del minore a conservare il legame con i suoi genitori biologici, pur se deficitari nelle loro capacità genitoriali, perché l’adozione legittimante costituisce – alla luce dell’espressione costantemente impiegata in proposito, cui già si è fatto cenno – una extrema ratio alla quale può pervenirsi quando non si ravvisi tale interesse, considerato che nell’ordinamento coesistono sia il modello di adozione fondato sulla radicale recisione dei rapporti con i genitori biologici, sia modelli che escludono tale requisito e consentono la conservazione del rapporto, quali le forme di adozione disciplinate dalla L. n. 184 del 1983, artt. 44 e ss. e in particolare l’art. 44, lett. d). (Cass. 13 febbraio 2020, n. 3643).

Tali principi la Corte territoriale ha violato, concludendo per l’adattabilità attraverso la valorizzazione, nei riguardi dell’odierna ricorrente, di elementi che con lo stato di abbandono non hanno in realtà nulla a che vedere, ma che non palesano nient’altro che un giudizio di disvalore sulla capacità della B.V.A. di occuparsi non già della bambina, bensì di governare il rapporto con la propria figlia M.S., che della bambina è madre.

La sentenza impugnata, in particolare, si sofferma sulla disponibilità della B.V.A. alle pagine 14-17, ove si evidenzia che la donna manifesterebbe “difficoltà a contenere la figlia” a sua volta affetta da non meglio identificate “manifestazioni di rilevanza psichiatrica”, con diagnosi di “SMI (Severe Mental Illness)” (così a pagina 12 della sentenza), diagnosi che, in effetti, racchiude patologie diverse ed eterogenee, quali depressione maggiore, schizofrenia, disturbo bipolare, disturbo post traumatico da stress ed altro.

Per la Corte d’appello la conferma dello stato di abbandono troverebbe fondamento della circostanza che la ricorrente “asseconda in tutto la figlia e non la contraddice mai”, “giustifica, sempre, le assenze di S.”, il tutto in una situazione di “mancanza del riconoscimento da parte dei familiari più vicini a S. delle problematiche e dei disagi della stessa”, tanto da essere giunta ad affermare che S. “forse ha dei problemi, ma è in miglioramento e vuole studiare”; B.V.A. avrebbe per di più smentito “costantemente i servizi sociali, le operatrici della casa famiglia, i sanitari dell’ospedale dove è nata A., quando riferiscono delle condotte gravemente inappropriate della figlia, che vengono sistematicamente negate o giustificate”, e via con considerazioni dello stesso tenore.

Siffatte considerazioni, secondo la Corte d’appello, troverebbero conferma nella consulenza tecnica d’ufficio espletata, dalla quale era emersa una “scarsa capacità di mentalizzazione, l’assenza di consapevolezza delle entità della malattia mentale della figlia, la superficialità relazionale e lo scarso assetto empatico circa i bisogni reali e le esigenze della nipote e di S.”. Sarebbe poi rilevante anche “l’atteggiamento diffidente poco collaborativo tenuto dalla parte nel corso della consulenza”, consulenza la quale aveva posto in evidenza “criticità con riguardo alla funzione di accudimento e guida della minore”, carente “per quanto riguarda la capacità di riconoscere e mentalizzare i bisogni psicologici ed evolutivi della bambina”.

Orbene, siffatte considerazioni, talora fumose, sono in effetti prive di collegamenti con serie e consistenti circostanze specifiche, concernenti l’attitudine della nonna ad occuparsi della nipote.

Ed invero, i fatti in concreto addebitati alla ricorrente, il cui rapporto con la minore, tra l’altro, non è stato direttamente esaminato dal consulente tecnico d’ufficio, perché “supervisionato e riportato dal servizio sociale nelle relazioni in atti”, sono in buona sostanza i seguenti: “quando si è avvicinata per aiutarla a calmare la bambina che piangeva spaventata S. la ha allontanata togliendole la mano bruscamente e la B. si è ritirata; più volte ci ha detto che la figlia è innocua mentre S. alzava la voce contro di noi”; “appare molto contrariata perché dopo la nascita di A. i sanitari hanno fatto firmare a S. l’autorizzazione a somministrarle le terapie antiretrovirali “mentre stava dormendo”, preoccupandosi più del dissenso della figlia che della salute della nipote”; “durante un lieve malessere della nipote ha reagito al suo pianto con una sorta di paralisi, senza sapere gestire la situazione, allarmandosi poi in modo eccessivo in un’altra occasione nella quale la piccola stava mettendo dei sassolini in bocca”. Nulla, dunque, fin qui, che abbia seriamente a che vedere con una irreversibile incapacità di allevare e curare il minore per totale inadeguatezza. In realtà, l’unico episodio significativo, certo non commendevole, che parrebbe addebitabile anche alla ricorrente, attiene alla circostanza che ella non avrebbe riferito ai sanitari presenti al momento del parto della figlia M.S., che quest’ultima era affetta da infezione da Hiv, così da mettere a repentaglio tanto la salute dei sanitari, quanto quella della nascitura. Ma non è dato comprendere come questa circostanza, di per sé considerata, per quanto censurabile, possa essere giudicata indicativa dello stato di abbandono, tanto più che la stessa sentenza impugnata da atto che la ricorrente è “indubitabilmente affezionata alla nipote”.

Sicché è ineluttabile la cassazione della sentenza con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, che si atterrà ai principi dianzi indicati e provvederà anche sulle spese di questo giudizio di legittimità.

4.2. – Gli altri motivi sono assorbiti.

P.Q.M.

accoglie il primo motivo, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia anche per le spese alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2022

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