Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 653 del 12/01/2017

Cassazione civile, sez. II, 12/01/2017, (ud. 15/09/2016, dep.12/01/2017),  n. 653

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PARZIALE Ippolisto – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10771-2012 proposto da

C.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA L. CARO 62,

presso lo studio dell’avvocato SIMONE CICCOTTI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MARIA ELENA CINANNI;

– ricorrente –

contro

ISMAS SNC, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO CESI 21,

presso lo studio dell’avvocato SALVATORE TORRISI, rappresentato e

difeso dall’avvocato CLAUDIA VIRGADAVOLA;

– controricorrente –

e contro

R.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 11

PAL H-3, presso lo studio dell’avvocato LUISA FONTI, rappresentata e

difesa dall’avvocato NICOLA MONTELEONE;

– resistente –

avverso il provvedimento n. 315/2C11 della CORTE D’APPELLO di REGGIO

CALABRIA, depositata il 12/12/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/09/2016 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE GRASSO;

uditi gli Avvocati CINANNI Maria Elena, CICCOTTI Simone, difensori

del ricorrente che ha chiesto di riportasi agli atti;

udito l’Avvocato FONTI Luisa difensore della resistente che ha

chiesto di riportasi agli atti;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SGROI Carmelo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Locri, con sentenza depositata il 25/6/2004, accertati i vizi di una fornitura di marmo del tipo granito, condannò R.C. a risarcire il danno in favore dell’acquirente C.G., rigettando al contempo la domanda di garanzia spiegata dalla convenuta nei confronti della s.n.c. ISMAS, che aveva approvvigionato del materiale la R., secondo la prospettazione difensiva di quest’ultima.

Proposto appello, la R., e appello incidentale, il C., la Corte di Reggio Calabria, con sentenza depositata il 12/12/2011, accolto l’appello principale, rigettò le domande proposte dal C., il cui appello incidentale, inoltre, disattese.

Con ricorso del 19/4/2012 il C. chiede l’annullamento della sentenza d’appello.

La R. resiste con memoria del 18/6/2012 e la ISMAS, con controricorso del 24/5/2012.

Il C. deposita memoria con la quale insiste nelle proprie difese.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1495 c.c., comma 2, e art. 329 c.p.c., comma 2.

Assume il ricorrente che il compratore non era decaduto dalla garanzia per i vizi, poichè la venditrice li aveva espressamente riconosciuti: dopo che in primo grado aveva, sia pure genericamente, contestato il vizio, in appello aveva omesso di riproporre la difesa, facendo, così, acquiescenza (art. 329 c.p.c.); inoltre, nel corso del giudizio di primo grado, nel corso delle operazioni peritali, il rappresentante della R. aveva riconosciuto i difetti della pavimentazione.

La censura è destituita di giuridico fondamento.

L’esonero dall’onere di tempestiva denunzia disegnato dall’art. 1495, c.c., comma 2, trova fondamento nella conclamata inutilità della stessa, avendo il venditore già riconosciuto l’esistenza del vizio o (nel caso che qui non rileva) ove il vizio sia stato occultato da costui.

Trattasi di un vicenda che si svolge ben anteriormente all’inizio del contenzioso giudiziario e che trova la sua ragion d’essere nella condotta dei contraenti nella esecuzione del contratto.

Senza che occorra sindacare la reale consistenza ed imputabilità del preteso riconoscimento che qui sarebbe stato operato nel corso di causa, risulta del tutto evidente che un tale atto, salvo il valore di non contestazione o, addirittura, di ammissione processuale dell’esistenza del vizio, non può vanificare l’effetto preclusivo dell’intervenuta decadenza.

Tantomeno può assegnarsi valenza di acquiescenza sul punto della eccepita decadenza, ma, semmai, su quello della esistenza del vizio.

Con il secondo ed il terzo motivo il C. deduce contraddittorietà e insufficiente motivazione a riguardo di un punto decisivo e controverso; nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 1495 c.c..

Secondo l’assunto impugnatorio la Corte reggina aveva errato nell’escludere di trovarsi in presenza di vendita di aliud pro alio, che non soffre il termine decadenziale di cui all’art. 1495 c.c.. Con argomentare illogico la Corte di merito, pur riscontrato, sulla base delle conclusioni del CTU, la mancanza di qualità, aveva escluso “una diversità di genere ovvero un’assoluta inidoneità funzionale del materiale fornito”. Per contro, non solo i manufatti in pietra erano difformi dall’ordinato e del tutto inidonei all’uso, ma trattavasi di diorite e non di granito, che non poteva essere destinata per ragioni di estetica e di statica allo scopo convenuto (sul punto, rileva il ricorrente le conclusioni di cui alla perizia giurata di parte avevano trovato sostanziale convalida nella relazione del CTU). Inoltre, le valutazioni del CTU erano rimaste non contestate dalla R., trovando, peraltro, conferma nelle difese della ISAMAS, la quale aveva escluso di aver venduto alla R. simile materiale.

Il difetto d’inquadramento giuridico deriva dal fatto, precisa ulteriormente il ricorrente, che la res ceduta appartiene ad un genus del tutto diverso, non potendo assolvere alla propria funzione naturale a cagione delle gravi e radicali difformità; situazione, questa, affatto diversa da quella nella quale la presenza di vizi non impedisce la funzionalità del bene. Nel caso alla mano, invece, il CTU aveva espressamente escluso l’utilizzabilità del materiale, che imponeva la rimozione totale della pavimentazione.

La Corte non condivide l’assunto.

In sede di legittimità si è reiteratamente chiarito, anche di recente, che i vizi redibitori e la mancanza di qualità, le cui azioni sono soggette ai termini di prescrizione e decadenza ex art. 1495 c.c., si distinguono dall’ipotesi di consegna di “aliud pro alio”, che dà luogo ad una ordinaria azione di risoluzione contrattuale svincolata dai termini predetti, e che ricorre quando il bene consegnato sia completamente diverso da quello venduto, perchè appartenente ad un genere differente da quello posto a base della decisione del compratore di effettuare l’acquisto, oppure con difetti che gli impediscono di assolvere alla sua funzione naturale o a quella concreta assunta come essenziale dalle parti, facendola degradare in una sottospecie affatto dissimile da quella dedotta in contratto (Sez. 1, n. 2313 del 05/02/2016, Rv. 638698; Sez. 2, n. 6596 del 5/4/2016, Rv. 639637). In definitiva, occorre aver riguardo all’idoneità del bene ad assolvere la funzione economico-sociale assunta come essenziale dalle parti (Sez. 2, n. 28419 del 19/12/2013, Rv. 629238).

Facendo corretta applicazione di tali principi la Corte di merito, sulla base della svolta CTU, pur evidenziando i rilevanti vizi del materiale fornito, ha, con motivazione in questa sede non censurabile, escluso che la partita di granito presentasse qualità e caratteristiche tali da doversene inferire la non appartenenza funzionale o di genere al bene compravenduto. Trattasi di motivazione, quanto alle valutazioni di fatto in questa sede non censurabile, che ha ragionevolmente escluso che il materiale alienato dovesse considerarsi del tutto inutilizzabile o, comunque, non destinato alla funzione propria assegnatagli dalle parti con il negozio di compravendita (pavimentazione).

Con il quarto motivo, denunziante violazione e falsa applicazione degli artt. 1490 e 1495 c.c., del D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 132 (codice del consumo), che aveva novellato l’art. 1519 c.c., il ricorrente deduce non esservi dubbio che l’acquirente doveva qualificarsi consumatore e, pertanto, il caso ricadeva sotto il regime derogatorio a lui più favorevole, incidente sull’onere della prova e, pertanto immediatamente applicabile in quanto regola processuale sopravvenuta.

Trattasi di censura manifestamente priva di giuridico fondamento.

Il cd. codice del consumo ed in particolare l’art. 132 di quel corpo normativo, novellando l’art. 1519 c.c., introduce una nuova regolamentazione sostanziale del rapporto che si instaura tra il produttore, costruttore, o venditore professionale e l’acquirente consumatore. Regolamentazione, ovviamente, che non può valere che per l’avvenire, cioè per i contratti stipulati successivamente alla sua entrata in vigore. La circostanza che l’introdotto regime, più favorevole per la parte debole, si traduca in conseguenze riguardanti l’onere della prova non ne muta di certo la natura: non trattasi di norma che regola il processo, bensì di norma sostanziale che, nel regolare determinati rapporti negoziali, ne redistribusce l’onere della prova.

Con il quinto ed il sesto motivo il ricorrente si duole della insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto controverso e decisivo.

La Corte di merito aveva disarticolato il ragionamento probatorio del Tribunale, negando essere rimasta provata la tempestività della denunzia dei vizi. La nuova ed opposta valutazione delle prove testimoniali contrastava con l’evidenza probatoria: costituiva una mera illazione l’affermazione secondo la quale la scoperta del vizio aveva preceduto di almeno quindici – venti giorni il 2/9/1991 (giorno della denunzia). Illazione illogica e contraddittoria poichè ingiustificatamente in contrasto con le conclusioni del CTU (per il quale solo a lucidatura completata sarebbe stato possibile rendersi conto dei vizi). Il C. non aveva mai sostenuto che il 2/9/1991 fosse il giorno d’inizio della levigatura, ma che la stessa era in corso, mancando ancora “due passate”. Poichè, per pacifica interpretazione giurisprudenziale solo allorquando il compratore abbia piena consapevolezza dei vizi può ritenersi che inizi a decorrere il termine decadenziale, il ragionamento della Corte territoriale meritava censura.

Lo stesso rappresentante della R. (il di lei marito), nel corso delle operazioni peritali, aveva ammesso che i vizi non potevano essere riscontrati prima della lucidatura.

Di poi, al contrario di quanto affermato in sentenza, le dichiarazioni testimoniali di L.F. e A. e d.A.B. avevano formato oggetto di contestazione da parte del ricorrente.

La doglianza è infondata.

Occorre premettere, come più volte riaffermato in questa sede, che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo modificato dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2 prima dell’ulteriore modifica di cui al D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, applicabile “ratione temporis”), il quale implica che la motivazione della “quaestio facti” sia affetta non da una mera contraddittorietà, insufficienza o mancata considerazione, ma che si presentasse tale da determinarne la logica insostenibilità (cfr., Sez. 3, n. 17037 del 20(8(2015, Rv. 636317). Con l’ulteriore corollario che il controllo di legittimità del giudizio di fatto non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che una simile revisione non sarebbe altro che un giudizio di fatto e si risolverebbe in una nuova formulazione, contrariamente alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità. Con la conseguenza che risulta del tutto estranea all’àmbito del vizio di motivazione ogni possibilità per la Corte di cassazione di procedere ad un nuovo giudizio di merito attraverso l’autonoma, propria valutazione delle risultanze degli atti di causa (cfr. Sez. 6, ord. n. 5024 del 28/3/2012, Rv. 622001). Da qui la necessità che il ricorrente specifichi il contenuto di ciascuna delle risultanze probatorie (mediante la loro sintetica, ma esauriente esposizione e, all’occorrenza integrale trascrizione nel ricorso) evidenziando, in relazione a tale contenuto, il vizio omissivo o logico nel quale sia incorso il giudice del merito e la diversa soluzione cui, in difetto di esso, sarebbe stato possibile pervenire sulla questione decisa (cfr. Sez. 5, n. 1170 del 23/1/2004, Rv. 569607).

Il ricorrente, infatti, pur enunciando di volere denunziare la insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine a fatto decisivo, contesta, peraltro senza confrontarsi con la motivazione della sentenza censurata, la valutazione del materiale probatorio, così proponendo, in definitiva, una rilettura di fatto inammissibile in sede di legittimità.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare ai resistenti le spese di giudizio, liquidate, per ciascuno d’essi, in 200 Euro per esborsi e in 2.000 Euro per compensi, con gli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 settembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2017

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