Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6517 del 09/03/2020

Cassazione civile sez. I, 09/03/2020, (ud. 08/01/2020, dep. 09/03/2020), n.6517

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – rel. Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5674/2019 proposto da:

D.I., domiciliato in Roma, piazza Cavour, presso la

Cancelleria civile della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Giovanbattista Scordamaglia in forza di procura

speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1491/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 25/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/01/2020 dal Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI;

udito l’Avvocato GIOVANBATTISTA SCORDAMAGLIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale ALBERTO

CARDINO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 D.I., cittadino del Mali, ha adito il Tribunale di Catanzaro, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il ricorrente aveva riferito di essere nato a (OMISSIS) ove aveva sempre vissuto a sino al 15/2/2012, quando aveva lasciato il Paese per timore delle ritorsioni patite dai propri familiari; che in particolare suo padre aveva cercato di costringerlo a sposare una ragazza gravemente malata; che al suo rifiuto lo aveva aggredito con violenza, provocandogli le lesioni di cui alle cicatrici portate al piede e al ginocchio e quindi lo aveva cacciato di casa, lasciandolo anche senza lavoro; di aver chiesto inutilmente supporto alle forze di polizia che si erano rifiutate di intervenire ritenendo la vicenda meramente privatistica.

Con ordinanza del 9/10/2015 il Tribunale di Catanzaro ha respinto il ricorso, ritenendo che non sussistessero i presupposti per il riconoscimento di ogni forma di protezione internazionale e umanitaria.

2. L’appello proposto da D.I. è stato rigettato dalla Corte di appello di Catanzaro, a spese compensate, con sentenza del 25/7/2018.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso D.I., con atto notificato il 20/2/2019, svolgendo un motivo. L’intimata Amministrazione dell’Interno non si è costituita.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 3 e art. 14, lett. c), con riferimento alla situazione di violenza indiscriminata esistente in (OMISSIS).

1.1. Il ricorrente aveva dichiarato di provenire dalla regione di (OMISSIS), ritenuta dalla stessa Corte di appello area ad alto coefficiente di pericolosità, come confermavano le deduzioni del ricorrente e gli atti processuali.

Vi era pertanto una forte contraddizione fra la situazione del Paese e in particolare della zona di (OMISSIS), descritta dalla Corte territoriale e l’esclusione del pericolo di esposizione a violenza indiscriminata rilevante ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

Quanto al dubbio circa la regione di provenienza, il ricorrente non era stato ascoltato nè dal Tribunale, nè dalla Corte di appello, ma solo dalla Commissione in data 7/10/2015, laddove aveva escluso di aver mai avuto documenti di riconoscimento e aveva dichiarato di non aver nulla da mostrare; non vi era alcuna allegazione da cui evincere, come aveva fatto la Corte di appello che il ricorrente avesse depositato delle copie di documenti in sede di audizione e che non avesse chiarito la loro provenienza.

La provenienza del ricorrente da (OMISSIS) non era mai stata messa in discussione nè dalla Commissione Territoriale nè dal Giudice di primo grado. Tale provenienza risultava dal mod.c3 contenuto nel fascicolo di primo grado.

2. Il ricorso è fondato e va accolto.

2.1. La stessa Corte di appello catanzarese, come sottolinea puntualmente il ricorrente, sulla base delle fonti internazionali consultate, del resto in sintonia con le allegazioni del ricorrente, con ampi stralci di motivazione, ha ritenuto che la regione di (OMISSIS) fosse attualmente caratterizzata da un pericolo di esposizione ad atti di violenza indiscriminata per la popolazione civile, nonostante il pattugliamento esercitato dal contingente armato internazionale Minusma, scaturente dalle attività di formazioni terroristiche di matrice islamica e di bande armate comuni e dalla conflittualità fra le diverse etnie (pag. 5, 6 e 7 della sentenza impugnata).

2.2. Ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. g) la persona ammissibile alla protezione sussidiaria è il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, o, nel caso di un apolide, se ritornasse nel Paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal presente decreto e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese.

Ai sensi dell’art. 14, comma 1, lett. c) ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, è considerato danno grave la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale.

La norma nazionale recepisce puntualmente le disposizioni di cui all’art. 15 della Direttiva 29/04/2004 n. 83, 2004/83/CE, ora sostituita, senza rilevanti modifiche sul punto dalla Direttiva 13/12/2011 n. 95, 2011/95/CE.

Al proposito la Corte di Giustizia con la sentenza 17/02/2009, n. 465 (caso Elgafaji) ha dapprima affermato che nei casi di violenza indiscriminata nel Paese di origine causata da un conflitto armato, colui che richiede la protezione sussidiaria in uno Stato membro non deve provare di essere minacciato personalmente, proprio a causa dell’eccezionalità della situazione, che di per sè fa supporre l’esistenza di un rischio effettivo per l’individuo di subire minacce gravi e individuali, nel caso di rientro nello Stato di origine, proprio a causa dell’elevato livello di violenza.

Quindi la Corte con la sentenza 30/01/2014, n. 285 (caso Diakitè) ha chiarito che il danno definito all’art. 15, lett. c), della direttiva è costituito da una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale e ha precisato che il legislatore dell’Unione ha utilizzato l’espressione “conflitto armato interno o internazionale”, che differisce dalle nozioni poste a fondamento del diritto internazionale umanitario, che invece distingue, da un lato, i “conflitti armati internazionali” e, dall’altro, i “conflitti armati che non presentano carattere internazionale”.

Secondo i Giudici Europei, pertanto, il legislatore ha inteso concedere la protezione sussidiaria non soltanto in caso di conflitto armato internazionale e di conflitto armato che non presenta carattere internazionale così come definiti dal diritto internazionale umanitario, ma, altresì, in caso di conflitto armato interno, purchè questo sia caratterizzato dal ricorso ad una violenza indiscriminata. Ai fini dell’applicazione della direttiva non è necessario, perciò, che sussistano tutti i criteri ai quali si riferiscono l’art. 3 comune alle quattro Convenzioni di Ginevra e l’art. 1, par. 1, del II Protocollo aggiuntivo dell’8 giugno 1977, che sviluppa e integra tale articolo.

Infatti il diritto internazionale umanitario e il regime della protezione sussidiaria previsto dalla direttiva perseguono scopi diversi e istituiscono meccanismi di protezione chiaramente separati: il diritto internazionale umanitario tende a fornire una protezione alla popolazione civile nella zona di conflitto, mentre la direttiva si propone, stabilendo i casi in cui la protezione sussidiaria deve essere concessa dalle autorità competenti degli Stati membri, la tutela di civili che si trovano al di fuori della zona di conflitto e del territorio delle parti del conflitto.1

Ciò premesso, si deve intendere il termine “individuale” nel senso che esso riguarda danni contro civili a prescindere dalla loro identità, qualora il grado di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso, valutato dalle autorità nazionali competenti impegnate con una domanda di protezione sussidiaria o dai giudici di uno Stato membro ai quali viene deferita una decisione di rigetto di una tale domanda, raggiunga un livello così elevato che sussistono fondati motivi di ritenere che un civile rientrato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la minaccia grave di cui all’art. 15, lett. c), della direttiva.

Tale interpretazione, che può assicurare una propria sfera di applicazione all’art. 15, lett. c), della direttiva, non viene esclusa dal tenore letterale del suo ventiseiesimo “considerando”, secondo il quale “(i) rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave”.

Infatti, anche se tale “considerando” comporta che la sola dichiarazione oggettiva di un rischio legato alla situazione generale di un paese non è sufficiente, in linea di principio, a provare che le condizioni menzionate all’art. 15, lett. c), della direttiva sono soddisfatte in capo ad una determinata persona, la sua formulazione fa salva, utilizzando il termine “di norma”, l’ipotesi di una situazione eccezionale, che sia caratterizzata da un grado di rischio a tal punto elevato che sussisterebbero fondati motivi di ritenere che tale persona subisca individualmente il rischio in questione.

Il carattere eccezionale di tale situazione è confermato anche dal fatto che la protezione in parola è sussidiaria e dal sistema dell’art. 15 della direttiva, dato che i danni definiti alle lett. a) e b) di tale articolo presuppongono una chiara misura di individualizzazione. Anche se certamente è vero che elementi collettivi svolgono un ruolo importante ai fini dell’applicazione dell’art. 15, lett. c), della direttiva, nel senso che la persona interessata fa parte, come altre persone, di una cerchia di potenziali vittime di una violenza indiscriminata in caso di conflitto armato interno o internazionale, cionondimeno tale disposizione deve formare oggetto di un’interpretazione sistematica rispetto alle altre due situazioni ricomprese nel detto art. 15 della direttiva e deve essere interpretata quindi in stretta relazione con tale individualizzazione.

A tale proposito, si deve precisare che tanto più il richiedente è in grado di dimostrare di essere colpito in modo specifico a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale, tanto meno elevato sarà il grado di violenza indiscriminata richiesto affinchè egli possa beneficiare della protezione sussidiaria.

2.3. Il rigetto della domanda di protezione sussidiaria del D. sembra (per vero non del tutto chiaramente) dipendere dall’osservazione svolta dalla Corte di appello a pagina 11, con cui è stata messa in dubbio l’esatta provenienza del ricorrente dalla regione di (OMISSIS), interessata dal conflitto armato in corso.

2.4. Tale dubbio peraltro è stato espresso dalla Corte territoriale in modo perplesso e con riferimento alla mancanza di certezza dell’esatta provenienza, addossando indebitamente al richiedente asilo l’onere probatorio della veridicità delle sue dichiarazioni, non vagliate secondo i parametri normativi che disciplinano il procedimento di valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente asilo.

La valutazione della credibilità soggettiva del richiedente non può essere legata alla mera presenza di riscontri obiettivi di quanto da lui narrato, poichè incombe al giudice, nell’esercizio del potere-dovere di cooperazione istruttoria, l’obbligo di attivare i propri poteri officiosi al fine di acquisire una completa conoscenza della situazione legislativa e sociale dello Stato di provenienza, onde accertare la fondatezza e l’attualità del timore di danno grave dedotto (Sez. 6, 25/07/2018, n. 19716).

Il giudice deve tuttavia prendere le mosse da una versione precisa e credibile, se pur sfornita di prova, perchè non reperibile o non esigibile, della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine; le dichiarazioni del richiedente che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono un approfondimento istruttorio officioso (Sez. 6, 27/06/2018, n. 16925; Sez. 6, 10/4/2015 n. 7333; Sez. 6, 1/3/2013 n. 5224).

Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5 stabilisce che anche in difetto di prova, la veridicità delle dichiarazioni del richiedente deve essere valutata alla stregua dei seguenti indicatori: a) il compimento di ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda; b) la sottoposizione di tutti gli elementi pertinenti in suo possesso e di una idonea motivazione dell’eventuale mancanza di altri elementi significativi; c) le dichiarazioni del richiedente debbono essere coerenti e plausibili e non essere in contraddizione con le informazioni generali e specifiche pertinenti al suo caso, di cui si dispone; d) la domanda di protezione internazionale deve essere presentata il prima possibile, a meno che il richiedente non dimostri un giustificato motivo per averla ritardata; e) la generale attendibilità del richiedente, alla luce dei riscontri effettuati.

2.4. Nessuna valutazione è stata compiuta sulle specifiche dichiarazioni di provenienza territoriale del richiedente asilo, senza scrutinare la tempestiva indicazione contenuta nel mod.C3 e senza neppure considerare il fatto che la Commissione territoriale, organo amministrativo, dotato delle competenze tecniche anche per valutare la provenienza effettiva dei richiedenti protezione, non avesse affatto dubitato delle sue dichiarazioni al proposito; per giunta la Corte di appello si è sottratta al dovere di cooperazione istruttoria che le avrebbe imposto, se dubitava ex officio della provenienza effettiva del ricorrente dalla regione di (OMISSIS), di interrogarlo specificamente al proposito.

2.5. Le ulteriori affermazioni della Corte di appello, con cui ha evidenziato un contrasto fra la dichiarazione del richiedente di non aver mai posseduto documenti di identità e il deposito di mere copie nel corso della sua audizione personale, non accompagnato dal chiarimento sulla loro provenienza e sulle modalità di acquisita disponibilità, oltre che scarsamente perspicue, non è accompagnata da alcuna indicazione circa la fonte di tale assunto, contestato dal ricorrente che nega di aver mai prodotto alcun documento.

3. In ragione dell’accoglimento del motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata con il rinvio alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Catanzaro, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 8 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020

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