Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6506 del 17/03/2010

Cassazione civile sez. I, 17/03/2010, (ud. 27/01/2010, dep. 17/03/2010), n.6506

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. SALVATO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente del

Consiglio pro-tempore – domiciliato ex lege in Roma, via dei

Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, dalla quale

è rappresentata e difesa;

– ricorrente –

contro

D.D.T. – M.M.L. – D.V.;

– intimate –

avverso il decreto della Corte d’appello di Roma del 28 luglio 2006;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del

27 gennaio 2010 dal Consigliere Dott. Luigi Salvato;

P.M., S.P.G. Dr. GOLIA Aurelio.

 

Fatto

RITENUTO IN FATTO

Con decreto depositato il 28 luglio 2006, la Corte di Appello di Roma ha parzialmente accolto il ricorso proposto, ai sensi della L. n. 89 del 2001, da D.D.T.; M.M.L. e D. V., in ordine alla irragionevole durata del giudizio introdotto innanzi al TAR del Lazio, con atto del 12 gennaio 1999, e definito solo con sentenza del 21 novembre 2003.

La Corte territoriale, ritenuta la irragionevole durata del giudizio nella misura di 1 anno e 10 mesi, ha liquidato in Euro 1.800,00 il danno non patrimoniale.

Per la cassazione di detto decreto ha proposto ricorso per cassazione la Presidenza del Consiglio, sulla base di 2 motivi; non hanno svolto attività difensiva le intimate.

Ritenute sussistenti le condizioni per la decisione in Camera di consiglio è stata redatta relazione ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comunicata al Pubblico Ministero e notificata alle parti; ha depositato memoria l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- La relazione sopra richiamata ha il seguente tenore:

“Il ricorso (fondato sulla mancata valorizzazione, da parte della Corte territoriale, del fattore della consapevolezza della infondatezza della pretesa fatta valere nel giudizio presupposto) si rivela manifestamente infondato alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui (per tutte, v. S.U. Cass. 1338/04), in tema di equo indennizzo ex L. n. 89 del 2001, la sofferenza da irragionevole durata del processo costituisca una conseguenza naturale ed ordinaria escludibile solo in presenza di una prova specifica la quale non può desumersi dalla ritenuta consapevolezza della infondatezza della pretesa agita, la quale potrà incidere solo sul piano della quantificazione del danno.

Sussistono, pertanto, i presupposti per la trattazione del ricorso in Camera di Consiglio”.

2.- Il Collegio reputa di dovere fare proprie le conclusioni contenute nella relazione, condividendo le argomentazioni che le fondano, in quanto danno applicazioni a principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte.

In linea preliminare va dichiarata inammissibile la memoria depositata dalla Agenzia delle entrate. Al riguardo, occorre richiamare il principio enunciato da questa Corte, secondo il quale la L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 1224, che ha modificato la L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, attribuendo al Ministero dell’Economia e delle Finanze la legittimazione residuale spettante, in precedenza, alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, si applica esclusivamente ai giudizi iniziati nella fase di merito successivamente all’entrata in vigore della modifica suddetta (citata legge, art. 1, comma 1225), e non a quelli iniziati prima e ritualmente svoltisi nei confronti della Presidenza del Consiglio dei ministri (ord. n. 21352 del 2009). Ne consegue che, nella specie, essendo stato proposto il ricorso, ratione temporis, correttamente, dalla Presidenza del Consiglio dei ministri, è questa che deve ritenersi parte del giudizio, con conseguente inammissibilità della memoria presentata, invece, dalla Agenzia delle entrate.

A conforto delle considerazioni svolte nella relazione, va osservato che, in ordine al primo motivo (e per dimostrarne l’infondatezza), va ribadito l’orientamento, consolidatosi dopo gli arresti a Sezioni Unite, secondo il quale il danno non patrimoniale è conseguenza normale, ancorchè non automatica, della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, di modo che va ritenuto sussistente, senza bisogno di specifica prova (diretta o presuntiva), in ragione dell’obiettivo riscontro di detta violazione, sempre che non ricorrano circostanze particolari che ne evidenzino l’assenza nel caso concreto (Cass. S.U. n. 1338 e n. 1339 del 2004;

successivamente, per tutte, Cass. n. 6898 del 2008; n. 23844 del 2007).

li diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2, spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti, e dalla consistenza economica o dall’importanza sociale della vicenda, a meno che l’esito del processo presupposto non abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire l’irragionevole durata di esso, o comunque quando risulti la piena consapevolezza dell’infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità; di tutte queste situazioni, comportanti abuso del processo, e perciò costituenti altrettante deroghe alla regola della risarcibilità della sua irragionevole durata, deve dare prova la parte che le eccepisce per negare la sussistenza dell’indicato danno (Cass. n. 7139 del 2006; n. 21088 del 2005; n. 19204 del 2005).

In particolare, detto principio è stato ripetutamente affermato in fattispecie analoghe a quelle qui in esame (tra le molte, Cass. n. 26767, n. 27610, n. 26579, n. 11568 e n. 891 del 2008, sino a risalire a Cass. n. 9921 del 2005).

A detto principio ha dato corretta applicazione il decreto, palesandosi manifestamente infondata la censura svolta nel secondo motivo, in quanto il richiamo alla sentenza del giudizio presupposto non vale ad evidenziare che la ricorrente, nel giudizio di merito, abbia dedotto elementi comprovanti la sussistenza di un abuso del processo, con la conseguenza che è priva di pregio la censura di vizio della motivazione, per difetto di decisività.

In definitiva, il ricorso va rigettato; non deve essere resa pronuncia sulle spese della presente fase, non avendo le intimate svolto attività difensiva.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2010

 

 

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