Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6502 del 22/03/2011

Cassazione civile sez. lav., 22/03/2011, (ud. 20/01/2011, dep. 22/03/2011), n.6502

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ESEX S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GREGORIO VII 396, presso lo

studio dell’avvocato GIUFFRIDA ANTONIO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato PAMPALONI RODOLFO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

B.R.A., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato SCALVINI GIUSEPPE, giusta delega

in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2036/2006 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 15/01/2007 R.G.N. 481/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/01/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GAETA Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 7.12.2001 il Tribunale di Torino ha accolto la domanda di B.R.A. volta ad ottenere l’accertamento della illegittimita’ del licenziamento intimatogli dalla Esex srl in data 15.4.2000 per inidoneita’ a svolgere la mansione per la quale era stato assunto e impossibilita’ di reperire in azienda altri posti di lavoro compatibili con le sue condizioni fisiche.

La decisione del Tribunale e’ stata confermata dalla Corte d’Appello di Torino con sentenza che e’ stata tuttavia annullata dalla Corte di Cassazione, che con la decisione n. 13046/2005 del 15.3.2005, ha affermato che non era corretto ritenere che non fosse stata provata l’impossibilita’ di adibire il lavoratore ad altre mansioni allorche’ il datore di lavoro aveva richiesto l’ammissione di consulenza tecnica d’ufficio volta a dimostrare l’incompatibilita’ delle condizioni fisiche del B. con l’intero ambiente di lavoro.

Riassunto il giudizio ed espletata consulenza tecnica d’ufficio sulla compatibilita’ della patologia oculare da cui era affetto il lavoratore con le mansioni esistenti in azienda, la Corte d’Appello di Torino, in diversa composizione, ha respinto l’appello con sentenza del 15.1.2007, confermando la sentenza di primo grado.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione la Esex srl affidandosi a cinque motivi cui resiste con controricorso B.R. A..

La societa’ ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Con il primo motivo di ricorso viene denunciata violazione del combinato disposto dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e dell’art. 384 c.p.c. in relazione al mancato rispetto, da parte del giudice di rinvio, delle direttive impartite dalla Suprema Corte con la sentenza n. 13046/2005. La Corte d’appello, in particolare, non avrebbe tenuto conto del rilievo espresso dalla S.C. secondo cui era incoerente affermare che era onere della societa’ provare di non poter adibire il B. ad altre mansioni, per poi negare che fosse determinante stabilire l’eventuale inidoneita’ del lavoratore all’ambiente di lavoro nel suo complesso, e cosi’ del rilievo secondo cui non era stato spiegato perche’ non fosse necessario accertare la topografia dei locali aziendali e delle fonti di calore.

2.- Con il secondo e il terzo motivo di impugnazione si denunciano “vizi motivazionali” attinenti la consulenza “medico legale”, che risulterebbe affetta da errori medico-scientifici e da affermazioni illogiche e contraddittorie, o alcuni passaggi della motivazione della sentenza gravata, in particolare laddove si afferma che “non e’ in giudizio la riportabilita’ o meno delle patologie all’attivita’ lavorativa” e che la consulenza “ha esaminato i vari reparti dell’azienda alla luce delle patologie di cui soffre il B., individuando precise collocazioni di lavoro ancora sussistenti”.

3.- Con il quarto motivo si denuncia violazione di legge e difetto di motivazione nella parte in cui la Corte d’Appello ha ritenuto che fosse stata proposta per la prima volta nel giudizio di rinvio l’eccezione secondo cui il risarcimento avrebbe dovuto essere limitato al minimo di legge di cinque mensilita’, non avendo l’azienda alcuna responsabilita’ in ordine alla sopravvenuta inidoneita’ del B. al lavoro, di cui era stata informata solo nel 2000. Sostiene al riguardo la ricorrente che l’eccezione non potrebbe considerarsi nuova in quanto la stessa sarebbe stata proposta gia’ con la comparsa di costituzione in primo grado.

4.- Con il quinto motivo di gravame la societa’ denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 394 c.p.c. e alla L. n. 300 del 1970, art. 18 nella parte in cui i giudici di appello hanno determinato il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quella della reintegra senza tener conto del fatto che il B. aveva ammesso, nel corso delle operazioni di consulenza tecnica, di aver trovato altro lavoro sin dall’epoca del licenziamento, nonche’ del fatto che lo stesso aveva richiesto il pagamento dell’indennita’ sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro, L. n. 300 del 1970, ex art. 18, comma 5.

5.- Il ricorso e’ infondato. Quanto al primo motivo, si osserva che le censure sono infondate poiche’ la Corte di merito, quale giudice del rinvio, ha disposto consulenza tecnica d’ufficio tendente ad accertare, nel solco tracciato dalla sentenza della S.C., se la patologia da cui era affetto il B. fosse compatibile con mansioni, diverse da quelle gia’ svolte, esistenti all’epoca del licenziamento presso i vari reparti dell’azienda. E il c.t.u. ha accertato l’esistenza di mansioni compatibili con la menomazione da cui era affetto il B. anche alla luce dei dati risultanti dalla prodotta documentazione identificati va dei rischi d’impresa, formata in epoca vicina a quella del licenziamento, e da ritenersi dunque idonea a soddisfare le specifiche finalita’ di una indagine tendente a stabilire il rapporto di compatibilita’ tra la malattia e la mansioni esistenti, all’epoca, in azienda.

Anche le censure svolte con il secondo e il terzo motivo di impugnazione sono prive di fondamento, trattandosi di critiche che ripetono, per lo piu’, le considerazioni espresse dal consulente tecnico di parte (con una nota di cui non e’ stata disposta l’acquisizione dal giudice del rinvio), incentrate solo su alcuni aspetti delle argomentazioni svolte dal c.t.u. nella relazione di consulenza tecnica e comunque prive di decisivita’ in quanto fondate su affermazioni che si risolvono in una mera contrapposizione rispetto alla valutazione effettuata dal consulente tecnico d’ufficio e recepita in sentenza dal giudice del rinvio, e, in definitiva, inidonee ad offrire alcun argomento effettivo di riscontro sugli elementi di contrasto logico o di erroneita’ eventualmente insiti nella relazione peritale.

In ogni caso, le censure proposte con tale motivo di impugnazione si risolvono in critiche sulla valutazione degli elementi di fatto acquisiti, involgendo cosi’ un sindacato di merito non consentito in sede di legittimita’; dovendo rimarcarsi, al riguardo, che il controllo sulla motivazione non puo’ risolversi in una duplicazione del giudizio di merito e che alla cassazione della sentenza impugnata puo’ giungersi non per un semplice dissenso dalle conclusioni del giudice di merito – poiche’ in questo caso il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento dello stesso giudice di merito, che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalita’ del giudizio di cassazione – ma solo in caso di motivazione contraddittoria o talmente lacunosa da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto alla base della decisione (cfr.

ex plurimis Cass. 10657/2010, Cass. 9908/2010, Cass. 27162/2009, Cass. 13157/2009, Cass. 6694/2009, Cass. 18885/2008, Cass. 6064/2008).

E’ inammissibile il quarto motivo. Invero, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, la societa’ ricorrente avrebbe dovuto precisare, a pena di inammissibilita’, se e come l’eccezione di cui si discute era stata mantenuta e ritualmente riproposta anche nel corso dei gradi di giudizio successivi al primo.

La parte che in sede di ricorso per cassazione deduca che il giudice di merito abbia erroneamente considerato come nuova una domanda o un’eccezione gia’ formulate nei precedenti scritti difensivi e’ tenuta, infatti, ai fini dell’astratta idoneita’ del motivo ad individuare tale violazione, a precisare gli atti difensivi con i quali tale domanda o tale eccezione erano state proposte nei precedenti gradi di giudizio, con l’indicazione specifica dell’atto difensivo o del verbale di udienza nel quale l’una o l’altra erano state proposte, onde consentire al giudice di verificare non solo la ritualita’ e la tempestivita’, ma anche la decisivita’ delle questioni prospettate; infatti, pur essendo la dedotta violazione in esame riconducibile ad una ipotesi di error in procedendo per il quale la S.C. e’ giudice anche del “fatto processuale”, detto vizio, non essendo rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere – dovere del giudice di legittimita’ di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena d’inammissibilita’, all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, dell’onere di indicare compiutamente gli atti della fase di merito, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi (cfr. ex plurimis Cass. 6361/2007, Cass. 4208/2007, Cass. 4614/2006, Cass. 1701/2006, Cass. 15781/2005, Cass. 11034/2003, Cass. 604/2003, Cass. 12259/2002, Cass. 10314/2002, Cass. 317/2002).

E’ infondato, infine, il quinto motivo.

Come correttamente rilevato dalla Corte territoriale, infatti, il giudizio di rinvio e’ un giudizio chiuso, che non puo’ quindi riguardare fatti estranei a quelli esaminati e decisi dai giudici di legittimita’ (vedi, con specifico riferimento alla detraibilita’ dell’aliunde perceptum, Cass. 5729/97, secondo cui nel giudizio di rinvio l’ambito dell’accertamento non puo’ essere ampliato con l’introduzione di nuovi temi d’indagine, se non nell’ipotesi di questioni necessariamente connesse agli accertamenti per cui e’ stata effettuata la devoluzione del giudizio da parte della S.C.). E’ vero che, secondo un piu’ recente orientamento giurisprudenziale, l’allegazione degli importi che il lavoratore abbia percepito per aver svolto nel periodo successivo alla risoluzione del rapporto un’attivita’ remunerata e’ ammissibile anche nel giudizio di rinvio;

ma cio’ purche’ tale allegazione avvenga nel primo atto difensivo utile dalla conoscenza dei fatti, dovendo il datore di lavoro fornire la prova del momento di acquisizione della notizia (cfr. Cass. 20500/2008). Nella specie, a prescindere dalla genericita’ dell’allegazione formulata dalla societa’ in ordine all’entita’ degli importi che sarebbero stati percepiti dal lavoratore dopo il licenziamento, non e’ stata provata (e neppure allegata specificamente nel ricorso) la tempestivita’ della proposizione dell’eccezione di aliunde perceptum; non e’ stata quindi dimostrata la sua proponibilita’ nel giudizio di rinvio. Allo stesso modo, come esattamente ritenuto dalla Corte territoriale, non potevano essere prese in considerazione nel giudizio di rinvio questioni relative alla facolta’ di opzione per l’indennita’ sostitutiva della reintegrazione, che si afferma esercitata dal lavoratore nel dicembre 2001, o alla risarcibilita’ del danno per un’entita’ superiore alla misura minima delle cinque mensilita’ della retribuzione globale di fatto, che, come gia’ detto, non risultavano ritualmente proposte e prese in esame nei precedenti gradi di giudizio.

6.- Sulla base delle esposte considerazioni, nelle quali devono ritenersi assorbite tutte le censure non espressamente esaminate, il ricorso deve quindi essere rigettato.

7.- Le spese del giudizio di legittimita’ seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la societa’ ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 35,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre IVA, CPA e spese generali.

Cosi’ deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2011

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