Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6498 del 22/03/2011

Cassazione civile sez. lav., 22/03/2011, (ud. 13/01/2011, dep. 22/03/2011), n.6498

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO TRIESTE

87, presso lo studio dell’avvocato BELLI BRUNO, che lo rappresenta e

difende unitamente agli avvocati ANGIELLO LUIGI, MOGLIA ANITA, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.V.R.I. – ISTITUTI DI VIGILANZA RIUNITI D’ITALIA S.R.L., in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA ANASTASIO II 80, presso lo studio dell’avvocato BARBATO

ADRIANO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MORO

CLAUDIO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 42/2005 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 08/06/2006 R.G.N. 1047/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/01/2011 dal Consigliere Dott. SAVERIO TOFFOLI;

udito l’Avvocato GIUSEPPE M.F. RAPISARDA per delega BELLI BRUNO;

udito l’Avvocato BARBATO ADRIANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

La Corte d’appello di Bologna, in riforma della sentenza di primo grado del Tribunale di Parma, rigettava la domanda proposta da M.G. contro l’IVRI-Istituti di Vigilanza Riuniti d’Italia s.r.l., di impugnativa del licenziamento per giusta causa intimatogli da detta azienda con lettera in data 22.8.2000 a seguito della contestazione dell’addebito della sottrazione, nello svolgimento delle mansioni di portavalori, di un plico destinato all’Agenzia (OMISSIS) della Cassa di risparmio di Parma e Piacenza e contenente L. 70.000.000.

La Corte preliminarmente ricordava che il giudice di primo grado, in conseguenza della costituzione tardiva in giudizio della societa’ convenuta, aveva ritenuto la decadenza della parte, tra l’altro, dalla possibilita’ di dedurre mezzi di prova, ma, in relazione all’orientamento giurisprudenziale in materia, aveva ritenuto ammissibile la produzione tardiva dei documenti e quindi, da tale punto di vista anche della videocassetta prodotta dalla IVRI, che, tuttavia, aveva giudicato inutilizzabile come fonte di prova ai fini di causa, benche’ la telecamera a circuito chiuso con cui erano state effettuate le riprese fosse stata autorizzata con un accordo sindacale, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 4 osservando che la registrazione non poteva essere utilizzata per finalita’ diverse da quelle di tutela dei dipendenti e del patrimonio aziendale, e quindi non era utilizzabile per il controllo a distanza dei dipendenti; e che conseguentemente lo stesso giudice aveva ritenuto non raggiunta la prova della giusta causa di licenziamento.

La stessa Corte, esaminando i motivi di appello, dopo avere svolto osservazioni di carattere generale sui temperamenti configurabili rispetto alle preclusioni previste dagli artt. 414 e 416 riguardo alla deduzione di prove successivamente alla formulazione delle relative richieste in sede di ricorso introduttivo e di tempestiva memoria di costituzione, richiamava altresi’ l’art. 421 c.p.c., comma 2, sull’attribuzione al giudice di disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di qualsiasi mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, osservando in particolare che la norma conferma la vigenza nel processo del lavoro del principio inquisitorio, restando all’interprete il compito di stabilire quali siano la sostanza e i limiti di tali poteri. Passava quindi in rassegna orientamenti giurisprudenziali in materia.

Tanto premesso, il giudice di appello riteneva corretto il mancato esercizio dei poteri di ufficio ai fini dell’ammissione di prove orali richieste dalla convenuta, perche’ altrimenti si sarebbe verificata una sostituzione integrale del giudice alla parte.

Riteneva pero’ illogica l’osservazione, relativa ai documenti del fascicolo dell’IVRI, la cui produzione era stata ammessa, che gli stessi non facevano che riportare la versione dell’azienda, senza addurre concreti elementi, anche semplicemente indiziari, che consentirebbero al giudice di integrare la prova, stante la inutilizzabilita’ L. n. 300 del 1970, ex art. 4 della videocassetta.

Secondo la Corte di merito doveva invece ritenersi che, in caso di impianti audiovisivi autorizzati con accordo sindacale per le finalita’ di cui all’art. 4, comma 2, il divieto di legge di controllo dell’attivita’ lavorativa non si applica ai controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore e a tutelare il patrimonio aziendale; ed anche che il divieto di cui all’art. 4 cit.

non trova applicazione quando il controllo non e’ effettuato dal datore di lavoro ma da un terzo, come nella specie, in cui aveva operato la banca.

Infine la Corte, sulla base dell’esame delle scene riprese dalla videocamera e registrate e soprattutto dell’analisi delle medesime fatte dal c.t.u., riteneva provata la sottrazione del plico ad opera del lavoratore e integrata la giusta causa di licenziamento.

Il M. ricorre per cassazione con quattro articolati motivi. La s.r.l. IVRI- Istituti di Vigilanza Riuniti d’Italia resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1. Il primo motivo del ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 416, 421 e 437 c.p.c. Premesso che le decadenze e preclusioni in materia di prove devono ritenersi operanti anche riguardo alle produzioni documentali, si lamenta che sia stata ammessa la produzione di un documento (la videocassetta) da parte della convenuta, che era incorsa nella decadenza dalle facolta’ probatorie, e si contesta che la stessa decadenza potesse essere superata dal giudice attraverso l’esercizio del potere di ufficio (ai sensi dell’art. 421 in primo grado e dell’art. 437 in appello).

Si lamenta anche che il potere probatorio di ufficio sia stato esercitato con riferimento ad allegazioni della convenuta tardive in quanto effettuate con la memoria difensiva depositata tardivamente.

1.2. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 4 unitamente a vizi di motivazione. Si sostiene che la norma richiamata vieta in ogni caso il controllo a distanza del lavoratore. Inoltre si contesta la affermazione secondo cui nella specie il controllo era stato effettuato da terzi, che era apodittica e in contrasto con quanto risultava dalla relazione del c.t.u., da cui si evinceva che nella specie le operazioni che avevano dato occasione all’addebito e le riprese televisive erano avvenute nei locali dell’IVRI. 1.3. Il terzo motivo denuncia la violazione del disposto dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7 unitamente a vizio di motivazione. Si lamenta che la giusta causa sia stata dichiarata sussistente anche in base a circostanze non previamente contestate al lavoratore, quali l’adozione di “atteggiamenti non segnati da trasparenza e irreprensibilita’”. Si lamenta anche la carenza di motivazione circa la rilevanza di tale profilo.

1.4. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2712 c.c. e vizi di motivazione. Si osserva che il giudice di appello ha ritenuto provata l’apprensione del plico da parte del M. senza che dalla relazione del c.t.u., ne’ dalle fotografie allegate, emergesse il fatto dell’asportazione (e quindi senza che potesse escludersi la presenza del plico in un angolo della cesta).

Si lamenta anche che l’asportazione sia stata ritenuta sulla affermata diminuzione di spessore dei plichi inseriti in una delle ceste, senza che si sia minimente motivato circa la prova della presenza nella medesima cesta, prima dell’inizio del servizio da parte del lavoratore, del plico numerato e precisamente individuato nella contestazione, nonostante l’eccezione sul punto dell’attuale ricorrente.

1.5. E’ opportuno ricordare che il ricorrente preliminarmente espone di avere eccepito in primo grado all’udienza di discussione la decadenza della convenuta dalla prova e la conseguente accoglibilita’ della domanda e di avere riproposto in appello le eccezioni relative alla decadenza e alle intervenute preclusione ex artt. 416 e 418 c.p.c., in ordine sia alla prova testimoniale sia alla prova documentale.

2. E’ opportuno esaminare per primo il secondo motivo.

Esso deve ritenersi non fondato in base ai risultati a cui la giurisprudenza di questa Corte e’ pervenuta riguardo ai profili in questa occasione rilevanti dell’interprefazione dell’art. 4 dello statuto dei lavoratori (L. n. 300 del 1970).

Il comma 1 di questo articolo prevede il divieto di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalita’ di controllo a distanza dell’attivita’ dei lavoratori. Il comma 2 tuttavia prevede la possibilita’ di utilizzare gli impianti e le apparecchiature di controllo richiesti da esigenze organizzative e produttive oppure dalla sicurezza del lavoro, sebbene ne derivi anche la possibilita’ di controllo a distanza dell’attivita’ dei lavoratori, ma alla condizione di un previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali (o con la commissione interna) e, in difetto di accordo, del rilascio di un provvedimento autorizzativo da parte dell’ispettorato del lavoro, il quale puo’ precisare le modalita’ di uso degli impianti stessi.

Con queste previsioni il legislatore ha inteso contemperare l’esigenza di tutela dei lavoratori a non essere controllati a distanza con quella del datore di lavoro (in funzione eventualmente anche di interessi piu’ generali) relativamente agli aspetti presi in considerazione dal comma 2, subordinando, in presenza di questi ultimi interessi, il superamento del divieto altrimenti inderogabile di controllo dei lavoratori a distanza (comma 1) – mediante l’ammissione di un tipo di controllo che, seppure dettato per esigenze diverse da quelle del mero controllo dell’attivita’ dei lavoratori, puo’ in pratica consentire al datore di lavoro di compiere anche quel tipo di osservazione del comportamento del lavoratore – ad una valutazione di congruita’ alla quale partecipa la rappresentanza dei lavoratori o un organo pubblico qualificato (cfr.

Cass. n. 15892/2007 e 4375/2010).

Come e’ logico e confermato dal complesso della giurisprudenza in materia di questa Corte, nell’ambito delle esigenze prese in considerazione nel comma 1 e’ ricompresa anche quella di tutela del patrimonio aziendale, potendo apparire non del tutto chiarito dalla giurisprudenza solo in quali precisi limiti le apparecchiature volte alla tutela dello stesso possano considerarsi, in relazione all’oggetto dei relativi controlli, addirittura esclusi dalla esigenza della previa autorizzazione a norma dell’art. 4, comma 2, dello statuto (cfr. Cass. n. 1236/1983, 8250/2000,4746/2002, 15892/2007, 4375/2010). La vicenda in esame, tuttavia offre l’occasione di un ulteriore approfondimento riguardo a tale punto con la precisazione che la procedura autorizzatoria di cui all’art. 4, comma 2 e’ senza dubbio necessaria tutte le volte in cui i controlli vengono a consentire in via di normalita’ – e, si direbbe, inevitabilmente -, il controllo anche delle prestazioni lavorative, come nel caso in esame.

Poiche’ nella specie, come e’ pacifico, gli impianti per il controllo sono stati autorizzati a norma dell’art. 4 dello statuto dei lavoratori, e l’utilizzazione in causa delle relative riprese riguarda proprio le esigenze di tutela alla base della loro installazione e autorizzazione, non e’ ravvisabile alcuna violazione della disciplina legale in esame, anche se il controllo a distanza ha costituito il mezzo per rilevare e dimostrare un illecito avente anche rilievo disciplinare.

Risulta conseguentemente irrilevante l’equivoco in cui sarebbe incorso il giudice di appello circa il soggetto che aveva disposto i controlli a distanza.

3. L’esame del primo richiede un approfondimento riguardo all’ammissione di prove nuove nel giudizio di appello, oltre che all’ammissione di prove d’ufficio nel rito del lavoro.

3.1. In materia di prove l’art. 437 c.p.c., comma 2, (relativo al giudizio di appello nelle controversie di lavoro), prevede: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova, tranne il giuramento estimatorio, salvo che il collegio, anche d’ufficio, li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa. E’ salva la facolta’ delle parti di deferire il giuramento decisorio in qualsiasi momento della causa”. A seguito della introduzione di precise preclusioni anche nel rito ordinario con la riforma di cui alla L. n. 353 del 1990, la disciplina dei due riti quanto all’ammissione di nuove prove in appello si e’ notevolmente ravvicinata e, almeno da un punto di vista testuale, l’unica differenza sostanziale risulta essere la previsione solo nel rito del lavoro di un potere di carattere generale di ammissione di prove anche d’ufficio. Infatti l’art. 345 c.p.c., comma 3, nel nuovo testo recita: “Non sono ammessi nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri non avere potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Puo’ sempre deferirsi il giuramento decisorio” (le parole qui trascritte tra parentesi quadre sono state inserite dalla L. n. 69 del 2009, art. 46 al fine evidentemente di recepire l’indirizzo giurisprudenziale – su cui infra — che ha ritenuto applicabile anche ai documenti i limiti di carattere generale sull’ammissione delle prove in appello).

3 – 2. L’interpretazione delle disposizioni del codice di rito sull’ammissione di nuove prove in appello, come e’ noto, ha formato oggetto di un esame approfondito da parte delle coeve sentenze delle Sezioni unite 20 aprile 2005 n. 8202 (facente riferimento al processo del lavoro) e 20 aprile 2005 n. 8203 (facente specifico riferimento al rito civile ordinario). L’occasione di tale intervento e’ stata l’esigenza di comporre il contrasto di giurisprudenza sulla applicabilita’ anche alle prove ed. precostituite, e specificamente alle produzioni documentali, dei limiti posti, mediante lo strumento delle preclusioni e delle decadenze, all’ammissione in appello di prove per cui non sia stata effettuata tempestiva richiesta in primo grado. Alla risposta in senso positivo a tale quesito (basata, in estrema sintesi, sul rilievo della mancanza di ragioni sufficienti per giustificare la non assimilazione ai fini in esame delle prove precostituite alle altre prove) si e’ accompagnata, come e’ logico, una ricognizione della portata della disciplina applicabile in genere in appello alle (nuove) deduzioni probatorie.

3.3. La sentenza n. 8203 cit., relativa al rito ordinario, al riguardo e’ focalizzata sull’interprefazione della nozione di indispensabilita’ delle nuove prove ai fini della decisione della causa, rilevando che si intende fare riferimento a una loro “influenza causale piu’ incisiva” rispetto alle prove in genere ammissibili in quanto “rilevanti”, ovvero a “prove che, per il loro spessore contenutistico, sono idonee a fornire un contributo decisivo all’accertamento della verita’ materiale”. Appare evidente che la nozione in esame si puo’ attagliare innanzitutto e in via emblematica a quei documenti, idonei ad assumere valore di prova legale, quali gli atti pubblici e le scritture private suscettibili di riconoscimento, attestanti il fatto costitutivo del diritto azionato, o un fatto estintivo o impeditivo del medesimo (oppure uno di tali fatti, nel concorso di prove gia’ acquisite relativamente agli altri elementi della fattispecie produttiva di effetti giuridici). Ed e’ appena il caso di osservare che l’attribuzione ai documenti aventi tale pregnanza probatoria di un regime differenziato e in qualche maniera privilegiato ai fini della loro ammissione nel processo non fa venire meno l’equiparazione, in linea generale, dei documenti alle altre prove ai fini del regime di acquisizione probatoria, perche’ gran parte dei documenti utilizzati nei processi in realta’ non ha l’efficacia probatoria delle c.d. prove legali, tanto piu’ nella molto incrementata tipologia di controversie caratteristiche della civilta’ contemporanea. Appare anche importante rilevare che privilegiare la potenziale incontrovertibilita’ e decisivita’ probatoria dei documenti aventi una speciale incidenza probatoria ai fini di un superamento delle preclusioni processuali e’ giustificato dal fatto che, da un lato, in ragione della loro assorbente decisivita’, la loro ammissione in linea di massima non comporta l’esigenza di una complessiva riapertura dell’istruttoria, e, dall’altro, che, se la decisione non tenesse conto dei medesimi documenti, sarebbe evidente e incontestabile, sempre in ragione della loro efficacia probatoria, il contrasto tra decisione e verita’ materiale (per il riferimento nella giurisprudenza delle sezioni semplici alla nozione di influenza causale piu’ incisiva rispetto alle prove semplicemente rilevanti, cfr. Cass. n. 9120/2006, n. 12179/2008, n. 21980/2009; n. 14133/2006 con riferimento al rito del lavoro).

3.4. La sentenza parallela n. 8202 cit. relativa al rito del lavoro prende in particolare considerazione gli aspetti specifici del rito del lavoro, sia nel motivare la non giustificabilita’ di una sottrazione dei documenti al campo di applicazione della regola generale sull’ammissione di nuove prove in appello, sia nell’esaminare i presupposti del superamento in appello delle decadenze in materia probatoria verificatesi in primo grado. Sotto quest’ultimo profilo ha focalizzato l’attenzione, in relazione anche alle questioni poste dallo specifico ricorso, sull’esercizio dei poteri di ammissione di ufficio, che hanno particolare ragione di essere esercitati nel momento in cui il giudice, in sede decisoria o comunque nella prospettiva della decisione da assumere, ritenendo le prove gia’ acquisite non sufficienti a fare certezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, e’ investito del potere – dovere di esaminare se le prove gia’ acquisite suggeriscano iniziative probatorie utili a superare l’incertezza. Del resto non vi era motivo di dubitare della riconducibilita’ alla formula legale della indispensabilita’ ai fini della decisione – nel quadro della natura dei rapporti oggetto del processo del lavoro e della presenza di poteri istruttori di ufficio anche in capo al giudice di primo grado – anche delle variegate esigenze di approfondimento istruttorio postulate da situazioni di incertezza probatoria, secondo linee interpretative gia’ acquisite dalla giurisprudenza con riferimento al rito del lavoro.

Tuttavia, in presenza di un dettato normativo del tutto corrispondente per i due riti quanto alla nozione di prove indispensabili ai fini della decisione, non vi e’ ragione di ritenere che gli approfondimenti compiuti dalla sentenza delle Sezioni unite n. 8203/2005 sulla riconducibilita’ a tale nozione delle prove fornite di una influenza causale piu’ incisiva o di speciale decisi vita non siano rilevanti anche rispetto al rito del lavoro, anche perche’ la sentenza delle Sezioni unite relative a questo rito conclude il suo esame rilevando che il rito del lavoro si caratterizza per una diversa individuazione, rispetto al rito ordinario, del punto di equilibrio tra le esigenze di celerita’ e quelle di accertamento della verita’ materiale, riferendosi, come e’ chiaro, alla particolare importanza del perseguimento della verita’ materiale nel processo del lavoro, in considerazione delle situazioni sostanziali implicate nel giudizio.

3.5. Risulta coerente con i rilievi interpretativi che precedono e in particolare con la possibilita’ di ammissione in appello, su richiesta di parte e nel processo del lavoro anche d’ufficio, di prove aventi una speciale efficacia dimostrativa, la decisione del giudice di appello di consentire l’utilizzazione delle riprese video dell’ambiente in cui secondo la motivazione del licenziamento era avvenuta l’apprensione indebita di un plico contenenti valori da parte dell’attuale ricorrente, visto che tali riprese apparivano potenzialmente idonee a evidenziare la commissione dell’illecito contestato.

3.6. Quanto all’obiezione relativa alla non tempestivita’ della costituzione nel giudizio di primo grado della attuale controricorrente e quindi anche delle allegazioni riguardanti la giusta causa – censura che fa riferimento a una regola (quella della rilevanza nel giudizio solo dei fatti tempestivamente allegati dalle parti) effettivamente postulata nelle ricostruzioni interpretative di cui ai prevalenti recenti indirizzi giurisprudenziali sulla disciplina della fase introduttiva dei giudizi (cfr. Cass., sez. un., 1099/1998; Cass. n. 18263/2003, n. 12454/2008, n. 12353/2010, e altre; contra Cass. m. 599/1998 e 23142/2009) – deve osservarsi che la questione non risulta gia’ sollevata nei precedenti gradi del processo, come sarebbe stato necessario (a parte il fatto che la tematica relativa alla sussistenza della giusta causa era stata gia’ introdotta dall’azione di impugnativa del licenziamento).

4. Passando all’esame del terzo motivo, deve escludersi la lamentata violazione della regola della previa contestazione degli addebiti a causa del rilievo del giudice di appello di “atteggiamenti non segnati da trasparenza ed irreprensibilita’” dell’attuale ricorrente.

Tale rilievo si riferisce presumibilmente a particolarita’ del modus operandi del lavoratore nel corso dell’episodio in questione, evidenziate dalla analisi delle scene compiuta dal c.t.u. (controllo della posizione delle videocamera, copertura con il corpo, rispetto alla videocamera, della cesta contenente i plichi). E’ in questione quindi una mera modalita’ di attuazione della condotta contestata, peraltro priva di qualche rilievo anche ai fini delle dovute valutazioni in merito all’elemento soggettivo.

5. Riguardo al quarto motivo, si osserva che lo stesso censura inammissibilmente un accertamento di fatto compiuto in sede di merito ed adeguatamente motivato. In particolare risulta logica, sulla base dell’analitica considerazione di tutto il comportamento del lavoratore, la conclusione che con una condotta palesemente dolosa egli avesse compiuto la sottrazione di un plico contenente valori di rilievo, riscontrata dalla modifica della consistenza del contenuto della cesto in questione. Anche questo motivo, pertanto, non merita accoglimento.

6. Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Le spese del giudizio vengono compensate in relazione alla complessita’ delle questioni di diritto implicate.

P.Q.M.

LA CORTE Rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio.

Cosi’ deciso in Roma, il 13 gennaio 2011.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2011

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