Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6494 del 28/02/2022

Cassazione civile sez. lav., 28/02/2022, (ud. 06/10/2021, dep. 28/02/2022), n.6494

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6039-2019 proposto da:

PRIMACASSA – CREDITO COOPERATIVO FVG – SOCIETA’ COOPERATIVA,

incorporante della BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DELLA BASSA

FRIULANA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE, II n.

326, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO SCOGNAMIGLIO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO ZANON;

– ricorrente –

contro

D.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

CRESCENZIO, 58, presso lo studio dell’avvocato BRUNO COSSU, che lo

rappresenta e difende unitamente agli avvocati CARLO CESTER,

FRANCESCO ROSSI;

– controricorrente –

avverso la sentenza non definitiva n. 89/2018 della CORTE D’APPELLO

di TRIESTE, depositata il 07/08/2018 R.G.N. 18/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

06/10/2021 dal Consigliere Dott. LUCIA ESPOSITO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con ricorso L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 48, D.G. adiva il Tribunale di Udine deducendo: di essere stato assunto, dopo esperienza trentennale in ruoli apicali di istituti di credito, alle dipendenze di Banca di Credito cooperativo Bassa Friulana con contratto 2 aprile 2010, che prevedeva l’inizio del rapporto a partire dal 12 luglio 2010; di aver ricevuto il 30 gennaio 2014 lettera di contestazione contenente 14 addebiti, nonché il 7 marzo 2014 altra lettera di contestazione; di essere stato licenziato per giusta causa il (OMISSIS); chiedeva, pertanto, che fosse dichiarato illegittimo il licenziamento, con applicazione della tutela di cui allo Statuto dei lavoratori, art. 18, accordatagli in sede di contratto individuale.

2. La società eccepiva, in primo luogo, l’annullabilità del contratto per dolo o per errore, poiché la banca non avrebbe assunto il ricorrente se avesse saputo che lo stesso, al momento dell’assunzione, era sottoposto a procedimento penale.

3. Il Tribunale, disposto il mutamento del rito da speciale (Fornero) a ordinario, con sentenza 4/12/2015 rigettava il ricorso, ritenendo che la clausola contrattuale relativa all’applicazione della tutela reale fosse viziata per errore sulle qualità personali ai sensi dell’art. 1427 c.c., e che, poiché la questione controversa riguardava l’applicazione della tutela reale in virtù del contratto, il ricorso dovesse essere respinto.

4. La Corte d’appello di Trieste, con sentenza non definitiva, in parziale accoglimento del gravame, qualificato come statico e non dinamico il rinvio alla tutela dello Statuto, art. 18, contenuto nel contratto, sul rilievo che detto rinvio riguardasse una norma imperativa non modificabile e che lo scopo perseguito dalle parti fosse quello di attribuire al dirigente una tutela rafforzata rispetto a quella prevista dal CCNL per il licenziamento del dirigente, rigettava l’eccezione di annullabilità del contratto, formulata sotto il duplice profilo del vizio di errore e di dolo, e disponeva la prosecuzione del giudizio in funzione dell’accertamento riguardo alla legittimità del licenziamento. L’eccezione di annullabilità del contratto era rigettata sulla base di due ordini di argomentazioni, a seconda che il contratto 2 aprile 2010 (con il quale le parti avevano stabilito che il rapporto avrebbe avuto decorrenza dal momento in cui il dirigente fosse stato “libero dai suoi attuali impegni lavorativi e comunque non oltre il 1 settembre 2010”) fosse da ritenere definitivo e sottoposto a termine iniziale di efficacia o di adempimento – opzione recepita dalla Corte sul rilievo che l’accordo regolava tutti gli elementi essenziali del rapporto, quali il CCNL applicabile, l’inquadramento, le mansioni, il trattamento economico, la disciplina dello scioglimento – o che fosse da qualificare come preliminare rispetto al contratto definitivo, in quanto stipulato per facta concludentia il 12 luglio 2010, quando il D. aveva cominciato a lavorare.

5. Rilevava la Corte, quanto alla prima ipotesi, avvalorata dalla circostanza dell’avvenuta regolamentazione in toto del rapporto nel primo contratto, che il dirigente era stato indagato in un procedimento penale per usura, con iscrizione nel registro delle notizie di reato il 4 maggio 2010, talché alla data del 2 aprile 2010, data della stipula del contratto, egli non sapeva di essere indagato e non poteva aver agito per nascondere la sua posizione di persona sottoposta ad indagini penali, così ingannando la banca (dolo), né la qualità di indagato effettivamente esisteva a quel tempo, sicché la banca nella stipula del contratto non poteva essere caduta in errore sul punto. Quanto alla seconda ipotesi, formulata in via di mera ipotesi, osservava la Corte che, costituendo la stipula del contratto definitivo un atto di adempimento del preliminare, a meno che il vizio non riguardasse le clausole ex novo inserite nel definitivo o diverse da quelle esistenti nel preliminare (il che non era nella specie, giacché il contratto del 2 aprile 2010 conteneva l’intera disciplina del rapporto), doveva escludersi nel definitivo un elemento volontaristico in ipotesi viziato; mancherebbero, inoltre, gli estremi del dolo, poiché i raggiri sarebbero consistiti nell’avere il dirigente taciuto l’esistenza dell’indagine avviata nei suoi confronti e presentato un certificato del casellario dal quale nulla risultava a suo carico. Ricordava la Corte che, secondo costante giurisprudenza, l’inerzia è causa di annullamento, ex art. 1439 c.c., soltanto quando si inserisca in un complesso comportamento preordinato a realizzare l’inganno, determinando l’errore, mentre il silenzio e la reticenza, non immutando la rappresentazione della realtà ma limitandosi a non contrastare la percezione della realtà alla quale sia pervenuto l’altro contraente, non costituiscono di per sé causa invalidante del contratto. Rilevava che, nella specie, era stato allegato un unico fatto potenzialmente idoneo a costituire una condotta preordinata alla realizzazione dell’inganno, la presentazione da parte di D.G. di un certificato del casellario che non evidenziava alcun precedente penale. La circostanza era però ritenuta irrilevante giacché non era noto come e quando detto documento fosse stato consegnato, se per autonoma iniziativa o su richiesta del datore di lavoro, e, in secondo luogo perché il certificato riporta solo le condanne definitive, senza dare conto di eventuali indagini, che non emergono neppure dal certificato carichi pendenti. Allo stesso modo non era ravvisabile errore, in primo luogo perché si doveva escludere che il fatto di non essere soggetto a indagini penali costituisse una qualità essenziale per il direttore generale di una banca (se ex art. 50 CCNL, la pendenza del giudizio determina solo la sospensione del rapporto, il semplice avvio di una indagine che non esisteva al momento della stipula del preliminare non avrebbe autorizzato al rifiuto del definitivo, né d’altra parte la banca aveva richiesto al dirigente di attestare la mancata pendenza di indagini). L’errore, inoltre, non sarebbe stato riconoscibile: posto che non esistevano norme che vietavano a un soggetto indagato di rivestire la funzione e svolgere la mansioni di Direttore Generale, né vi era stata manifestazione in tal senso, ad esempio tramite determinazioni del Consiglio di Amministrazione, il dirigente non avrebbe potuto desumere che la banca si fosse determinata ad assumerlo sulla base della erronea convinzione che fosse esente da indagini penali.

6. L’Istituto di credito (oggi PrimaCassa – Credito Cooperativo FVG – Società Cooperativa) ha proposto ricorso per cassazione sulla base di 19 motivi.

7. Controparte si è costituita con controricorso tempestivo.

8. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con i primi due motivi di ricorso l’Istituto ricorrente censura l’interpretazione del contratto secondo la quale il rinvio allo Statuto dei lavoratori, art. 18, in esso contenuto è rinvio formale e non recettizio, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio della motivazione (che risulterebbe del tutto apparente), sul rilievo che ove fosse ravvisabile un rinvio dinamico – non statico – alla disciplina di legge, il D. potrebbe far valere solo la tutela prevista dallo Statuto, attuale art. 18, e non quella contenuta nel testo previgente alle modifiche introdotte dalla L. n. 92 del 2012. L’Istituto ricorrente critica gli argomenti posti a fondamento del ragionamento della Corte d’appello. In primo luogo, quello relativo all’affermato carattere imperativo e inderogabile dello Statuto, art. 18, cui conseguirebbe l’impossibilità per le parti di modificarne i presupposti e l’ambito di applicazione, giacché il rinvio dinamico non sottrarrebbe il rapporto al regime del richiamato art. 18. In secondo luogo, quello della individuazione dello scopo perseguito dalle parti, ravvisabile nella tutela rafforzata da attribuire al D. rispetto a quella prevista dal CCNL e pari a quella riconosciuta ai dipendenti privi di qualifica dirigenziale, nel rispetto del canone della buona fede e del reciproco affidamento, poiché si finirebbe con il riconoscere al D. una tutela più forte di quella prevista per i dipendenti non dirigenti. Infine, quello secondo cui i contraenti avevano voluto richiamare non la fonte ma il contenuto dell’art. 18, vigente all’epoca, essendo questa l’unica disciplina di cui potevano avere conoscenza, poiché è pacifico che le parti possano disciplinare i loro rapporti attraverso il rinvio dinamico a una norma esterna al contratto.

2. I due motivi, da trattare unitariamente, sono privi di fondamento.

3. E’ noto che in sede di legittimità le censure relative all’interpretazione del contratto offerta dal giudice di merito possono essere prospettate solo in relazione al profilo della mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale o della radicale inadeguatezza della motivazione, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, mentre non assume rilevanza la mera contrapposizione fra l’interpretazione proposta dal ricorrente e quella accolta dai giudici di merito (Cass. n. 995 del 20/01/2021). Posto che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui all’art. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. n. 9461 del 09/04/2021).

4. Ciò premesso, non sembra che la doglianza abbia censurato efficacemente l’interpretazione del contratto offerta dalla Corte territoriale, posto che l’unico profilo attinente alla violazione di un canone ermeneutico, quello della buona fede (art. 1369 c.c.), su cui riposerebbe la contrastante interpretazione, non risulta violato dalla interpretazione data: la garanzia del reciproco affidamento delle parti nell’intento di attribuire una tutela pari a quella dei dipendenti non aventi qualifica dirigenziale è ugualmente soddisfatto mediante il richiamo all’art. 18, come “cristallizzato” all’epoca della pattuizione. Neppure può attribuirsi significato ai fini dell’interpretazione, come comportamento tenuto dalle parti, alla strategia difensiva attuata mediante la presentazione del ricorso ex legge Fornero, che, in quanto tale, non vale a connotare il contenuto dell’accordo. In definitiva, il ricorrente di limita a proporre una ulteriore opzione interpretativa che non vale a censurare efficacemente l’attività ermeneutica del giudice del merito. Per quanto riguarda, poi, specificamente, il profilo di presunta apparenza della motivazione, va rilevato che il ragionamento palesato della Corte supera di gran lunga la soglia della motivazione minima sufficiente, nei termini indicati da Cass. n. 8053/2014 e altre decisioni conformi, come peraltro si evince anche dalle argomentate critiche rivolte alla decisione.

5. Con il terzo motivo l’Istituto ricorrente deduce violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nullità della sentenza per avere posto a fondamento della decisione fatti dedotti tardivamente dalla controparte, la quale, a fronte dell’eccezione di invalidità per errore o dolo del contratto, non avrebbe allegato con la memoria difensiva ex L. n. 92 del 2012, nel giudizio di primo grado che il contratto era stato stipulato ad aprile e non a luglio 2010, né che il 2 aprile 2010 si era perfezionato un contratto definitivo a termine e che al momento della stipula del contratto ignorasse le indagini, non potendo condurre a diverse conclusioni il rilievo che delle circostanze non dedotte tempestivamente vi sarebbe riscontro documentale nei documenti versati in causa in primo grado.

6. La censura è priva di fondamento, poiché le allegazioni circa il carattere solo preliminare del primo contratto gravavano sulla parte resistente che aveva formulato eccezione al riguardo, mentre risulta dalla trascrizione del ricorso proposto nel rito sommario, a pg 18 del controricorso, che la circostanza che il contratto fosse stato concluso il 2/4/2010, con presa di servizio il 12/7/2010, era stata in quella sede già dedotta e che la banca si era limitata a eccepire l’annullabilità proprio del contratto di lavoro stipulato il 2/4/2010.

7. Con il quarto motivo l’istituto ricorrente deduce violazione dell’art. 1362 c.c., anche in relazione ai criteri di distinzione del contratto preliminare dal definitivo.

8. Il motivo è infondato. La Corte territoriale, infatti, ha argomentato nel senso di ritenere il contratto 2/4/2010 come definitivo, sicché la seconda opzione interpretativa è prospettata in termini meramente ipotetici (si veda, a pg 17 “in ogni caso, anche volendo ammettere”, a pg 18 “in via di mera ipotesi”, a pg 20 “sempre rimanendo nell’ambito della ipotetica qualificazione dell’accordo 2 aprile 2010 come contratto preliminare”), tanto da apparire svolta ad abundantiam rispetto alla prima opzione interpretativa, che assume valenza di vera e propria motivazione della decisione. Nella complessiva operazione ermeneutica ha anche considerato l’elemento letterale evidenziato con la censura, cioè la dizione “si impegna” ad assumere utilizzata nel testo, ritenendolo, tuttavia, non significativo, in ragione del prevalente indicatore della regolamentazione di tutti gli elementi essenziali del contratto e della circostanza che l’assunzione risultava subordinata non ad una nuova manifestazione di volontà contrattuale ma ad un evento oggettivo futuro, cioè il momento in cui il D. fosse stato “libero dai suoi attuali impegni lavorativi e comunque non oltre il 1 settembre 2010”. Coerentemente ha concluso nel senso che dal complesso della regolamentazione contrattuale poteva desumersi che si trattasse di un contratto definitivo sottoposto a termine iniziale di efficacia o meglio di adempimento. La motivazione della Corte si rivela esaustiva sul punto e resiste alla censura, giacché il criterio di interpretazione letterale non è stato trascurato ma piuttosto ricondotto al complessivo significato testuale, nell’ambito di una riconosciuta previsione di adempimento posticipato del contratto, rispetto al quale concorda anche l’espressione “saranno”, riferita alle condizioni dell’assunzione, pure contenuta nel testo. Vanno, quindi, richiamate sul punto le ragioni indicate sub 3) con riguardo all’interpretazione del contratto, ribadendo che proporre una ulteriore opzione interpretativa non vale a censurare efficacemente l’attività ermeneutica del giudice del merito (Cass. n. 9461 del 09/04/2021).

9. Con i motivi sub 5 e sub 6 si censura la sentenza sotto il profilo della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, per avere la Corte valorizzato una ragione di diritto – impossibilità di annullare il contratto definitivo per vizi del volere – mai dedotta dal ricorrente. Si deduce, inoltre, violazione dell’art. 1439 c.c., per avere la sentenza affermato l’insussistenza dei presupposti per l’annullamento del contratto definitivo per vizi della volontà.

10. Va rilevato, in primo luogo, che non può configurarsi alcuna preclusione per l’utilizzo da parte della Corte di un’argomentazione in diritto che si assume non prospettata dalle parti, in mancanza della deduzione di una connessa violazione del contraddittorio. Può assumersi l’esistenza di un vizio di nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa, infatti, solo se la parte che se ne dolga lamenti, in concreto, una violazione del contraddittorio, prospettando le ragioni che si sarebbero potute fare valere qualora il contraddittorio sulla questione fosse stato tempestivamente attivato (cfr. Cass. n. 11440 del 30/04/2021).

11. Quanto al secondo profilo di censura, va rilevato che tutte le argomentazioni riguardo ai vizi del consenso in relazione al contratto definitivo in ipotesi posto in essere tra le parti sono state esposte dalla Corte ad abundantiam (vedi infra sub 8), sicché non assumono rilievo in ragione della reale motivazione sottesa alla decisione. Questa considerazione vale anche per le altre critiche svolte nei successivi motivi di ricorso, tutte incentrate sulla seconda motivazione sottesa alla sentenza, motivazione formulata in via di mera ipotesi, sicché le critiche, poiché attengono ad argomentazioni ad abundantiam o obiter dicta, sono da reputare inammissibili.

12. In definitiva il ricorso va complessivamente rigettato, con liquidazione delle spese secondo soccombenza.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 8.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, se dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 6 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2022

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