Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6490 del 17/03/2010

Cassazione civile sez. III, 17/03/2010, (ud. 08/02/2010, dep. 17/03/2010), n.6490

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. LANZILLO Raffaella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23841/2005 proposto da:

R.T.I. – RETI TELEVISIVE ITALIANE SPA, (OMISSIS), in persona del

procuratore speciale dr. L.S., elettivamente domiciliata

in ROMA, VIA CICERONE 60, presso lo studio dell’avvocato PREVITI

STEFANO, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

V.P., S.M.V., S.R.,

M.T., R.C., A.S., A.M.,

C.V., I.S., B.F., P.R.,

G.G.;

– intimati –

sul ricorso 27216/2005 proposto da:

R.C., (OMISSIS), A.S., A.M.,

C.V., I.S., B.F., P.R.,

G.G., V.P., S.M., S.R.,

M.T., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DI S. MARIA

MAGGIORE 112, presso lo studio dell’avvocato DI LAURO ALDO, che li

rappresenta e difende giuste deleghe a margine del presente atto;

– ricorrenti –

e contro

RTI RETI TELEVISIVE ITAL SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3972/2004 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

Sezione Prima Civile, emessa il 7/07/2004, depositata il 20/09/2004;

R.G.N. 6698/2001;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/02/2010 dal Consigliere Dott. RAFFAELLA LANZILLO;

udito l’Avvocato Carla PREVITI per delega avv. Stefano PREVITI;

udito l’Avvocato Aldo DI LAURO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto di entrambi i

ricorsi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Dott. A.R. ed altri nove componenti del reparto di Ostetricia e ginecologia dell’Ospedale (OMISSIS), hanno convenuto in giudizio la s.p.a. RTI – Reti Televisive Italiane, quale titolare della rete televisiva (OMISSIS), ed M.E., quale direttore responsabile del (OMISSIS), chiedendo il risarcimento dei danni subiti a seguito di un’intervista andata in onda il (OMISSIS), condotta da C.M.L., nel corso della quale l’intervistata P.M., già ostetrica presso l’Ospedale (OMISSIS), aveva affermato che presso il reparto di Ostetricia e Ginecologia della (OMISSIS) Divisione dell’Ospedale vi era un racket di neonati ad opera del personale medico e paramedico del reparto, ed in particolare del primario della divisione, Dott. A.R., in quanto immediatamente dopo il parto i neonati venivano allontanati dalle puerpere, previa somministrazione a queste ultime di sostanze psicotrope.

I convenuti hanno resistito alla domanda, eccependo fra l’altro la prescrizione del diritto fatto valere dagli attori.

Interrotto il giudizio per la morte del Dott. A., la causa è stata riassunta dalle eredi A.C.R., S. e M..

Con sentenza n. 21832/2001 il Tribunale di Roma ha respinto la domanda proposta contro M.E. per intervenuta prescrizione; ha condannato RTI a pagare a ciascuno degli attori L. 100 milioni in risarcimento dei danni, ritenendo sussistente la diffamazione, e ha disposto la pubblicazione della sentenza sui quotidiani (OMISSIS).

Proposto appello principale da RTI ed appelli incidentali dalle eredi del Dott. A. e da B.F., C.E. e I.S., la Corte di appello di Roma, con sentenza 7 luglio – 20 settembre 2004 n. 3972, ha respinto l’appello principale e l’appello incidentale di B.F., C.E. e I.S.; ha dichiarato inammissibile l’appello incidentale proposto dalle eredi A. e ha posto a carico di RTI le spese del grado.

Con atto notificato il 26 settembre 2005 RTI propone cinque motivi di ricorso per cassazione.

Resistono gli intimati con controricorso, proponendo ricorso incidentale.

Le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Deve essere preliminarmente disposta la riunione dei due ricorsi (art. 335 c.p.c.).

2.- Con il primo motivo RTI denuncia violazione degli artt. 81, 101, 112, 163, 164 e 354 c.p.c., art. 2697 c.c., mancato accertamento della nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado e dell’assenza di legittimazione ad agire, nullità della sentenza e del procedimento, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4; omessa ed insufficiente motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), sul rilievo che gli attori non hanno specificato con l’atto introduttivo quali fossero le loro specifiche posizioni nell’ambito del personale medico e paramedico citato nell’intervista, sì che essa convenuta, come il giudice, non sono stati posti in grado di stabilire la connessione fra il danno lamentato ed il ruolo svolto dagli attori all’interno del reparto.

Il richiamo della sentenza impugnata alla sentenza penale di condanna dell’intervistata P. non farebbe venir meno la nullità della citazione introduttiva del giudizio, e comunque configurerebbe ultrapetizione, trattandosi di circostanza non dedotta dai danneggiati nelle loro difese.

2.1.- Il motivo non è fondato.

La causa petendi della domanda proposta dagli attori in primo grado risulta inequivocabilmente dalla natura degli addebiti rivolti alla convenuta (diffamazione in danno del personale della Divisione dell’Ospedale diretta dal Dott. A.), sicchè è da escludere la nullità dell’atto di citazione.

Quanto all’effettiva appartenenza degli attori al reparto, la sentenza impugnata ha giustamente rilevato che la posizione degli attori era facilmente identificabile, trattandosi del personale dipendente dal Dott. A., e che l’identità di ognuno è stata accertata e confermata nel corso del processo penale, ove i danneggiati si sono costituiti parte civile.

Nè la ricorrente ha dedotto di avere sottoposto alla Corte di appello concreti elementi probatori in contrario, che la Corte avrebbe omesso di prendere in esame; sicchè la contestazione sollevata in quella sede risultava anche inammissibilmente generica.

Neppure è configurabile ultrapetizione, poichè il giudice di merito non ha pronunciato su domande od eccezioni non proposte dalle parti, ma solo ha tratto argomento dalle circostanze allegate e dagli elementi di prova acquisiti al giudizio per esprimere le sue valutazioni in ordine ad un accertamento in fatto (se gli attori fossero o meno dipendenti del reparto).

3.- Con il secondo motivo, deducendo violazione degli artt. 2909 e 2947 c.c., art. 324 c.p.c., motivazione insufficiente, contraddittoria ed illogica (art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5), la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto prescritto il diritto al risarcimento dei danni esclusivamente nei confronti di M.E. e non di essa RTI. La motivazione della sentenza impugnata avrebbe illogicamente differenziato le posizioni, ritenendo applicabile al solo M. il termine ordinario di prescrizione di cui all’art. 2947 c.c., comma 1, con la motivazione che egli non fu assoggettato a procedimento penale, sebbene neppure essa RTI sia stata citata a partecipare al processo penale.

Assume che l’allungamento del termine di prescrizione è da ritenere inapplicabile nei confronti di chi sia rimasto estraneo al processo penale, come si deve desumere dall’art. 654 c.p.p., che esclude che il processo medesimo possa produrre effetti nei confronti del responsabile civile che in esso non sia stato citato.

Anche perchè l’art. 2947 c.c., comma 3, ha lo scopo di evitare che vengano applicati diversi termini di prescrizione al medesimo illecito, e che un soggetto possa trovarsi esposto sine die a pretese risarcitorie, a causa della pendenza di un processo penale di cui non abbia mai avuto notizia, nonostante la mancanza di atti interruttivi.

La sentenza impugnata andrebbe comunque cassata sul punto, poichè la statuizione relativa all’avvenuta prescrizione del diritto al risarcimento dei danni nei confronti di M., contenuta nella sentenza di primo grado, è passata in giudicato e – riguardando un’azione identica a quella proposta contro RTI – il giudicato estenderebbe i suoi effetti ad RTI, ai sensi dell’art. 2909 c.c., e art. 324 c.p.c.. Tanto più ove si consideri che ai due è stato imputato il medesimo illecito.

4.- Il motivo non è fondato.

In primo luogo non è esatto che il termine di prescrizione debba essere necessariamente uniforme nei confronti di tutti gli obbligati solidali. Il principio ha una sua validità tendenziale (cfr. art. 1310 c.c., comma 1), ma non assoluta.

Difformità nel decorso dei termini possono verificarsi sia nel caso previsto dall’art. 1310 c.c., comma 2, per cui la prescrizione può risultare sospesa nei confronti di uno solo dei debitori in solido; sia in virtù della disposizione di cui all’art. 1310 c.c., comma 3, per cui la rinuncia alla prescrizione di uno dei condebitori solidali non giova agli altri.

Nè gli effetti del giudicato civile nei confronti di M. si estendono necessariamente a RTI, trattandosi di effetti processuali che ben possono essere differenziati, ove non sussista litisconsorzio necessario fra le parti (cfr. Cass. Cìv. 11 dicembre 2009 n. 26043).

Neppure è in termini il richiamo all’art. 654 c.p.p..

La norma concerne l’efficacia civile della sentenza penale di condanna o di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento, quanto all’accertamento di diritti o interessi legittimi il cui riconoscimento dipenda dall’accertamento degli stessi fatti materiali che furono oggetto del procedimento penale.

Qui si discute della diversa questione dell’applicabilità all’azione civile dell’uno o dell’altro termine di prescrizione, ove sia stato accertato in sede penale che il fatto costituisce reato.

Il problema che si pone è quindi quello di stabilire se, al fine di applicare il più lungo termine di cui all’art. 2947 c.c., comma 3, occorre che l’illecito sia stato concretamente perseguito in sede penale come reato, o se sia sufficiente che il giudice civile ne accerti incidentalmente la natura di reato.

La giurisprudenza di questa Corte ha più volte deciso nel secondo senso, affermando che il giudice civile può qualificare il fatto come reato, anche se sia intervenuto decreto di archiviazione in sede penale (Cass. civ. Sez. 3^, 19 gennaio 2007 n. 1206; Cass. civ. Sez. 3^, 20 gennaio 2009 n. 1346).

Trattasi di soluzione che deve essere condivisa, ove si consideri che il termine di prescrizione è collegato all’oggettiva gravità dell’illecito; non al fatto che esso sia stato o meno perseguito nell’una o nell’altra sede.

Su questo presupposto è da ritenere corretta la decisione della sentenza impugnata, che ha ritenuto applicabile a RTI l’art. 2947 c.c., comma 3.

La circostanza che il principio non sia stato applicato nei confronti del M. avrebbe potuto giustificare l’impugnazione della sentenza di primo grado sul punto, ma non infirma la correttezza del dispositivo della sentenza di appello, quanto alla posizione di RTI. 5.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 595 e 596 bis c.p., artt. 2043 e 2055 c.c., art. 654 c.p.p., L. n. 223 del 1990, art. 8, e art. 112 c.p.c., nonchè omessa pronuncia e omessa motivazione, sul rilievo che la Corte di appello ha posto a fondamento della decisione di condanna di RTI la sentenza penale che ha accertato il reato di diffamazione a carico della P., sentenza che non produce effetti nei suoi confronti, in quanto essa non è stata parte del processo penale.

Il giudice di appello avrebbe dovuto perciò valutare specificamente e in concreto la sussistenza dell’illecito a suo carico.

Avrebbe poi dovuto rigettare la domanda degli attori, applicando a RTI l’esimente del diritto di cronaca, in quanto l’intervista trasmessa da (OMISSIS) riportava fedelmente tutte e solo le dichiarazioni rese dalla P., nel rispetto della continenza espositiva ed in relazione a vicenda di rilevante interesse pubblico, trattandosi dell’operato di una pubblica struttura ospedaliera, in un periodo in cui si erano verificati vari episodi di mala sanità.

Nè vi è stata negligenza dei responsabili dell’emittente nel valutare l’attendibilità delle dichiarazioni dell’intervistata, considerato che quest’ultima aveva lavorato per molti anni presso la (OMISSIS) Divisione dell’Ospedale; aveva sporto varie denunce contro l’operato degli addetti al reparto ed il suo licenziamento aveva sollecitato anche un’interrogazione parlamentare.

5.1. – Il motivo non è fondato.

Le accuse della P. – poi risultate infondate e diffamatorie nel processo penale – rivestivano oggettivamente una tale gravità, per cui correttamente la Corte di appello ha ritenuto che la responsabilità dell’emittente televisiva fosse da ravvisare in re ipsa, per avervi dato spazio senza previa verifica.

Vero è che – come rileva la ricorrente – si trattava della trasmissione di un’intervista e che l’intervistatore nulla ha aggiunto al contenuto delle dichiarazioni rese; ma la palese abnormità dei fatti narrati ed il sospetto di inaffidabilità dell’intervistata (persona licenziata dal responsabile del reparto a cui rivolgeva le sue accuse), avrebbero dovuto indurre ad esercitare un rigoroso vaglio critico sulla veridicità dei fatti.

Quanto al diritto di cronaca, esso non esime l’emittente – e per essa il giornalista a cui sia affidata la trasmissione – dal valutare con la debita cautela l’attendibilità delle informazioni a cui dia spazio, o quanto meno dall’istituire un minimo di contraddittorio, soprattutto a fronte di accuse di particolare gravità, interpellando anche l’accusato o chi per lui, sì da metterlo in condizione di difendersi nell’immediatezza degli addebiti e tramite lo stesso mezzo di diffusione.

L’esercizio del diritto di cronaca deve essere cioè attentamente calibrato, in considerazione da un lato dell’interesse del pubblico alla conoscenza dei fatti, se veri; dall’altro lato dell’entità dei danni che ne potrebbero ingiustamente derivare agli accusati, se i fatti non fossero veri.

La sentenza impugnata ha ritenuto – con valutazione di merito non suscettibile di riesame in questa sede di legittimità e comunque in linea di principio condivisibile – che nel caso in esame il controllo diretto ad evitare che, tramite la trasmissione della notizia, venissero commessi reati, sia stato gravemente carente, al punto da configurare oggettivamente concorso dell’intervistatore e dell’emittente televisiva nel reato commesso dall’intervistata.

6.- Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione degli artt. 1223, 1226 e 2056 c.c., art. 115 c.p.c., comma 2, motivazione insufficiente e contraddittoria o del tutto inesistente, nella parte in cui la Corte di appello ha emesso condanna al risarcimento dei danni in una somma uguale per ognuno degli attori, senza accertare il collegamento di ciascuno con il reparto ospedaliere, nè la posizione rivestita; quasi che tutti svolgessero le medesime funzioni ed avessero la medesima visibilità rispetto al pubblico.

6.1.- Il motivo non è fondato.

La Corte di appello ha confermato sul punto la sentenza di primo grado, rilevando che i danni sono stati liquidati con valutazione equitativa e senza riferimento agli aspetti patrimoniali e reddituali, che soli avrebbero potuto giustificare una differenziazione fra le posizioni delle parti lese.

Trattasi di valutazione condivisibile, ove si consideri che – in tema di danni all’onore ed alla reputazione, nei loro aspetti non patrimoniali – non vi è ragione di discriminare fra i vari appartenenti alla (OMISSIS) Divisione, in quanto la sanzione risarcitoria ha come parametro di riferimento la dignità della persona, che è uguale per tutti.

Nè può presumersi che le mansioni – in ipotesi più modeste ed oscure – svolte da alcuni debbano far presumere una minore sensibilità alle offese.

Correttamente rileva la Corte di appello, ancora, che l’unica posizione a sè stante, che avrebbe potuto giustificare l’adozione di peculiari criteri di liquidazione, era quella del Dott. A., che – quale responsabile in prima persona della direzione della (OMISSIS) Divisione – era anche il più conosciuto presso il pubblico e il più esposto al discredito derivante dalle accuse.

Si sarebbe potuta così giustificare l’attribuzione di una somma diversa e più alta, in favore del primario, ove fosse stata chiesta; ma non la discriminazione in negativo fra tutte o alcune delle altre posizioni.

7. – Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione della L. n. 47 del 1948, art. 12, nonchè insufficiente motivazione, relativamente al capo in cui la Corte di appello ha confermato l’imposizione a suo carico della sanzione pecuniaria di cui alla citata norma della legge sulla stampa, norma dettata per l’informazione cartacea e non per le comunicazioni televisive, che è da ritenere non suscettibile di applicazione analogica, in quanto sostanzialmente impone una pena pecuniaria.

Tanto è vero che la L. n. 223 del 1990, art. 90, regola autonomamente le fattispecie di diffamazione commesse con il mezzo televisivo, omettendo ogni riferimento al citato art. 12, e la Corte costituzionale, con sentenza n. 168 del 1982, ha ritenuto giustificata la disparità di trattamento e la maggiore severità delle norme in tema di diffamazione a mezzo stampa.

7.1.- Il motivo è fondato.

La sanzione pecuniaria di cui all’art. 12 della legge sulla stampa non costituisce una forma di risarcimento del danno, nè comporta una duplicazione delle voci di danno risarcibili, ma integra una ipotesi eccezionale di pena pecuniaria privata, prevista per legge (Cass. civ. Sez. 3^, 26 giugno 2007 n. 14761).

In quanto tale, non è suscettibile di applicazione analogica a casi diversi da quello per il quale è stata espressamente prevista.

La contraria soluzione richiederebbe un’espressa disposizione di legge: disposizione che nella specie non sussiste, in quanto la legge che regola i reati commessi con il mezzo televisivo (L. n. 223 del 1990, art. 90) non contiene alcun richiamo alla suddetta norma.

La sentenza impugnata deve essere per questa parte cassata.

8.- I due motivi del ricorso incidentale sono inammissibili per l’estrema genericità dei motivi, che non risultano affatto illustrati, nè sotto il profilo della violazione di legge; nè con riguardo ad eventuali vizi di motivazione.

9.- In accoglimento del quinto motivo di ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, nel capo investito dal motivo di ricorso, con rinvio della causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, la quale provvederà ad adottare le conseguenti statuizioni, ivi incluse quelle attinenti alla liquidazione delle spese del presente giudizio.

PQM

La Corte di cassazione riunisce i ricorsi.

Accoglie il quinto motivo del ricorso principale. Rigetta gli altri motivi e il ricorso incidentale.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, la quale deciderà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 8 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2010

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