Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6484 del 09/03/2021

Cassazione civile sez. VI, 09/03/2021, (ud. 15/12/2020, dep. 09/03/2021), n.6484

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18693-2019 proposto da:

K.E., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso

la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato GIOVANNA FRIZZI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 1858/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 07/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 15/12/2020 dal Consigliere Relatore Dott. FALABELLA

MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – E’ impugnata per cassazione la sentenza della Corte di appello di Venezia, pubblicata il 7 maggio 2019, con cui è stato respinto il gravame proposto da K.E. avverso l’ordinanza ex art. 702 ter c.p.c., comma 5, del Tribunale di Venezia del 29 aprile 2017. La nominata Corte ha negato che al ricorrente potesse essere riconosciuta qualsiasi forma di protezione internazionale.

2. – Il ricorso per cassazione si fonda su quattro motivi. Il Ministero dell’interno, intimato, non ha svolto difese.

Il Collegio ha autorizzato la redazione del provvedimento in forma semplificata.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5. La censura investe il provvedimento impugnato nella parte in cui la Corte di appello ha rilevato, da un lato, che l’istante aveva riferito di abitare in un villaggio ove vivevano circa trenta o quaranta famiglie, e, dall’altro, che la Commissione territoriale aveva accertato che in quella località erano stanziati circa ottomila abitanti; secondo il giudice distrettuale, “(g)ià solo questo dato, non confutato in alcun modo dall’appellante, sarebbe sufficiente per concludere che K. stia nascondendo il luogo da cui proviene”. Rileva il ricorrente che la presunzione di cui si è avvalso il Collegio veneziano non aveva i caratteri della gravità, della precisione e della concordanza: infatti nel riferire di famiglie, essa istante avrebbe potuto ben riferirsi a clan familiari, ciascuno dei quali può contare centinaia di componenti.

Il motivo è inammissibile.

Il giudizio di non credibilità del ricorrente si fonda su plurime evidenze.

Il motivo di ricorso si occupa solo della rilevata non congruenza dei dati riferiti alla popolazione del centro abitato da cui proverrebbe il ricorrente, e lo fa attraverso una mera supposizione (quella per cui K., avrebbe potuto intendere per famiglia un più vasto aggregato coincidente con la figura del clan familiare). E’ questa, per l’appunto, una semplice ipotesi: e come tale essa non può essere sottoposta al vaglio di questa Corte, la quale non è giudice del merito.

Il mezzo di impugnazione nulla oppone, invece, agli ulteriori argomenti su cui la Corte di merito pure basa il giudizio di non credibilità: l’essere incomprensibile che il figlio di una famiglia benestante, una volta scoperto l’assassinio dei genitori, fugga immediatamente dal Senegal, senza denunciare il reato, senza partecipare alle esequie funebri e senza interessarsi dell’eredità; il rilievo per cui, come rilevato dalla Commissione territoriale, K. non aveva fornito alcuna plausibile indicazione sul movente del duplice omicidio che avrebbe riguardato membri della propria famiglia e sulla identità dei presunti responsabili.

Ciò detto, la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007 ex art. 3, comma. 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (Cass. 5 febbraio 2019, n. 3340): ma censure in tal senso non sono state sollevate.

2. – Il secondo mezzo oppone la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in combinato disposto con lo stesso D.Lgs., art. 3, comma 3, oltre che l’omesso esame di un fatto decisivo, per non avere il giudice di appello analizzato il contesto socio-economico interno al Senegal. Rileva il ricorrente che la propria famiglia era stata sterminata dai ribelli del gruppo MFDC (Mouvement des forces democratiques de Casamance) e che la sorellastra era stata rapita e tenuta in ostaggio, senza che si fosse avuta più alcuna notizia della medesima. Deduce che in una situazione siffatta doveva ritenersi concretata la condizione della minaccia grave individuale di subire un danno alla persona di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c): poichè la famiglia di esso K. era stata presa di mira a causa della propria agiatezza economica e diversi membri della stessa erano stati già uccisi o sottoposti a violenza fisica o psicologica, doveva presumersi che l’istante “sarebbe stato il prossimo a trovarsi nella stessa situazione”. Viene osservato, al riguardo, che i fatti denotanti situazione di belligeranza all’interno di un paese non comprendono la sola instabilità politica, ma anche circostanze di ordine sociale, religioso, economico e culturale.

Con il terzo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3. La Corte di merito – è spiegato – ha in parte fatto uso dei propri poteri ufficiosi con riguardo alla situazione politico-istituzionale dei Senegal, ma ha omesso di considerare gli aspetti di contorno socio-culturale, economico e religioso; è rimarcato, in proposito, come l’integrazione probatoria d’ufficio costituisca un obbligo del giudicante qualora il ricorrente abbia provveduto ad allegare e circostanziare i fatti costitutivi del suo diritto alla protezione internazionale.

I due motivi, vertenti sulla protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), possono esaminarsi congiuntamente; sono inammissibili.

Come ha avuto modo di precisare la Corte di giustizia, nell’interpretare l’art. 15, lett. c), della direttiva del Consiglio n. 2004/83/CE (di cui la richiamata norma nazionale costituisce recepimento), l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria non è subordinata alla condizione che quest’ultimo fornisca la prova di essere specifico oggetto di minaccia a motivo di elementi peculiari della sua situazione personale. Ciò implica che la protezione sussidiaria, nel caso in esame, vada accordata per il sol fatto che il richiedente provenga da territorio interessato dalla menzionata situazione di violenza indiscriminata: situazione in cui il livello del conflitto armato in corso è tale che l’interessato, rientrando in quel paese o in quella regione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (Corte giust. 17 febbraio 2009, C-465/07, Elgafaji, richiamata da Corte giust. 30 gennaio 2014, C-285/12, Diakitè; per la giurisprudenza nazionale cfr. pure, di recente: Cass. 2 aprile 2019, n. 9090; Cass. 13 maggio 2018, n. 13858; Cass. 23 ottobre 2017, n. 25083; Cass. 21 luglio 2017, n. 18130).

Ora, la Corte di merito ha ritenuto, sulla base di un’attenta ricognizione delle pertinenti fonti informative, citate nel corpo del provvedimento impugnato, che nè il Senegal nel suo insieme, nè la regione del Casamance siano interessate alla detta situazione di violenza generalizzata.

Il manifestato timore di essere vittima di una futura azione violenta del gruppo MFDC non può ritenersi concludente, ai fini dell’indicata forma di protezione. Quel che manca, per configurare la fattispecie di cui all’art. 14, lett. c), cit. è la presenza, nella regione del rimpatrio, di un conflitto armato generatore di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria: e cioè il ricorrere di una violenza indiscriminata che abbia raggiunto un livello talmente elevato da far presumere il rischio di cui si è detto. L’azione dei ribelli del richiamato movimento indipendentista rileverebbe, quindi, solo se da essa discenda una tale situazione di diffusa e grave esposizione a pericolo della comunità stanziata nel territorio: situazione che la Corte di appello ha escluso sulla base di un apprezzamento di fatto riservato al giudice del merito (Cass. 12 dicembre 2018, n. 32064), suscettibile di essere censurato in sede di legittimità a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. 21 novembre 2018, n. 30105), oltre che per assenza di motivazione (nel senso precisato da Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054). L’istante ha per la verità denunciato, con riguardo all’accertamento in questione, l’omesso esame di un fatto decisivo: ma lo ha fatto con riguardo a non meglio precisate “circostanze di ordine sociale, religioso, economico e culturale”; al di là della genericità dell’allegazione, tali fattori non possono certamente assumere alcuna decisività, ai fini che qui interessano, visto che – come si è detto – ai fini della protezione sussidiaria ex art. 14, lett. c) rileva la situazione di violenza indiscriminata in presenza di conflitto interno o internazionale: situazione che è stata positivamente esclusa dal giudice del merito. Allo stesso modo, non assume rilievo il fatto che la Corte di appello abbia trascurato di indagare l’altrettanto vago “contorno socioculturale, economico e religioso” del Senegal. Pur volendo prescindere dal fatto che le informazioni acquisite nel precorso giudizio di merito hanno riguardato, a largo raggio, la generale condizione del paese di provenienza del richiedente, e non solo la presenza, sul territorio, di azioni violente più o meno estese (cfr. infatti pagg. 8 ss. della sentenza impugnata), è del tutto evidente che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria di cui qui si dibatte, vada verificata l’esistenza, o meno, della richiamata situazione di violenza indiscriminata.

3. – Il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 386 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, commi 1 e 1.1. La doglianza investe la decisione avente ad oggetto il rigetto della domanda di protezione umanitaria. Premesso che i presupposti per il riconoscimento di tale forma di protezione debbono essere oggetto di un accertamento puntuale, riferito al singolo caso, è rilevato come la valutazione svolta dal giudice di appello sulla base di una inferenza logicamente errata, e denunciata nel primo motivo di ricorso, circa la non credibilità dell’istante, non poteva fondare la pronuncia reiettiva. Viene osservato che numerose, recenti sentenze di merito avevano accertato che il Senegal e la regione del Casamance sono caratterizzati da persistente instabilità politica, oltre che da una gravissima crisi economica e che, da ultimo, la Corte d’appello aveva mancato di effettuare alcuna comparazione tra la situazione attualmente vissuta dall’istante in Italia e quella nella quale il medesimo versava in Senegal al momento dell’espatrio.

Il motivo è inammissibile.

La Corte di appello ha anzitutto valorizzato l’inattendibilità del ricorrente e le contraddizioni in cui era incorso (affermando, per un verso, che lo stesso proveniva da una famiglia benestante e, per altro verso, che in caso di rientro in Senegal egli si troverebbe senza denaro); ha quindi osservato che lo stesso K. aveva allegato in termini del tutto generici un proprio percorso di integrazione e rilevato che, isolatamente considerati, nè l’integrazione sociale in Italia nè il contesto generale di compromissione dei diritti umani nel paese di provenienza costituiscono condizioni sufficienti per un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

La decisione impugnata, sul punto, sfugge a censura.

Anzitutto è da osservare che i criteri posti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, trovano applicazione anche in tema di protezione umanitaria (Cass. 24 settembre 2012, n. 16221).

In secondo luogo, la situazione di vulnerabilità deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455, in motivazione; Cass. 2 aprile 2019, n. 9304; cfr. pure la recente Cass. Sez. U. 13 novembre 2019, n. 29459, sempre in motivazione).

4. – Il ricorso va in conclusione dichiarato inammissibile.

5. – Nulla è ovviamente da statuire in punto di spese processuali.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6a Sezione Civile, il 15 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2021

 

 

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