Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6456 del 17/03/2010

Cassazione civile sez. trib., 17/03/2010, (ud. 22/01/2010, dep. 17/03/2010), n.6456

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – rel. Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19961/2005 proposto da:

HERMANN VOGUE DI BASSANELLO ELIANO E TROVO’ DARIA SNC in persona del

socio e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati

in ROMA PIAZZA DI PRISCILLA, 4, presso lo studio dell’avvocato COEN

STEFANO, che li rappresenta e difende, giusta delega a margine;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 25/2005 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA

depositata il 05/05/2005 e avverso la sentenza n. 83/2002 deposita

in data 26/3/2003 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/01/2010 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il ricorrente l’Avvocato RIZZACASA, per delega depositata

in udienza dell’Avvocato COEN, che si riporta;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ABBRITTI Pietro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

IN FATTO E IN DIRITTO

La s.n.c. Hermann Vogue di Bassanello Eliano e Trovò Daria propone ricorso per cassazione nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e dell’Agenzia delle Entrate (che resistono con controricorso) e avverso la sentenza della CTR Veneto che (in controversia concernente impugnazione di avvisi di accertamento Ilor e di rettifica parziale Iva per gli anni 90, 92, 93, 94 e 95) riformava la sentenza di primo grado, respingeva i ricorsi riuniti proposti dalla società, nonchè avverso la sentenza con la quale la C.T.R. Veneto respingeva il ricorso in revocazione proposto avverso la predetta sentenza d’appello. In particolare, posto che, a seguito di verifica presso la ditta individuale R.F., venivano ritrovati alcuni assegni tratti dai conti correnti del R. e recanti la firma di girata di B.E., i giudici d’appello affermavano: che l’impugnazione doveva ritenersi ammissibile perchè conteneva tutti gli elementi richiesti dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, e in particolare, la specificità dei motivi; che gli avvisi opposti risultavano legittimamente motivati per relationem; che i primi giudici avevano ritenuto che il B. nelle operazioni contestate avesse agito non per la Herman Vogue, della quale era socio, bensì per la ditta individuale della moglie T.D. senza una autonoma valutazione dei fatti risultanti dal p.v.c. della G.d.F. ma esclusivamente sulla base delle deduzioni di parte.

Per quanto concerne la sentenza pronunciata in sede di revocazione, i giudici della C.T.R. ritenevano non configurabile l’errore revocatorio di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, in quanto i giudici d’appello non avevano escluso tout-court l’esistenza in atti di fatture o bolle di accompagnamento della ditta T., bensì l’esistenza di documentazione suddetta riferibile agli assegni rinvenuti presso il R., come evidenziato dal riferimento della sentenza impugnata in revocazione alle “operazioni commerciali in contestazione”.

MOTIVI DELLA DECISIONE Deve innanzitutto rilevarsi che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, è ammissibile il ricorso per cassazione proposto congiuntamente con unico atto sia contro la sentenza di appello che contro quella emessa nel successivo giudizio di revocazione, stante l’obiettivo collegamento tra le due decisioni, così che il relativo atto, ancorchè documentalmente unico, è sostanzialmente comprensivo di due distinte impugnazioni (v. Cass. n. 3107 del 1991).

Sempre secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, nel caso in cui il ricorso contro la sentenza d’appello e contro la sentenza emessa nel successivo giudizio di revocazione siano proposti con un unico atto, ovvero con ricorsi distinti ma successivamente riuniti, il ricorso contro la sentenza emessa in sede di revocazione deve essere esaminato per primo e, se esso viene rigettato, può essere esaminato il ricorso proposto contro la sentenza d’appello (v. Cass. n. 5918 del 1979, n. 1297 del 1977 e n. 7919 del 1987).

Deve pertanto essere esaminato per primo il ricorso per revocazione.

Con un unico motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64, oltre che omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, la ricorrente afferma che i giudici aditi in sede di revocazione avevano sostituito una propria argomentazione autonoma a quella sviluppata dai giudici d’appello (e, in ipotesi, affetta da errore di fatto), posto che, come evidente dalle affermazioni contenute nella sentenza d’appello, ì giudici della C.T.R. avevano ritenuto che la sola prova idonea a superare la presunzione dell’Ufficio fosse una prova documentale che valesse a dimostrare in modo diretto che la ditta T. operava con R., affermando che nella specie la società aveva prodotto solo argomentazioni logiche, senza, in particolare, fornire la prova (attraverso fatture o bolle di accompagnamento) che nella specie trattavasi di cessioni effettuate dalla R. alla T..

Secondo la ricorrente, inoltre, i giudici delle revocazione non avrebbero in alcun modo spiegato il contrasto insanabile tra la premessa della sentenza d’appello, nella quale si afferma di aver valutato gli atti e di ritenere necessaria la prova documentale della fatturazione T. – R. e la conclusione della sentenza, secondo la quale mancherebbe la prova documentale, non avendo la parte prodotto altro che argomentazioni logiche.

La censura è in parte infondata e in parte inammissibile.

I giudici aditi in sede di revocazione hanno interpretato la sentenza impugnata e, sulla base di tale interpretazione, hanno escluso che nella specie fosse configurabile un errore revocatorio. In proposito, è innanzitutto da evidenziare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, l’interpretazione della sentenza impugnata compete al giudice dell’impugnazione (essendo, anzi, il primo dei suoi doveri) e il sindacato sulla correttezza di tale interpretazione può essere sollecitato solo con un’espressa censura, in sede di legittimità, che investa, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, l’attività ermeneutica del giudice dell’impugnazione (v. Cass. n. 3248 del 2003).

Nella specie, l’interpretazione in parola è censurata sul piano della motivazione esclusivamente per non aver spiegato il contrasto che sussisterebbe tra la prima parte della sentenza di appello, nella quale si afferma di aver valutato gli atti e di ritenere necessaria la prova documentale della fatturazione T.- R., e la conclusione della predetta sentenza, secondo la quale mancherebbe la prova documentale, non avendo la parte prodotto altro che argomentazioni logiche.

Giova in proposito innanzitutto rilevare che l’eventuale contraddittorietà tra le diverse parti di una sentenza di per sè vale ad evidenziare un vizio di logicità della motivazione della sentenza medesima (nella specie, quella di appello), non di altra sentenza (nella specie, quella pronunciata in sede di revocazione).

Peraltro, anche a voler ritenere che col ricorso in esame si censuri sul piano della motivazione la sentenza emessa in sede di revocazione per non avere i giudici della revocazione, nell’interpretare la sentenza d’appello, considerato (e “spiegato”) il contrasto tra le due parti della suddetta sentenza d’appello, la censura, a prescindere dalla sua genericità, si rivela destituita di fondamento, posto che le affermazioni asseritamente in contrasto non risultano logicamente incompatibili con l’interpretazione della sentenza d’appello fornita dai giudici della revocazione. In particolare, l’espressione “esaminata la documentazione allegata” e l’affermazione secondo la quale non sarebbe stata fornita “alcuna prova dalla ditta ricorrente che trattasi di cessioni effettuate dalla ditta T., quali ad esempio, fatture, bolle di accompagnamento beni viaggianti ed altro”, risultano compatibili sia tra loro sia con l’interpretazione fatta propria dai giudici aditi in sede di revocazione, secondo i quali i giudici d’appello non avevano inteso escludere che fosse stata prodotta prova documentale, ma che fosse stata prodotta prova documentale concernente le operazioni commerciali riferibili agli assegni rinvenuti.

L’interpretazione della sentenza impugnata fornita dai giudici aditi in sede di revocazione non risulta pertanto adeguatamente censurata in questa sede e, sulla base di tale interpretazione, deve escludersi la sussistenza del vizio revocatorio denunciato.

Col primo motivo proposto avverso la sentenza d’appello, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, la ricorrente afferma l’apoditticità della sentenza d’appello nella parte in cui si afferma la specificità dei motivi di impugnazione, benchè nell’atto d’appello l’Ufficio si fosse limitato a riproporre la lettura del p.v.c., senza affrontare la questione essenziale della presenza di rapporti commerciali tra la ditta T. e il R..

La censura è inammissibile per difetto di autosufficienza. Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, infatti, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, quando venga denunciata una violazione o falsa applicazione di norme processuali, la parte ricorrente deve indicare gli elementi fattuali condizionanti l’ambito di operatività di detta violazione, con la conseguenza che, ove si asserisca la erronea valutazione di atti, è necessario procedere alla trascrizione integrale dei medesimi o del loro essenziale contenuto al fine di consentire il controllo della decisività delle operate deduzioni unicamente sulla base del ricorso, (v. tra le altre Cass. n. 4840 del 2006 e, con particolare riguardo all’atto d’appello, n. 20405 del 2006).

In ogni caso, anche solo sulla base delle affermazioni contenute nella sentenza impugnata (secondo le quali nell’atto d’appello la sentenza impugnata sarebbe stata censurata per carenza di motivazione, non avendo illustrato tutte le argomentazioni svolte dall’Ufficio), affermazioni non specificamente censurate sul punto, dovrebbe escludersi la denunciata mancanza di specificità, posto che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, nel contenzioso tributario l’indicazione dei motivi specifici dell’impugnazione, richiesta dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi, invece, soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza (v. Cass. n.1574 del 2005), e dovendo evidenziarsi che la specificità richiesta dalla norma in esame non significa completezza, fondatezza o condivisibilità della censure proposte, onde l’aver eventualmente omesso di affrontare una determinata questione nella proposizione del motivo, (come affermato nella specie da parte ricorrente) potrebbe incidere sulla fondatezza del medesimo, non necessariamente sulla sua specificità nel senso inteso dal citato art. 53.

Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, L. n. 212 del 2000, art. 7, e L. n. 241 del 1990, art. 3, oltre che vizio di motivazione, la ricorrente sostiene che avrebbero errato i giudici di appello nel ritenere che gli avvisi opposti erano stati correttamente motivati per relationem, essendo noti alla parte i due p.v.c. in essi richiamati, benchè il ricorrente avesse più volte sostenuto di non aver avuto conoscenza della verifica a carico del R.. Secondo la ricorrente, pertanto, gli accertamenti si fondano su di un verbale che riassume le conclusioni di altre indagini, senza che la parte sia stata posta in grado di conoscere il contenuto e le modalità della verifica a carico del R. nonchè il materiale acquisito in tale circostanza.

La censura è inammissibile per difetto di autosufficienza.

Secondo la univoca giurisprudenza di questo giudice di legittimità, infatti, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento -il quale non è atto processuale, bensì amministrativo, la cui motivazione, comprensiva dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che lo giustificano, costituisce imprescindibile requisito di legittimità dell’atto stesso -, è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente i passi della motivazione di detto atto che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi dal giudice di merito, al fine di consentire alla Corte di cassazione di esprimere il suo giudizio sulla suddetta congruità esclusivamente in base al ricorso medesimo (v. tra le altre Cass. n. 15867 del 2004).

Peraltro, la ricorrente non censura la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici d’appello hanno affermato che gli avvisi de quibus erano motivati con un rinvio per relationem a due p.v.c. conosciuti dalla parte, deduce invece di non aver avuto conoscenza delle modalità e dei contenuti della verifica effettuata presso il R., pertanto, per il citato principio di autosufficienza, la ricorrente avrebbe dovuto riportare in ricorso non solo gli avvisi opposti, ma anche i p.v.c. ai quali gli avvisi fanno rinvio, al fine di consentire a questo giudice di verificare se quanto in essi riportato (eventualmente anche con riguardo ad elementi concernenti la verifica a carico del R.) sia idoneo ad integrare la motivazione degli avvisi opposti.

Col terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’artt. 2927 c.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, oltre che vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere i giudici d’appello ritenuto che la prova presuntiva offerta dall’Ufficio potesse essere superata esclusivamente da prove documentali contrarie oppure da elementi certi ed inconfutabili e non da argomenti logici. La ricorrente censura inoltre la sentenza impugnata per non avere i giudici d’appello considerato che la prova presuntiva offerta dall’ufficio era illogica, superata da altre numerose prove presuntive in senso contrario, incompatibile con altre prove nonchè superata da prove documentali acquisite agli atti e per non aver considerato: che le operazioni tra il B. e il R. erano proseguite anche dopo la cessazione della Herman Vogue; che la Herman Vogue è dattagliante e non ha, a differenza della ditta T., possibilità di lavorare la merce oggetto del commercio del R.; che il luogo di negoziazione degli assegni de quibus è vicino alla sede della ditta T. ma lontanissimo da quella della Hermann Vogue; che sia il B. sia il R., già in sede di verifica, affermarono che gli assegni si riferivano alla ditta T.; che anche la G.d.F. aveva dato atto che prima dell’esito della verifica erano state esibite le fatture della ditta T. attestanti che il R. commerciava con tale ditta.

Col quarto motivo, deducendo omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, omesso esame di fatti e prove decisive, la ricorrente rileva che dal verbale della G.d.F. non risulta che gli assegni con la firma di girata del B. siano mai transitati sul conto della Hermann, mentre che la suddetta società aveva dimostrato che alcuni degli assegni in questione erano stati incassati dalla ditta T. e, con esibizione integrale dei relativi estratti conto, che nessuno dei suddetti assegni era stato incassato dalla Hermann Vogue, mentre la sentenza impugnata non da atto di tali produzioni e si fonda esclusivamente sul fatto che alcuni assegni emessi dal R. erano stati girati dal B..

I due suesposti motivi, da esaminare congiuntamente perchè connessi, sono fondati nei termini di cui in prosieguo.

E’ innanzitutto da evidenziare che, nella parte iniziale del ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza, viene descritta la documentazione prodotta, ma di tale documentazione non si da alcun conto nella sentenza impugnata. In detta sentenza non risultano inoltre esaminate le argomentazioni logiche dedotte dalla società a sostegno della maggiore attendibilità di una connessione degli assegni de quibus ad operazioni con la ditta T. piuttosto che con la s.n.c. Hermann Vogue: dette argomentazioni sono in parte sinteticamente riportate in sentenza, ma non esaminate perchè bollate come “semplici argomentazioni” e non “elementi certi ed incontestabili”.

Tanto premesso, in punto di diritto occorre evidenziare che non è necessario che una prova peraltro presuntiva, quale quella posta dall’amministrazione a base degli avvisi opposti sia vinta da una prova piena (“elementi certi ed incontestabili”), avendo perciò il giudice il dovere di valutare anche la prova indiziaria fornita in senso contrario.

In punto di fatto, risultando in maniera autosufficiente dal ricorso una serie di documenti e argomentazioni logiche non valutate dai giudici d’appello, deve ritenersi che la sentenza impugnata sia affetta da vizio di motivazione, posto che essa è fondata su pochi indizi (sostanzialmente: l’esistenza di assegni girati dal B. e l’aver svolto il B. attività prevalente per la Hermann Vogue) neppure valutati criticamente in relazione alle argomentazioni logiche esposte dalla parte, omettendo ogni valutazione in ordine alla produzione documentale indiziaria di segno contrario.

E’ da aggiungere, ai fini della decisività richiesta dall’art. 360 c.p.c., n. 5, che, anche se non singolarmente, gli indizi in esame nell’insieme potrebbero essere idonei a determinare una decisione diversa.

Col quinto motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, la ricorrente sostiene che ì giudici d’appello hanno errato nel ritenere che la sentenza di primo grado avrebbe dovuto soffermarsi puntualmente sulle argomentazioni svolte dall’Ufficio, sia perchè i primi giudici avevano valutato le argomentazioni dell’Ufficio, sia perchè, in ogni caso, una simile valutazione non è prevista tra ì requisiti della sentenza. La censura è inammissibile. I giudici d’appello nella sentenza impugnata non hanno affermato che i primi giudici erano incorsi in error in procedendo (violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e/o dell’art. 132 c.p.c.) per mancanza di uno dei requisiti della sentenza previsti a pena di nullità, ma si sono limitati ad affermare che la sentenza di primo grado era affetta da un vizio di motivazione per omessa valutazione delle argomentazioni svolte dall’Ufficio.

E’ inoltre da evidenziare che, al di là delle ipotesi tassative ed eccezionali previste dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 59 comma 1, il giudizio dinanzi alla C.T.R. assume le caratteristiche generali del mezzo di gravame, ossia del mezzo di impugnazione a carattere sostitutivo, quindi la sentenza di secondo grado sostituisce, nel rispetto della devoluzione occasionata dall’appello, quella di primo grado, sia essa di conferma o di riforma, con la conseguenza che, non potendo il riscontrato vizio di motivazione determinare un “annullamento con rinvio”, la motivazione della sentenza d’appello si sostituisce a quella di primo grado ritenuta viziata, onde la parte non ha alcun interesse a censurare la sussistenza o meno di vizi nella motivazione della sentenza di primo grado, potendo e dovendo censurare la motivazione della sentenza d’appello che, in virtù dell’effetto devolutivo, ad essa si è sostituita.

Alla luce di quanto sopra esposto, l’impugnazione proposta avverso la sentenza pronunciata in sede di revocazione deve essere rigettata e le relative spese, liquidate come in dispositivo, devono essere poste a carico della parte soccombente.

Devono essere invece accolti, nei termini sopra chiariti, il terzo e il quarto motivo dell’impugnazione avverso la sentenza d’appello, mentre devono essere rigettati il primo, il secondo e il quinto. La sentenza d’appello deve essere perciò cassata in relazione ai motivi accolti con rinvio ad altro giudice che provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

PQM

Rigetta l’unico motivo di ricorso proposto avverso la sentenza pronunciata in sede di revocazione e condanna la soccombente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.700,00 di cui Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge. Accoglie il terzo e il quarto motivo dell’impugnazione proposta avverso la sentenza d’appello e rigetta gli altri. Cassa la sentenza d’appello in relazione ai motivi accolti e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Veneto.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2010

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