Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6456 del 09/03/2021

Cassazione civile sez. II, 09/03/2021, (ud. 22/09/2020, dep. 09/03/2021), n.6456

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubalda – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 23902/2019 R.G. proposto da:

O.O., rappresentato e difeso dall’avv. Filippo Bersani,

con domicilio in Milano, Via Balduccio di Pisa n. 7;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio in Roma,

Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso il decreto del tribunale di Milano n. 6063/2019, depositato

in data 10.7.2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 22.9.2020 dal

Consigliere FORTUNATO Giuseppe.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con Decreto n. 6063/2019, il Tribunale di Milano ha respinto la domanda di protezione internazionale proposta da O.O..

Il ricorrente aveva dedotto di provenire da Benin City, regione dell’Edo State (Nigeria), ove era titolare di un negozio di elettrauto; che, a causa di un incendio, aveva danneggiato un camion carico di merce di proprietà di terzi, che avevano chiesto di esser risarciti e che gli avevano praticato violenza; di aver deciso di abbandonare la Nigeria e di esser recato in Libia per giungere, successivamente, in Italia.

Il tribunale, ritenuto di non dover procedere all’audizione, avendo a disposizione tutti gli elementi per definire la causa e non avendo l’interessato allegato fatti nuovi rispetto a quanto rappresentato alla Commissione territoriale, ha valutato l’attendibilità del racconto dell’interessato alla stregua dei parametri fissati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, osservando che questi non aveva svolto alcuno sforzo per circostanziare la domanda, aveva reso dichiarazioni generiche riguardo all’episodio riferito e non aveva fornito una ragionevole spiegazione delle ragioni che gli avevano impedito di fornire elementi di prova.

Ha escluso di dover attivare i poteri istruttori di indagine, ritenendo che le circostanze allegate non fossero comunque riconducibili ai presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, essendo stata rappresentata una vicenda di carattere esclusivamente privato, per i quali il ricorrente avrebbe potuto ottenere tutela dalle autorità locali, dando altresì rilievo alla datazione dei fatti rappresentati. Riguardo alla protezione sussidiaria, la pronuncia ha giudicato insussistente il pericolo di un danno grave ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), mentre con riferimento all’ipotesi sub c), ha osservato che in Nigeria non si configurava affatto una situazione di violenza indiscriminata, tantomeno con riferimento alla regione di provenienza del ricorrente.

In merito alla protezione umanitaria, il decreto ha negato una situazione di vulnerabilità soggettiva dell’interessato, evidenziando che questi non aveva conseguito un effettivo radicamento nel contesto italiano.

La cassazione del decreto è chiesta da O.O. con ricorso in quattro motivi, illustrati con memoria.

Il Ministero dell’interno resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sostenendo che il tribunale non abbia esaminato “il motivo di opposizione riguardante l’omessa traduzione in lingua inglese o comunque in un idioma noto al ricorrente”.

Il secondo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 3 e 5, artt. 7 e 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per aver il tribunale erroneamente ritenuto inattendibile il racconto del richiedente asilo, senza esaminare la situazione del paese di provenienza, trascurando che, come riferito da più fonti giornalistiche, le autorità locali erano inclini all’uso della violenza e solo gli appartenenti alle classi agiate erano adeguatamente tutelati, mentre, anche per la propria estrazione sociale, il ricorrente era esposto alla violenze dei soggetti danneggiati dall’incendio.

Si assume inoltre che le vicende poste a fondamento della domanda erano state descritte in modo compiuto ed esaustivo e che la ritenuta non credibilità delle dichiarazioni rese in giudizio sia stato il frutto di un personale convincimento del giudice, disancorato dagli indicatori di credibilità ex art. 3, comma 5, non potendosi comunque valorizzare la datazione dei fatti o elementi del tutto marginali dei fatti narrati.

Il terzo motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 14 e 19, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamentando che la pronuncia abbia affermato che il ricorrente potesse confidare sulla tutela delle autorità locali, mentre tale richiesta di protezione era rimasta del tutto inevasa, essendo concreto il rischio di ritorsioni. Secondo il ricorrente, il tribunale avrebbe inoltre omesso di valutare le condizioni soggettive dell’interessato e le particolarità della sua vicenda personale, giungendo a negare che l’Edo state fosse caratterizzato da un clima di violenza indiscriminata, in contrasto con quanto risultante da precedenti di merito, espressisi in senso opposto.

Il quarto motivo denuncia la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1 ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la pronuncia negato la protezione umanitaria senza esaminare le condizioni in cui versano i ceti meno abbienti nel paese di provenienza e la perdita, da parte del ricorrente, di ogni riferimento familiare e sociale nel paese di origine, omettendo la dovuta comparazione con l’integrazione conseguita in Italia.

2. Il primo motivo è inammissibile.

La doglianza si palesa del tutto generica, senza alcuna indicazione degli atti di cui era richiesta la traduzione, posto che l’obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale, nonchè quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, è previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5, al fine di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione. Ne consegue che la parte, ove censuri la decisione per l’omessa traduzione, non può genericamente lamentare la violazione di detto obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non sia stato tradotto e quale pregiudizio ne sia derivato all’esercizio del diritto di difesa (Cass. 13769/2020; Cass. 11295/2019; Cass. 11871/2011).

3. Il secondo e il terzo motivo, che vanno esaminati congiuntamente, sono infondati.

La valutazione di inattendibilità del discorso del ricorrente non risulta il frutto di un personale convincimento del giudice o dell’utilizzo di schemi concettuali estranei al contesto di riferimento, ma appare effettuata in puntuale applicazione dei criteri di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, avendo il tribunale osservato che l’interessato non aveva compiuto ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda, supportata, per contro, da dichiarazioni contraddittorie riguardo all’attività svolta, generiche riguardo alla datazione, alle cause degli eventi e alle stesse conseguenze dell’incendio.

Con osservato dal decreto impugnato: a) l’interessato non aveva in alcun modo giustificato la impossibilità di comprovare la domanda, specie riguardo alle denunce sporte e all’attività lavorativa esercitata nel paese di provenienza; b) le dichiarazioni apparivano implausibili anche riguardo alle attività investigative svolte dalle autorità locali e alle ragioni del diniego di tutela ricevuto in patria.

La valutazione di inattendibilità del racconto dell’interessato non appare effetto neppure di un’indebita enfatizzazione di elementi di dettaglio o meramente secondari, vertendo piuttosto su profili di coerenza interna del narrato, in ossequio anche al parametro di cui all’art. 3, comma 5, lett. c), del citato decreto.

Tale giudizio sorregge validamente la statuizione di rigetto della domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione sussidiaria con riferimento alle ipotesi sub D.Lgs. n. 251 del 2007, lett. a) e b) e la richiesta di protezione umanitaria.

Giova ribadire che, in tema di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve avere innanzi tutto ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona, e qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere a un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 16925/2018; Cass. 4892/2019).

Detta valutazione di non credibilità integra una autonoma e autosufficiente ratio decidendi della sentenza impugnata che, se non (o, come in questo caso, infondatamente) censurata, è destinata a consolidarsi e a precludere, in sede di impugnazione, lo scrutinio dei motivi inerenti ai profili sostanziali della domanda di protezione, rendendola di per sè insuscettibile di accoglimento, poichè non sussistono elementi sui quali concretamente basare una decisione in senso positivo (in termini, Cass. 3237/2019; Cass. 33096/2018; Cass. 33137/2018; Cass. 33139/2018; Cass. 21668/2015).

Il giudizio espresso in proposito dalla Corte distrettuale sostanzia, infine, un apprezzamento che, ove rispettoso dei criteri di cui all’art. 3, comma 5, attiene al fatto e resta quindi incensurabile, apparendo, anche nello specifico, logicamente motivato.

Resta, quindi, esclusa anche la violazione denunciata con il secondo motivo, non potendo contestarsi direttamente gli esiti di tale apprezzamento, venendo altrimenti attinti profili di merito logicamente motivati e pertanto incensurabili.

3.1. Quanto al diniego dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria ai sensi dell’art. 14, lett. a) e b), le censure non attingono la complessiva argomentazione della pronuncia, che ha reputato decisiva non tanto la possibilità per il ricorrente di ottenere tutela da parte delle autorità locali rispetto alle minacce e al pericoli di aggressione, quanto la natura privata della lite e l’impossibilità di sussumere i fatti narrati tra le ipotesi di danno grave (quale pericolo di essere sottoposto alla pena capitale, alla tortura o ad altro trattamento inumano o degradante), conferendo il dovuto rilievo anche alla collocazione cronologica delle descritte vicende personali, ormai ampiamente datate.

Va osservato che le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi, ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali, ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui all’art. 5, lett. b), del citato decreto (Cass. 9043/2019; Cass. 18148/2020).

3.2. Riguardo, infine, alla protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la censura si limita a valorizzare un’unica pronuncia di merito, senza contestare il rilievo e l’aggiornamento delle fonti di conoscenza utilizzate dal tribunale, intendendo confutare inammissibilmente l’apprezzamento in fatto svolto dal giudice di merito, fondato sulle informazioni acquisite da fonti internazionali accreditate ed aggiornate (cfr. decreto, pag. 7 e ss.), circa l’assenza, nella zona di provenienza del ricorrente, di una situazione di violenza indiscriminata, questione su cui è ammissibile esclusivamente il controllo sulla motivazione o sulla pertinenza, aggiornamento e attendibilità delle fonti informative utilizzate.

Va, in definitiva, ribadito che, in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può, difatti procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio, ma occorre che la censura dia atto in modo specifico degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire a questa Corte l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria.

4. Il quarto motivo è infondato, poichè la Corte distrettuale ha,

sia pure sinteticamente, dato conto del fatto che la vicenda dedotta in giudizio non prospettava alcuna specifica situazione di rischio ricollegabile ad un clima di generale violazione dei diritti umani nel paese di origine, ma una vicenda di carattere esclusivamente privato, ponendo in rilievo un difetto di allegazione delle circostante legittimanti l’emissione del permesso di soggiorno e l’irrilevanza degli elementi che deponevano per un qualche inserimento dell’istante nel contesto lavorativo del paese di approdo.

Era superflua ogni indagine circa la situazione acquisita in Italia, che il giudice di merito ha comunque svolto (cfr. decreto, pag. 109, fermo che tale parametro può essere valorizzato non come fattore esclusivo, ma solo come circostanza che può concorrere ad integrare i presupposti per il rilascio del permesso per ragioni umanitarie (Cass. 4455/2018; Cass. s.u. 29459/2019).

Il ricorso è quindi respinto, con aggravio di spese secondo soccombenza.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 2100,00 per compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda sezione civile, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2021

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