Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6453 del 09/03/2021

Cassazione civile sez. II, 09/03/2021, (ud. 22/09/2020, dep. 09/03/2021), n.6453

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubalda – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23054-2019 proposto da:

D.B., rappresentato e difeso dall’Avvocato DANIELA GASPARIN

ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in MILANO, VIA

LAMARMORA 42;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore,

rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 è

domiciliato;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 5537/2019 del TRIBUNALE di MILANO del

29/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

22/09/2020 dal Consigliere Dott. BELLINI UBALDO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, depositato in data 18.6.2018, D.B. proponeva opposizione avverso il provvedimento di diniego della domanda di protezione internazionale, emesso dalla competente Commissione Territoriale il 5.3.2018 e notificato il 23.5.2018, eccependo, in via preliminare, l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 13 del 2017, convertito nella L. n. 46 del 2017, per violazione degli artt. 77 e 111 Cost.; nel merito, chiedeva il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, ovvero, in subordine, del diritto al rilascio di un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie.

Sentito dalla Commissione, il ricorrente dichiarava di essere cittadino senegalese, nato e vissuto a Pikine e poi a Parcelle, nella regione di Dakar, di etnia wolof e di religione musulmana. Aggiungeva, tra l’altroiche la sua famiglia viveva a Dakar e il ricorrente manteneva contatti con la stessa. Lasciava il suo Paese nel 2015 e, dopo aver soggiornato in Mali e Libia per quattro mesi, faceva ingresso irregolarmente in Italia. Quanto alle ragioni che lo avevano spinto a partire, dichiarava di aver perso la mamma quando era piccolo e che dopo un anno il padre si era risposato con un’altra donna che non lo aveva accettato e lo maltrattava, riuscendo a convincere il padre a mandarlo via di casa all’età di 15-16 anni; (Ndr: testo originale non comprensibile) trovato ospitalità presso alcuni amici. Dopo qualche tempo gli amici avevano iniziato a prenderlo in giro dicendo che non aveva un posto dove andare e quindi il ricorrente si era trasferito in Mali, dove aveva lavorato per un breve periodo finchè era riuscito a mettere da parte i soldi per raggiungere la Libia, dove era stato imprigionato per due mesi e maltrattato fino a che la zia paterna non gli aveva mandato dei soldi che aveva utilizzato per uscire di prigione e imbarcarsi per l’Italia, dove era ospitato da un suo connazionale a Ravenna. In caso di rimpatrio, temeva di non essere accettato dalla sua famiglia e di non reperire un lavoro.

Con Decreto n. 5537 del 2019, depositato in data 29.6.2019, dichiarata manifestamente infondata la questione di illegittimità costituzionale, il Tribunale rigettava il ricorso, condividendo la valutazione espressa dalla Commissione Territoriale.

Quanto alla protezione sussidiaria, non sussistevano i presupposti per il riconoscimento. Il Tribunale sottolineava che il Senegal, dalle informazioni aggiornate, risulta essere un paese in via di sviluppo con un’economia più avanzata rispetto a quella dei paesi vicini. La zona di provenienza del ricorrente non presentava situazioni di criticità particolare.

Anche riguardo alla protezione umanitaria, non sussistevano le condizioni per il suo riconoscimento. Infatti, nella fattispecie, per quanto atteneva al Paese d’origine e alle vicende personali, non erano stati allegati dal ricorrente fatti diversi da quelli posti a fondamento della domanda di protezione sussidiaria, ed essi non assumevano rilievo significativo ai fini della richiesta di protezione umanitaria, non ravvisandosi la violazione dei diritti umani fondamentali.

Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione D.B. sulla base di tre motivi. Resiste il Ministero dell’Interno con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8, lett. d), in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. – Il Tribunale di Milano, nel valutare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, pur avendo individuato nei motivi di persecuzione il fatto che il ricorrente fosse “figlio di altro letto” rispetto al secondo matrimonio del padre, ometteva di accertare che tale caratteristica personale potesse essere individuata come appartenenza a un determinato gruppo sociale”. Secondo il ricorrente l’essere “figlio di altro letto” indicherebbe una caratteristica personale e sociale che individua un determinato gruppo sociale che presenta caratteristiche peculiari ben distinguibili e determinate. L’interpretazione estensiva della norma citata consentirebbe di includervi gruppi di individui che sono trattati come inferiori agli occhi della legge, di modo che lo Stato rifiuta di invocare la legge a tutela di tale gruppo o comunque ne tollera la persecuzione da parte di agenti privati.

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – Nella fattispecie (come correttamente posto in rilievo dal Collegio), non poteva parlarsi di persecuzione rilevante ai fini del riconoscimento dello status di rifugiato, in quanto i maltrattamenti subìti in ambito familiare non erano sorretti dai motivi tipizzati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 8 (razza, religione, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale, opinioni politiche). Nè ricorreva il concreto pericolo di un danno grave alla persona in quanto i maltrattamenti della matrigna erano finalizzati all’esclusione del ricorrente dalla vita familiare.

Peraltro, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, l’essere “figlio di altro letto” rappresenta non già un determinato gruppo sociale avente rilievo normativo, bensì una mera situazione di fatto, che non possiede incidenza nella affermazione o meno della sussistenza di un motivo tipizzato.

Laddove, la relativa valutazione di tale configurabilità costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr. sempre Cass. n. 3340 del 2019, cit.).

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Sul diritto al riconoscimento dello status di protezione sussidiaria. Violazione e falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 6, 14 e 17, D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8 e 27, artt. 2 e 3 CEDU, nonchè omesso esame di fatti decisivi in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Il Tribunale di Milano ha totalmente omesso di verificare la sussistenza, in caso di rimpatrio, del rischio di subire un grave danno come previste disciplinato dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), omettendo di valutare la condizione personale del ricorrente e la sussistenza di gravi motivi umanitari che ne impediscono il rimpatrio ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 15”.

2.1. – Il motivo è inammissibile.

2.2. – Occorre qui ribadire (quanto al richiamo dei parametri evocati) che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme asseritamente violate, ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione. Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 6259 del 2020; cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019 e Cass. n. 393 del 2020, rese in controversie analoghe a quella odierna).

2.2.1. – Dal canto suo, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nella novellata formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis) consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio di omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Ma, nei motivi in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c., non v’è specifica adeguata indicazione.

Laddove, poi, si presenta altrettanto inammissibile l’evocazione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 con riferimento non già ad un “fatto storico”, come sopra inteso, bensì a questioni o argomentazioni giuridiche (Cass. n. 22507 del 2015; cfr. Cass. n. 21152 del 2014); ciò in quanto nel paradigma ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non è inquadrabile il vizio di omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass. n. 26305 del 2018).

2.3. – Tanto premesso, con riguardo alle argomentazioni difensive che investono la valutazione di non credibilità delle dichiarazioni del richiedente, ritenute espressione di un giudizio soggettivo ed arbitrario, non fondato su elementi oggettivi, rileva il Collegio che – come ancora recentemente chiarito da Cass. n. 22717 del 2019; Cass. n. 31481 del 2018; Cass. n. 16295 del 2018, in tema di valutazione della credibilità soggettiva del richiedente e di esercizio, da parte del giudice, dei propri poteri istruttori officiosi rispetto al contesto sociale, politico e ordinamentale del Paese di provenienza del primo – la valutazione del giudice deve prendere le mosse da una versione precisa e credibile, benchè sfornita di prova (perchè non reperibile o non richiedibile), della personale esposizione a rischio grave alla persona o alla vita: tale premessa è indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento istruttorio ed informativo officioso sulla situazione persecutoria addotta nel Paese di origine (cfr. Cass. n. 21668 del 2015; Cass. n. 5224 del 2013).

Inoltre, Cass. n. 30105 del 2018 ha sancito che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati…”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo, per contro, addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte.

2.4. – Nella specie, il Tribunale (sulla base di una analitica valutazione delle alquanto contraddittorie affermazioni del richiedente) ha espresso un giudizio negativo sull’idoneità del racconto e sulla credibilità del richiedente in modo del tutto conforme ai parametri imposti dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.

Si tratta, come appare evidente, di accertamenti in fatto, che non possono essere in questa sede messi in discussione se non denunciando, ove ne ricorrano i presupposti (qui, invece, insussistenti), il vizio di omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo introdotto dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 134 del 2012 (applicabile ratione temporis) come delimitato, quanto al suo concreto perimetro applicativo, da Cass., sez. un. 8053 del 2014. Laddove, il ricorrente neppure deduce circostanze fattuali che non sarebbero state valutate dal giudice di merito e che risulterebbero decisive nel senso voluto, prospettandosi, al più, con giudizio meramente contrappositivo, l’idoneità del racconto a configurare i presupposti per l’accoglimento della domanda.

2.4.1. – La nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), dev’essere interpretata in conformità della fonte urounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18 dicembre 2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi (ffl cui è esposta in generale la popolazione di un paese o di una parte di esse di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave (v. 26 Considerando della direttiva n. 2011/95/UE), sicchè “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (v., in questo senso, Corte Giustizia UE 17 febbraio 2009, Elgafaji, C465/07, e 30 gennaio 2014, Diakitè, C285/12; v. Cass. n. 13858 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018).

Nel caso di specie, il giudice di merito ha puntualmente valutato la situazione del paese di origine del richiedente, giungendo ad escludere la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), all’esito di un’articolata analitica valutazione desunta da numerosi siti internazionali accreditati, senza peraltro che il ricorrente abbia, in senso contrario, addotto altre fonti, essendosi limitato a contestare quanto in quelle affermato.

Anche tale accertamento implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato (come sopra già sottolineato) può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

2.5. – Resta dunque da porre in evidenza come le censure, nel loro complesso, si risolvano nella sollecitazione ad effettuare una nuova valutazione di risultanze di fatto come emerse nel corso del procedimento, così mostrando alla ricorrente di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, nel quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e vicende processuali, quanto ancora gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 3638 del 2019; Cass. n. 5939 del 2018).

Invero, compito della Cassazione non è quello di condividere o meno la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008), dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 9275 del 2018); ciò che nel caso di specie è ampiamente dato riscontrare.

3. – Con il terzo motivo, il ricorrente censura la “Violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, art. 19, comma 2 e art. 10 Cost., comma 3. Motivazione apparente in relazione alla domanda di protezione umanitaria e alla valutazione di assenza di specifica vulnerabilità; omesso esame di fatti decisivi circa la sussistenza dei requisiti di quest’ultima – omessa considerazione della situazione personale del ricorrente anche in comparazione con la situazione oggettiva in cui verrebbe a trovarsi in caso di rimpatrio”.

3.1. – Il motivo è inammissibile.

3.2. – In ordine alla verifica delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria – al pari di quanto avviene per il giudizio di riconoscimento dello status di rifugiato politico e della protezione sussidiaria – incombe sul giudice il dovere di cooperazione istruttoria officiosa, così come previsto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, in ordine all’accertamento della situazione oggettiva relativa al Paese di origine. Nella specie, il Tribunale territoriale non ha violato il suddetto principio nè è venuto meno al dovere di cooperazione istruttoria, avendo semplicemente ritenuto, a monte, che i fatti lamentati non costituiscano un ostacolo al rimpatrio nè integrino un’esposizione seria alla lesione dei diritti fondamentali alla luce della disciplina antecedente al D.L. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito nella L. 1 dicembre 2018, n. 132 (che non è applicabile ratione temporis alla fattispecie, non avendo tale normativa efficacia retroattiva secondo quanto affermato dalle sezioni unite di questa Corte: Cass., sez. un., n. 29459 del 2019).

3.3. – Quanto infine al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero questa Corte (Cass. n. 4455 del 2018; e successivamente Cass., sez. un., n. 29460 del 2019) ha precisato che “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza”.

A tal riguardo il motivo appare inammissibile anche alla luce della valutazione comparativa espressa dal giudice di merito con esaustiva indagine circa le condizioni descritte dello straniero con riguardo al suo paese di origine ed all’integrazione in Italia acquisita, in sè evidentemente non rivalutabile in questa sede.

4. – Il ricorso va dunque rigettato. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare a controparte le spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2021

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