Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 6407 del 28/02/2022

Cassazione civile sez. trib., 28/02/2022, (ud. 27/01/2022, dep. 28/02/2022), n.6407

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19242/2015 R.G. proposto da:

G.F.P., rappresentato e difeso dall’avv. Giorgio

Sbarbaro, presso cui elettivamente domicilia in Roma alla via

Eleonora Duse n. 37;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

rappresentata, ai soli fini dell’eventuale partecipazione

all’udienza dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui ha

domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– resistente –

avverso la sentenza n. 382/1/15 della Commissione tributaria

regionale del Lazio, pronunciata in data 25 novembre 2014,

depositata in data 27 gennaio 2015 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 gennaio

2022 dal consigliere Andreina Giudicepietro.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

G.F.P. ricorre con tre motivi contro l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n. 382/1/15 della Commissione tributaria regionale del Lazio, pronunciata in data 25 novembre 2014, depositata in data 27 gennaio 2015 e non notificata, che ha rigettato l’appello e la domanda cautelare del contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnativa dell’avviso di accertamento con cui l’amministrazione finanziaria aveva determinato maggiori imposte ai fini Irpef e relative addizionali in relazione all’attività di amministratore di fatto che il contribuente aveva svolto per quattro società nell’anno di imposta 2006, senza presentare dichiarazione dei redditi;

con la sentenza impugnata, la C.t.r., preso atto che l’accertamento nasceva da indagini bancarie, dalle quali erano emersi numerosi versamenti privi di giustificazione, riteneva che l’atto impositivo fosse sufficientemente motivato, che non fosse necessaria l’allegazione della segnalazione della Direzione regionale del Lazio, che il contribuente non avesse fornito idonei elementi di prova contraria avverso le presunzioni conseguenti ai controlli bancari;

a seguito del ricorso, l’Agenzia delle entrate è rimasta intimata;

il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 27 gennaio 2022, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197;

l’Agenzia delle entrate ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

con il primo motivo, il ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione di norme di diritto e l’omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonché la nullità dell’avviso di accertamento per la violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42;

il ricorrente rileva che nella sentenza impugnata si afferma che “l’avviso di accertamento nei confronti del contribuente, veniva emesso, in special modo, sulla base delle movimentazioni bancarie riguardanti i conti correnti intestati al contribuente medesimo”;

in tale affermazione, secondo il ricorrente, vi sarebbe la prova della assoluta carenza di motivazione dell’avviso di accertamento e dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio;

infatti la c.d. “distinta analitica delle movimentazioni bancarie”, evidentemente richiamata nell’avviso di accertamento, non era un atto proveniente dalle banche indicate (Cassa di Risparmio di Firenze, Banca Marche e Credito Bergamasco), ma una mera elencazione predisposta dalla stessa amministrazione finanziaria e priva di un qualsiasi valore probatorio;

secondo il ricorrente, nelle motivazioni dell’avviso di accertamento si farebbe riferimento ad una “Segnalazione della Direzione Regionale del Lazio – Settore Controlli, Contenzioso e Riscossione – Ufficio Antifrode” sulla quale si baserebbe l’accertamento stesso;

tale segnalazione non era stata allegata, né altrimenti portata a conoscenza del ricorrente, né infine si poteva sostenere che ne era stato riportato il “contenuto essenziale”, come ritenuto dalla C.t.r. nella sentenza impugnata;

inoltre, il ricorrente sostiene che tutto l’avviso di accertamento si fondava su presunte informazioni assunte dal sistema bancario, per lo più c.d. “operazioni extra conto”, ma non era allegato alcun documento proveniente dalle Banche indicate (Banca Marche, Credito Bergamasco e Cassa Risparmio di Firenze) dal quale potesse desumersi la veridicità delle informazioni utilizzate;

rileva il ricorrente che nell’avviso di accertamento l’ufficio si era limitato a riportare i dati risultanti dalle verifiche effettuate;

il ricorrente lamenta ulteriormente di non essere stato avvisato dalle banche della richiesta di informazioni da parte dell’amministrazione finanziaria e di non aver avuto gli strumenti per verificare se tale richiesta di informazioni fosse stata o meno debitamente autorizzata D.P.R. n. 600 del 1972, ex art. 32, comma 75, in ciò concretizzandosi un’ulteriore violazione di norme di diritto;

in ogni caso il ricorrente rappresenta che la Corte Costituzionale, con la nota sentenza n. 228/2014, aveva dichiarato la incostituzionalità proprio del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 19, nella parte in cui prevedeva la presunzione di compensi imponibili per i prelievi effettuati dai conti correnti bancari, per cui, quand’anche l’Agenzia delle Entrate avesse prodotto la documentazione che afferma essere esistente, l’avviso di accertamento avrebbe comunque dovuto essere dichiarato illegittimo;

il ricorrente deduce di aver formulato tale eccezione nella memoria prodotta dinanzi alla Commissione tributaria regionale, ma che non era stata presa in alcuna considerazione dalla stessa Commissione;

con il secondo motivo il ricorrente si duole della rilevanza della presunta qualifica di “amministratore di fatto”, deducendo di aver contestato nel ricorso in appello l’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado, per la quale “detto elemento (la presunta qualifica di amministratore di fatto del ricorrente) non ha inciso sulla sussunzione della tipologia di reddito indicato a presupposto della pretesa impositiva”;

sul punto vi era stata una totale omissione da parte della sentenza della Commissione tributaria regionale, malgrado costituisse un fatto decisivo per il giudizio;

secondo il ricorrente, l’affermazione sarebbe peraltro smentita dallo stesso avviso di accertamento nel quale, alla pagina 3, espressamente si afferma che “emergono notevoli operazioni extraconto poste in essere nella qualità di delegato e/o soggetto con pieni poteri di firma per le società di cui è stato amministratore di fatto”;

afferma il ricorrente che, proprio per quanto asserito nello stesso avviso, sarebbero state le cd “operazioni extraconto”, poste in essere in tale qualità, alla base dell’accertamento, con la conseguenza della illegittimità dello stesso avviso anche sotto tale profilo;

con il terzo motivo, il ricorrente denunzia, sulla presunta correttezza della notifica dell’invito n. 100021/2011 in data 26/4/2011, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60 e dei richiamati artt. 137 e ss. c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

sul punto il ricorrente evidenzia che la sentenza impugnata affermava che l’invito al contraddittorio sarebbe stato correttamente notificato al contribuente in (OMISSIS), nella sostanza perché, malgrado la residenza ufficiale ed effettiva nel Principato di Monaco da molti anni (indirizzo correttamente utilizzato dall’Amministrazione per la notifica dell’Avviso di Accertamento), il contribuente avrebbe avuto un immobile in locazione a detto indirizzo per un lungo periodo di tempo;

secondo il ricorrente, la sentenza impugnata aveva motivato in aperta violazione delle norme di legge che regolano le notificazioni ed in particolare del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e degli artt. 137 e ss. c.p.c., adottando un’argomentazione assolutamente non giuridica e non sufficiente a superare il dettato della legge in tema di luogo delle notificazioni;

i motivi sono inammissibili ed infondati e vanno rigettati;

in tema di accertamento delle imposte sui redditi, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi;

a fronte di detta presunzione legale il contribuente è onerato di fornire la prova contraria, anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto a individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo (Cass. n. 19971 del 2016; Cass. n. 22502 del 2011);

la presunzione di riferibilità dei movimenti bancari ad operazioni imponibili si correla, infatti, ad una valutazione del legislatore di rilevante probabilità che il contribuente si avvalga del conto corrente bancario per effettuare rimesse e prelevamenti inerenti all’esercizio dell’attività d’impresa, onde alla presunzione di legge (relativa) non può contrapporsi una mera affermazione di carattere generale, né è possibile ricorrere all’equità (Cass. n. 13035 del 2012);

al riguardo, non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sul proprio conto corrente, dovendo il contribuente – e non già l’Amministrazione finanziaria fornire la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni, ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività (Cass. 4829/2015);

in relazione al primo motivo di ricorso, sicuramente inammissibile è ogni doglianza rivolta direttamente a far valere la nullità dell’avviso di accertamento e non eventuali vizi della pronuncia di appello;

con riguardo al mancato rilievo da parte del giudice di appello della nullità dell’avviso di accertamento per carenza della motivazione, il motivo è privo di autosufficienza, in quanto non riporta la motivazione dell’avviso di accertamento e mostra di confondere il profilo motivazionale con quello probatorio;

comunque deve rilevarsi che, nel caso di specie, la C.t.r. ha adeguatamente motivato sul punto, ritenendo che la motivazione dell’avviso di accertamento conteneva in modo chiaro e completo gli elementi di fatto ed i presupposti di diritto posti a sostegno della pretesa erariale;

il che, secondo la C.t.r., rendeva inutile un’ulteriore allegazione di atti rispetto a quelli già a conoscenza dell’appellante, anche con riferimento all’eccepita mancata allegazione della segnalazione della Direzione regionale del Lazio, che era un atto interno all’amministrazione, rispetto al quale, per costante giurisprudenza, non sussisteva alcun obbligo di allegazione;

risulta inammissibile anche la doglianza sull’inapplicabilità della presunzione legale relativa ai prelevamenti sul conto, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 288 del 2014, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, comma 1, n. 2), secondo periodo, limitatamente alle parole “o compensi”, ed ha ridefinito il perimetro applicativo della norma relativa ai prelevamenti;

invero, a seguito di tale sentenza, la presunzione legale si applica ai movimenti bancari di prelevamento, solo se essi riguardano un imprenditore e non un lavoratore autonomo;

ne consegue che in tema di accertamento, resta invariata la presunzione legale posta dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32 con riferimento ai soli versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, mentre è venuta meno l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale relativamente ai prelevamenti sui conti correnti (Cass. n. 16697 del 09/08/2016, Cass. n. 19029 del 27/09/2016);

il quadro normativo sopra delineato è richiamato solo genericamente dal ricorrente, che non contesta specificamente la qualificazione di esercente un’attività commerciale, né chiarisce quale sia la natura dell’accertamento e se lo stesso si riferisca ai soli versamenti o anche ai prelevamenti (circostanza che non emerge chiaramente dalla sentenza del giudice di appello, in cui si parla in un primo momento solo di versamenti e successivamente anche di prelevamenti);

parimenti inammissibili risultano il secondo ed il terzo motivo di ricorso;

in relazione al secondo motivo di ricorso, esso non è autosufficiente, in quanto non riporta il contenuto completo dell’avviso di accertamento e non ne consente alcuna verifica;

inoltre, il ricorrente riferisce un quadro fattuale apertamente confliggente con quello accertato dalla C.t.r.;

in particolare, secondo il ricorrente, nell’avviso di accertamento espressamente si afferma che “emergono notevoli operazioni extraconto poste in essere nella qualità di delegato e/o soggetto con pieni poteri di firma per le società di cui è stato amministratore di fatto”;

sostiene il ricorrente che, proprio per quanto asserito nell’avviso, alla base dell’accertamento vi sarebbero state le cd. “operazioni extraconto” poste in essere in qualità di amministratore di fatto, con la conseguenza della illegittimità dello stesso avviso;

tuttavia, il giudice di appello ha rilevato che l’avviso di accertamento emesso nei confronti del contribuente si basava, in special modo, sulle movimentazioni bancarie riguardanti i conti correnti a lui intestati;

sul punto, la C.t.r. ha osservato che le operazioni effettuate sul conto corrente bancario di un contribuente, come nel caso di specie, erano normalmente derivate dalla sua attività, con la conseguenza che si configurava una presunzione iuris tantum, la quale ammetteva la prova contraria, con l’onere probatorio, per il contribuente, di dimostrare che la situazione reale era diversa dalla ricostruzione effettuata dall’Ufficio;

a fronte delle affermazioni del giudice di appello, le contestazioni contenute nel motivo di ricorso risultano generiche e di difficile comprensione;

sotto diverso profilo, il ricorrente deduce di aver contestato nel ricorso in appello l’affermazione contenuta nella sentenza di primo grado, per la quale la qualifica di amministratore di fatto del ricorrente non aveva “inciso sulla sussunzione della tipologia di reddito indicato a presupposto della pretesa impositiva”;

secondo il ricorrente, su tale doglianza vi sarebbe stata una totale omissione da parte della Commissione tributaria regionale;

tuttavia, il ricorrente non ha trascritto, almeno nelle parti rilevanti, l’atto di appello, né ha compiutamente riportato la doglianza nella sua integralità, ciò al fine di renderla pienamente comprensibile e di consentire a questo Collegio la verifica – anche sotto il profilo della decisività e della non novità della questione – degli esatti termini nei quali il contribuente l’aveva prospettata;

infine, anche il terzo motivo è inammissibile, in quanto privo di rilievo decisivo, non essendovi alcun obbligo per l’amministrazione finanziaria di instaurare il contraddittorio preventivo in caso di indagine bancarie svolte esclusivamente sui conti e depositi bancari intestati al contribuente o riconducibili allo stesso;

in conclusione, il ricorso va complessivamente rigettato;

nulla deve disporsi in ordine alle spese in quanto l’Agenzia delle entrate non risulta ritualmente costituita.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 27 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2022

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